"Revival sciita" in Iraq in Libano e in Cisgiordania
Testata: Il Foglio Data: 10 aprile 2007 Pagina: 3 Autore: la redazione Titolo: «Revival sciita/1. Moqtada rialza la testa ma non controlla i suoi - Revival sciita/2. Anche Fatah ha padrini e forzieri a Teheran»
Dal FOGLIO del 10 aprile 2007 un articolo sulla sfida dell'Esercito del Mahdi di moqtada Sadr.
Baghdad. Dopo un lungo silenzio, il leader sciita iracheno Moqtada al Sadr, strettamente alleato con l’ala estremista della dirigenza iraniana che fa capo a Mahmoud Ahmadinejad, è tornato sulla scena politica irachena con due iniziative clamorose, ma di segno opposto: l’appello a cessare immediatamente la resistenza ai soldati iracheni e alla forza multinazionale che da venerdì scorso hanno occupato Diwaniyah (città sciita a 180 chilometri a sud di Baghdad) e una grande manifestazione antiamericana a Najaf. In alcuni passaggi dell’appello a cessare immediatamente i combattimenti a Diwaniyah, Moqtada ammette esplicitamente di avere perso il controllo politico su parte delle sue stesse milizie armate della esercito del Mahdi: “Mi appello alle forze irachene e all’esercito del Mahdi a non cadere nella trappola dell’America ed a smettere di combattere a Diwaniyah. Voi contribuite al successo del nostro nemico comune, l’Iraq non può più sopportare tanto sangue versato. Gli agenti degli Usa hanno seminato la divisione tra i musulmani direttamente o grazie agli agenti che ne hanno venduto l’onore e la terra”. Una sconfessione piena, dunque, della decisione dei suoi ex compagni d’armi di resistere armi alla mano alla decisione del generale polacco Pawel Lamla (comandante delle forze multinazionali della regione di Qadissiya) di bonificare Diwanyia dalle forze dell’Armata del Mahdi, con l’operazione Black Eagle – che prevede l’imponente spiegamento di 3.300 militari, con consistente copertura aerea e con un eccellente risultato (60 combattenti uccisi o catturati) – tanto che il generale americano Michael Garret ha affermato che gli obiettivi dell’operazione sono stati raggiunti al 60-70 per cento. L’esplicita denuncia di agenti “che hanno venduto l’onore”, che hanno diviso la umma islamica e che “lavorano per il nemico” costituisce dunque la prima pubblica ammissione di Moqtada al Sadr della perdita di controllo sul suo stesso movimento armato. Costretto al ripiegamento dalla sua roccaforte storica di Sadr City a Baghdad, ormai stabilmente bonificata e controllata dai 15 presidi militari disposti a partire dal 14 febbraio dal generale David Petraeus, quasi sicuramente costretto a rifugiarsi in Iran per sfuggire a una cattura resa più facile dalle scissioni interne al suo movimento, Moqtada pare avere preso atto della disparità di forze sul terreno dello scontro militare – grazie anche alla tenuta delle forze regolari irachene che lo contrastano – per decidere la strada della mobilitazione popolare. In difensiva sul terreno dello scontro armato, Moqtada dimostra però di avere ancora un non disprezzabile seguito popolare (alle elezioni i suoi parlamentari eletti sono stati 32 su 275, il 12 per cento), tanto che decine di migliaia di sciiti hanno partecipato ieri alla manifestazione antiamericana partita dalla città santa di Kufa e giunta poi a Najaf. L’abituale confusione propagandistica sulle cifre non permette di comprendere la consistenza reale della manifestazione (ambienti vicino a Moqtada parlano addirittura di due milioni, fonti della polizia di decine di migliaia), ma è certo che masse consistenti di sciiti si sono mossi ieri da Kufa, nel quarto anniversario della caduta di Saddam e hanno marciato per 25 chilometri raggiungendo Najaf per protestare contro l’occupazione americana. Sventolando bandiere irachene e inalberando striscioni con scritte come “Morte all’America”, “No, no al colonialismo, all’America e a Israele”, i manifestanti si sono concentrati di fronte alla moschea di Kufa e si sono poi diretti in corteo verso la piazza Al-Sadrain, nel centro di Najaf. Sin da ieri sera il governatore di Najaf, Asaad Abu Kalal, ha vietato la circolazione delle auto, per sventare attentati. In una conferenza stampa a Baghdad, il contrammiraglio americano Mark Fox ha definito “libera e pacifica” la manifestazione anti-americana, mentre il generale Petraeus ha scritto una “lettera aperta” agli iracheni: “Manifestate pure contro di noi, quattro anni fa non avreste potuto farlo”.
