La coda di paglia di Sandro Viola recensendo Autodafè di Emanuele Ottolenghi cerca di dimostrare che i pregiudizi della stampa contro Israele non esistono
Testata: La Repubblica Data: 11 aprile 2007 Pagina: 47 Autore: Sandro Viola Titolo: «Discutere Israele»
Sandro Violarecensisce sulla REPUBBLICA delll'11 aprile 2007 il libro di Emanuele Ottolenghi"Autodafé - L´Europa, gli ebrei, l´antisemitismo". La recensione inizia con una sintesi mendace del contenuto del libro. Ottolenghi nega esplicitamente, infatti, che "la vera natura delle critiche a Israele" sia sempre l'antisemitismo. E' Viola che gli attribuisce, per comodità polemica, questa convinzione. Non le critiche, ma la demonizzazione, la delegittimazione, le false accuse, il costante processo secondo criteri non applicati a nessun altro Stato, sono il nucleo antisemita dell'ostilità verso Israele. Ma, una volta fatto dire a Ottolenghi che ogni critica a Israele è antisemitismo, Viola ha buon gioco a procedere a una confutazione generica, retorica e fondata su una petizione di principio. Se Ottolenghi avesse ragione, argomenta, "vorrebbe dire che decine e decine di reporters e commentatori d´ogni paese dell´Occidente hanno guardato in questi anni a quel che avviene nei Territori occupati, con una sola intenzione: diffamare, demonizzare Israele". Vi sono, infatti, moltissimi esempi di questo comportamento, ma Viola non entra nel merito. Si limita postulare che una simile conclusione sarebbe assurda e inaccettabile. Cita un solo dato, ripreso da Betselem, quello"delle vittime nel 2006: 23 israeliani (17 civili, 6 soldati) e 660 palestinesi. Metà dei quali (tra cui 141 donne e bambini) non prendevano parte agli scontri tra milizie ed esercito d´Israele." Dato che un giornalismo serio si impegnerebbe a spiegare: Israele protegge i suoi cittadini, la barriera di sicurezza funziona, i terroristi agiscono nascondendosi tra i civili, gli scontri interni tra le fazioni palestinesi aumentano il contro dei morti, e la listadelle atrocità. Viola preferisce invece utilizzare il dato per spiegare la "tendenza a dare più risalto alle rappresaglie israeliane che non alle minacce portate contro Israele: dai razzi Qassam lanciati sul Negev, agli attentatori suicidi arrestati ogni tanto dai servizi di sicurezza israeliani."Questa tendenza esiste concede Viola, "ma non sarebbe giusto concludere che ciò dipende, invece che dall´intento di demonizzare Israele, dalle dimensioni e frequenza delle azioni violente compiute dagli uni e dagli altri? Dal fatto, per intenderci, che l´anno scorso sono stati uccisi 660 palestinesi e 23 israeliani? " Per rispondere, facciamo un esempio del tutto casuale. Quello di una notizia che, se l'informazione fosse corretta, dovrebbe essere sui giornali il giorno in cui viene pubblicato l'articolo di Viola. Che dovrebbe essere su Repubblica, e invece non c'è. Dal sito israel.net: "Si è appreso martedì che un attentato di grandi dimensioni, che avrebbe investito la zona di Tel Aviv, è stato evitato a fine marzo, in occasione della pasqua ebraica, quando un terrorista di Hamas (dotato di carta d'identità israeliana per aver spostato un'araba israeliana di Taiba) era già riuscito a entrare in Israele a bordo di un’auto imbottita con 100 kg di esplosivo. Per qualche ragione, forse legata alle attività dei servizi di sicurezza, il terrorista è poi tornato a Kalkiliya (Cisgiordania) dove il veicolo è più tardi esploso in un “incidente sul lavoro” della struttura terroristica." Questa notizia, spiega, insieme ad altre simili, perché in Israele non si voglia più concedere il diritto al ricongiungimento famigliare ai palestinesi di Cisgiordania e Gaza. Ma, a differenza di tale questione, la notizia non trova spazio sui media. Non perché la violenza palestinese, che crea la necessità, per Israele, di difendersi, non ci sia, ma perché viene ignorata. L'esempio è casuale. Se scegliessimo un qualsiasi altro giorno ne potremmo fare un altro. Informazione Corretta documenta quotidianamente quest'opera sistematica di disinformazione.Tutti insieme, gli esempi delineano una precisa politca editoriale.
