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Il Foglio Rassegna Stampa
10.04.2007 La fortezza di Beaufort e il ritiro israeliano dal sud del Libano
al centro di un film premiato a Berlino, che spiega la forza di un paese che rispetta la vita umana

Testata: Il Foglio
Data: 10 aprile 2007
Pagina: 2
Autore: Rolla Scolari
Titolo: «In Israele si racconta la fortezza perduta per celebrare la forza del ritiro»
Dal FOGLIO del 10 aprile 2007:

Gerusalemme. Beaufort è una fortezza crociata del XII secolo e si trova su un monte al confine sud del Libano, in terra di Hezbollah. Adesso è un film, dell’israeliano Josepeh Cedar, sugli ultimi giorni di un’unità di Tsahal su quella cima, in attesa del ritiro dal Libano nel 2000. Ha vinto il premio per la miglior regia all’ultimo Festival di Berlino. Nel 1982, all’inizio dell’operazione “Pace in Galilea”, durante la guerra civile libanese, la brigata Golani strappò la vetta dalle mani dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina. Cedar, nella presentazione del film a Gerusalemme, ricorda i giorni passati a Beaufort, come militare di leva. La postazione era considerata fondamentale per la difesa del nord del paese. Il regista racconta gli ultimi giorni dei giovani soldati su quella montagna, diventata un simbolo dei 18 anni della presenza israeliana nel sud del Libano. “Se sei qui, sei qui per errore”, dice un militare a un commilitone appena arrivato, che morirà pochi istanti dopo cercando di disinnescare un ordigno. “E tu?”, chiede il nuovo arrivato al collega. “Volevo essere qui, questo è stato l’errore”. In Israele la pellicola ha attirato nella prima settimana e mezzo di proiezione 135 mila spettatori, mentre il paese attende i primi risultati di un’inchiesta sulla gestione dell’ultima guerra – quella dell’estate scorsa – contro Hezbollah. E l’establishment politico e militare è sotto accusa. Da Metulla, villaggio israeliano sul confine nord, finito sotto il fuoco dei katiusha di Hezbollah in agosto, si vede Beaufort a poca distanza, in territorio libanese. Cedar aveva già finito di girare quando la guerra estiva è scoppiata. Il conflitto “non ha cambiato un singolo frame della pellicola, ma il film è diverso a causa del conflitto”, ha detto riferendosi alla percezione del pubblico. E’ stato definito “il primo grande film di guerra israeliano”, potente e intenso. L’intera pellicola è girata all’interno della postazione: cunicoli sotterranei, blocchi di cemento armato e metallo, uniformi pesanti. Dopo un’ora e mezzo di proiezione, si esce con i muscoli che fanno male per la tensione. E’ una storia claustrofobica: si vive nel bunker, mentre i colpi di mortaio e i razzi di Hezbollah cadono sui punti d’osservazione dove sono i soldati. Il nemico sciita è invisibile, nascosto da qualche parte sulle colline circostanti; ma è invisibile anche Israele, dove è in corso un dibattito sulla fattibilità del ritiro dal Libano e da dove arrivano ordini insensati ai militari. La notte in cui l’unità lascia il colle, la base viene minata. Salta in aria mentre i carri armati si allontanano. “Certo, è un film contro la guerra – dice Cedar – e sulla difficoltà di capire che la montagna, un simbolo, ha perso il proprio valore”. Invece di contrattaccare, perché il ritiro è imminente, i soldati sono spediti all’interno del bunker, in un’interminabile attesa sotto i tiri che continuano a fare vittime e che accentuano sempre più l’ostinazione ingiustificata della permanenza sulla vetta. Il fuoco nemico aumenta. Come ricorda la tv israeliana, unica finestra sul mondo esterno della base, le milizie sciite libanesi puntano a fare apparire il disimpegno come una ritirata. “Se ci ritiriamo, andiamocene via. Se restiamo qui, facciamo il nostro lavoro”, dice Liraz, comandante 22enne, a un superiore arrivato per poche ore a dare la notizia di un disimpegno imminente di cui non si conoscono i dettagli. I soldati sentono l’abbandono. “La linea rossa tra l’eroismo e l’assurdità della guerra è veramente sottile”, ha scritto un critico. La missione diventa più futile nel momento in cui sanno di dover lasciar la base a breve. Il giovane Liraz è paralizzato, non sa come comportarsi nello stesso ruolo che prima era fonte d’orgoglio. Per Effi Eitam, deputato conservatore alla Knesset ed ex comandante dell’accademia ufficiali durante il 2000, ogni volta che si ammaina una bandiera e ci si ritira è una sconfitta. Per Cedar il ritiro è un atto di coraggio e al Foglio descrive Israele come un paese abbastanza fiducioso in se stesso da non attaccarsi alla simbologia di una montagna. “Quando Israele ha lasciato il Libano ha accettato di mettere da parte l’orgoglio, addirittura di ammettere una sconfitta parziale per salvare vite umane. Se c’è una differenza tra noi e i nostri vicini – dice Cedar – è il valore dato alla vita: si tratta di qualcosa di cui non dobbiamo avere vergogna”.

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