E uno su Hezbollah sul sostegno iraniano ad Al Fatah:
Roma. Sfilato a Najaf, ieri l’orgoglio sciita è stato teatralmente rivendicato anche in Iran. Con la poderosa coreografia che si confà ai grandi annunci del regime, tra girotondi davanti alle installazioni, bandiere americane bruciate e sms di felicitazioni ai cittadini, Teheran ha celebrato la sua giornata nucleare con la sua buona novella atomica. Dopo giorni di indiscrezioni è spettato al capo dell’Organizzazione per l’ energia atomica iraniana, Gholamreza Aghazadeh, informare la nazione che il programma di arricchimento dell’uranio è entrato in una nuova fase, il “livello industriale”. La notizia è stata il fulcro del discorso tenuto da Mahmoud Ahmadinejad a Natanz, un intervento più interessante per le omissioni relative all’effettivo numero delle centrifughe che per i contenuti. A Natanz ci sono due cascate da 164 centrifughe ciascuna. Nei mesi scorsi il regime ha più volte indicato come imminente il salto a 3.000 centrifughe, ma il silenzio di Ahmadinejad su questo punto è stato letto da alcuni analisti come un’indicazione che la vaticinata “corsa senza freni” possa essere incappata in qualche intoppo tecnico. In mancanza di dati verificabili il raggiungimento del livello industriale è una freccia all’arco iraniano in caso di negoziati, negoziati che naturalmente non devono necessariamente produrre un accordo, ma tenere Teheran agganciata ad un processo. Un’impressione confermata dalla dichiarazione del capo del Consiglio per la sicurezza nazionale, Ali Larijani, secondo il quale la comunità internazionale deve accettare il programma nucleare iraniano come un dato di fatto. “Nella situazione attuale, allo stato delle attività nucleari iraniane, siamo pronti a raggiungere un compromesso con gli occidentali attraverso un vero negoziato”. A Natanz, con la consueta enfasi retorica, Ahmadinejad ha ringraziato gli scienziati iraniani denunciato l’ipocrisia delle grandi potenze e ribadito i “legittimi diritti” nucleari iraniani, invitando la comunità internazionale a collaborare con Teheran. Tiene alto lo stendardo dell’orgoglio sciita anche l’alleato libanese, Hassan Nasrallah. Il giorno di Pasqua ha parlato davanti ad una platea di 1.700 studenti di un’università che fa capo a Hezbollah criticando il premier Fouad Siniora e l’istituzione del tribunale internazionale sull’assassinio di Rafiq Hariri. Per Nasrallah i verdetti del tribunale risulterebbero “preconfezionati” e i generali arrestati per il coinvolgimento nell’agguato non sono che prigionieri politici. Quanto al braccio di ferro con il governo Siniora, Nasrallah ha proposto di indire un referendum o di convocare nuove elezioni perché l’organizzazione non ha intenzione di cedere al compromesso. Proprio per arginare il potere di Hezbollah e dei suoi padrini iraniani il presidente palestinese, Abu Mazen, ha costituito un team incaricato di recidere i legami tra il braccio militare di Fatah, le brigate al Aqsa ed il Partito di Dio di Hassan Nasrallah. Le infiltrazioni sciite sono un punto dolente per l’autorità palestinese. Fonti vicine al presidente Abbas riconoscono che l’ala militare di Fatah rappresenta “l’anello debole della catena”. Non è un mistero che è proprio in virtù della munificenza di Hezbollah che le brigate ignorano la tregua per seminare il terrore. Una circostanza che indebolisce il governo palestinese quando invoca il rispetto degli accordi da parte delle altre organizzazioni palestinesi. Il piano per troncare la dipendenza economica delle brigate al Aqsa è stato descritto dal governo come un “obiettivo chiave” per estendere il cessate il fuoco alla Cisgiordania.
Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail alla redazione del Foglio lettere@ilfoglio.it