L'ultimo argomento di Viola rigurada "quel che Ottolenghi dice degli «intellettuali radicali ebrei» o ebrei-israliani: della loro tendenza a non perdonare alcunché ai governi di Gerusalemme, gareggiando addirittura con i più focosi dei critici non israeliani.""E´ vero anche questo", ammette. Ma allora, quelli che intellettuali non sono? Le "persone normali" di Betseleme e di "Rompere il silenzio" ? Qui Viola dimentica, semplicemente, che per essere estremisti politici non è necessario essere celebri intellettuali in viaggio tra le università del mondo intero. Ma ciò che davvero interessa a Viola, qui, è negare che, come sostiene Ottolenghi,"molti commentatori europei e americani si servano delle critiche che all´interno d´Israele la stampa «liberal» o di sinistra, e la maggior parte degli intellettuali, rivolgono ai loro governi" allo scopo di"coprire, legittimare il loro pregiudizio negativo nei confronti di Israele". No, ci rassicura Viola, il fine dei giornalisti è un altro:"dimostrare che non tutti gli israeliani erano d´accordo con i Netanyahu, con gli Sharon, con la classe politica che negli ultimi dieci anni ha man mano provocato - a furia d´inutili violenze, e brusche frenate ogni volta che si delineava una possibilità di trattativa - l´isolamento d´Israele nelle opinioni pubbliche occidentali." Ma questa spiegazione confema soltanto che il pregiudizio esiste. L'idea che gli israeliani debbano essere "discolpati" dall'appoggio alle politiche dei loro governi si fonda sull'assunto incrollabile che quelle politiche siano criminali, che le ragioni dei governi israeliani, e di chi le sostiene, non debbano nemmeno essere prese in considerazione. Francamente, quale altroStato, e quale altro popolo, vengono trattati in questo modo dall'informazione?
Che valgano come atti d'accusa contro Israele, o come prove a discarico per gli israeliani, le "critiche" degli "ebrei radicali", Viola lo conferma, fanno parte degli atti di un processo. Non hanno nulla a che fare con l'informazione, che presenterebbe anche le ragioni di quella maggioranza di israeliani che, come in ogni democrazia, hanno votato i governi in carica.
Ecco il testo:
La questione palestinese non è altro, come dice un famoso islamista, Bernard Lewis, «che un randello per poter picchiare gli ebrei»? A me la frase sembra assai infelice. Ma Emanuele Ottolenghi deve pensare che sì, proprio di questo si tratti: i palestinesi come un puro pretesto per scagliarsi contro Israele. L´imballaggio entro il quale dissimulare la vera natura, cioè a dire l´antisemitismo, delle critiche ad Israele. Questo è infatti l´argomento centrale del suo libro Autodafé - L´Europa, gli ebrei, l´antisemitismo (Lindau, pagg. 380, euro 24). Nel quale descrive il crescere dell´ondata antiebraica cui stiamo assistendo nei nostri paesi, dicendosi certo che il nuovo antisemitismo emerge da «un´atmosfera particolarmente critica e ostile nei confronti d´Israele, creata a bella posta da mezzi d´informazione e opinionisti». Che esistano ormai un pregiudizio e un´atmosfera anti-israeliani, è certo. Basta pensare agli idioti in keffia che spuntano così di frequente nelle piazze europee a scandire slogan pro-palestinesi e bruciare le bandiere d´Israele, o peggio ancora, al tentativo venuto da alcune università inglesi (e opportunamente bloccato dal governo Blair) di chiudere le porte ai docenti israeliani. E questo tralasciando gli episodi più infami, dagli scempi nei cimiteri ebraici alle bombe contro le sinagoghe. Il punto, quindi, non è la risorgenza d´un antisemitismo che adesso si presenta quasi sempre in veste d´antisionismo. Il punto sta nell´accertare se davvero, come sostiene Ottolenghi, questa atmosfera mefitica sia stata «creata a bella posta» dai giornali e televisioni dell´Occidente. Se Ottolenghi avesse ragione, vorrebbe dire che decine e decine di reporters e commentatori d´ogni paese dell´Occidente hanno guardato in questi anni a quel che avviene nei Territori occupati, con una sola intenzione: diffamare, demonizzare Israele. Che la condotta dei governi e dell´esercito israeliani nella Palestina occupata, non ha nulla a che fare con le critiche dei «mezzi d´informazione e degli opinionisti» alla politica d´Israele. Il fatto che quei giornalisti abbiano visto da vicino le cannonate o i missili aria-terra contro le abitazioni civili; che abbiano appreso degli indebiti espropri di terre, delle deviazioni di acque a favore degli insediamenti ebraici, e dei coloni israeliani che spiantano (senza mai essere trascinati in un tribunale) gli ulivi dei palestinesi; che abbiano letto sugli stessi giornali di Tel Aviv e Gerusalemme dei maltrattamenti di vecchi e donne ai posti di blocco, tutto questo non conta. A sentire Ottolenghi, la sola cosa certa è il subdolo intento con cui reporters e commentatori hanno voluto creare «un´atmosfera particolarmente critica e ostile nei confronti d´Israele». Una conclusione evidentemente inaccettabile. Autodafé è un libro utile, perché al pari d´altri libri pro-israeliani ricorda a chi tende a dimenticarlo, che Israele è stato molte volte costretto dalla storia (la sua storia, e quella della regione) a usare la forza. A fidarsi essenzialmente della sua capacità militare, perché a questo lo obbligava la pervicacia dell´ostilità araba: ostilità che è precedente, conviene ricordarlo, all´occupazione della Palestina nel ‘67. Questo è vero, e non a caso tanti critici della politica israeliana hanno nel luglio scorso pienamente giustificato, avallato, la risposta militare di Tsahal in Libano. Ma resta che i libri pro-israeliani non riescono a trovare l´equilibrio necessario a spartire le responsabilità d´un sessantennio di fallimenti sulla strada della pace in Palestina, e le attribuiscano invece tutte agli arabi. Così come resta che a leggere quei libri sembra che ogni critica dei «media» occidentali ad Israele porti le macchie della melma antisemita. Ho trovato molto interessante quel che Ottolenghi dice degli «intellettuali radicali ebrei» o ebrei-israliani: della loro tendenza a non perdonare alcunché ai governi di Gerusalemme, gareggiando addirittura con i più focosi dei critici non israeliani. E´ vero anche questo. Forse perché per molti mesi all´anno girano da una all´altra delle grandi università europee e americane, gli intellettuali israeliani di maggior prestigio sono portati ad accentuare le loro riserve e rampogne nei confronti della politica d´Israele. Essi vogliono farsi accettare, come dice Ottolenghi, quali «ebrei buoni» a petto dei «cattivi israeliani»? Preferisco non esprimere una mia opinione, lasciando l´onere del giudizio, per ora, ad Ottolenghi. Ma pongo un paio d´interrogativi. Quando in Israele vado ad informarmi negli uffici di B´Tselem, un´organizzazione che rileva le violazioni dei diritti umani nei Territori occupati, non ci trovo intellettuali. Trovo persone giovani, uomini e donne, che con pochi mezzi e una forte spinta morale sentono il dovere di non perdere di vista le violenze perpetrate nelle città e nei villaggi palestinesi. Sono loro, per esempio, che hanno messo insieme le cifre delle vittime nel 2006: 23 israeliani (17 civili, 6 soldati) e 660 palestinesi. Metà dei quali (tra cui 141 donne e bambini) non prendevano parte agli scontri tra milizie ed esercito d´Israele. Il primo interrogativo è quindi questo: cosa hanno a che fare i giovani di B´Tselem con i sofisticati intellettuali di cui parla Ottolenghi, a chi si rivolge il loro lavoro se non alla coscienza collettiva d´Israele? E un altro interrogativo. Formata da ex militari che hanno operato nei Territori, l´organizzazione Rompere il silenzio va denunciando da qualche mese i soprusi compiuti contro i civili palestinesi (già 400 testimonianze raccolte). Ora: questi giovani riservisti subiscono forse, come può succedere agli intellettuali in visita nelle università occidentali, il pregiudizio anti-israeliano dell´«intellighentsia» euro-americana? Io penso di no: quegli ex soldati non sono intellettuali, non vogliono presentarsi come «ebrei buoni» rispetto agli «israeliani cattivi». Intendono solo testimoniare che un paese democratico come Israele, un popolo con un profondo, dolente senso morale com´è il popolo degli ebrei, non dovrebbe infliggere ai palestinesi le dure prepotenze che vengono invece compiute ogni giorno in Palestina. Ottolenghi non si sbaglia, invece, quando sostiene che nei media occidentali esiste ormai una tendenza a dare più risalto alle rappresaglie israeliane che non alle minacce portate contro Israele: dai razzi Qassam lanciati sul Negev, agli attentatori suicidi arrestati ogni tanto dai servizi di sicurezza israeliani. Sì, anche questo è vero. Ma non sarebbe giusto concludere che ciò dipende, invece che dall´intento di demonizzare Israele, dalle dimensioni e frequenza delle azioni violente compiute dagli uni e dagli altri? Dal fatto, per intenderci, che l´anno scorso sono stati uccisi 660 palestinesi e 23 israeliani? Un ultimo appunto. Ottolenghi fa notare come molti commentatori europei e americani si servano delle critiche che all´interno d´Israele la stampa «liberal» o di sinistra, e la maggior parte degli intellettuali, rivolgono ai loro governi. E se ne servano per coprire, legittimare il loro pregiudizio negativo nei confronti di Israele. Anche qui, non capisco come all´autore di Autodafé non venga in mente che il ricorso alle critiche interne allo stesso Israele ha avuto un altro fine che non quello di «coprire» l´antisemitismo della stampa occidentale. Il fine di dimostrare che non tutti gli israeliani erano d´accordo con i Netanyahu, con gli Sharon, con la classe politica che negli ultimi dieci anni ha man mano provocato - a furia d´inutili violenze, e brusche frenate ogni volta che si delineava una possibilità di trattativa - l´isolamento d´Israele nelle opinioni pubbliche occidentali. Era questo, infatti, che i giornalisti volevano mettere in luce: che ci sono israeliani favorevoli al dialogo con i palestinesi, mortificati per le umiliazioni e le violenze che i palestinesi subiscono ogni giorno, e impazienti di veder avviarsi il negoziato che fisserà i confini dello Stato ebraico, le garanzie della sua sicurezza, la difficile - ma non impossibile - coesistenza dei due Stati.
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