Talebani e democratici afghani per me pari sono un editoriale di Igor Man
Testata: La Stampa Data: 10 aprile 2007 Pagina: 35 Autore: Igor Man Titolo: «Chi affila il coltello talebano»
Nel suo commento sull'assassinio ad opera dei talebani di Adjmal Nashkbandi. Igor Manscrive che: "A Kabul non sono pochi coloro che addossano al premier Karzai la «responsabilità prima» dello sgozzamento del giornalista-interprete. Karzai avrebbe lasciato fare ai suoi «servizi» ed essi, nel momento dello scambio convulso (cinque Talebani per il giornalista italiano), catturarono con un tranello l’interprete Adjmal e il mediatore Hanefi, direttore dell’ospedale di Emergency a Lashkar Gah. Il primo, subito «dimenticato» da coloro che operavano il baratto, finì nella camera di tortura dei Talebani, il secondo lo avrebbero immediatamente messo in ghiacciaia quelli dell’intelligence di Karzai." Non è chiaro chi siano questi "non pochi" che a Kabul sarebbero convinti di quanto scritto da Man. In modo piuttosto trasparente, dietro lo schermo di questa folla anonima, l'esistenza della quale non può essere verificata, s'indovina la convinzione dello stesso Man e la sua volontà di equiparare i terroristi talebani al governo Karzai. Volontà spinta fino a dare apparentemente credito alle denunce di Emergency, smentite dalla Croce Rossa sul trattamento riservato al "mediatore" Hanefi.
Ecco il testo:
Il Destino è un regista crudele (e beffardo). Mentre l’Occidente cristiano ritorna sul mistero della morte e risurrezione di Gesù, Re mite, agnello esperto di perdono, i Talebani sgozzano, decapitano un giovine uomo innocente, un musulmano accusato d’essersi «venduto» agli infedeli. I Talebani sanno quanto la Pasqua sia per i cristiani momento unico di speranza. Pasqua viene dalla parola antica Pèsach, passaggio, in ebraico. Dalla morte al riscatto della vita. Dalla guerra alla pace. A Kabul anche i bambini sapevano che il giornalista Adjmal Naqshbandi (23 anni) era l’interprete dell’inviato di Repubblica Mastrogiacomo. Non una spia. A Kabul non sono pochi coloro che addossano al premier Karzai la «responsabilità prima» dello sgozzamento del giornalista-interprete. Karzai avrebbe lasciato fare ai suoi «servizi» ed essi, nel momento dello scambio convulso (cinque Talebani per il giornalista italiano), catturarono con un tranello l’interprete Adjmal e il mediatore Hanefi, direttore dell’ospedale di Emergency a Lashkar Gah. Il primo, subito «dimenticato» da coloro che operavano il baratto, finì nella camera di tortura dei Talebani, il secondo lo avrebbero immediatamente messo in ghiacciaia quelli dell’intelligence di Karzai. Quando Washington lasciò fare a Mosca
Perché? Per uno di quei compromessi «sudici» di cui è piena la letteratura spionistica. «Certi lavori sporcano le mani, ma con le mani pulite non catturi il nemico», dice il mitico «scolaro» di Le Carré. Solo che l’orrido balletto afghano è sanguinosa realtà. È la conseguenza d’una storia tormentata che comincia con l’indipendenza del paese (1919) proclamata da re Amanullah, leader dei Giovani afghani che s’ispiravano ai Giovani turchi di Atatürk. Una storia di equilibrismi politici quella dell’Afghanistan, angustiata da un vicino potente: il Pakistan. Per emanciparsi, l’Afghanistan s’appoggia all’Urss. Rimane un mistero la mancata reazione di Washington di fronte all’assistenza militare sovietica. Che porterà per «inerzia» al colpo di Stato del Pdpa, partito strutturato secondo il modulo sovietico. Di pari passo cresce col Pdpa il movimento islamista capitanato dai «professori di Kabul». Ed è dallo scontro, sempre più fitto e duro, tra queste due forze popolar-politiche che si arriva, da un golpe all’altro, al fatidico dicembre 1979, quando truppe sovietiche entrarono in Afghanistan. Di fronte al pericolo che l’Urss realizzi il sogno di Caterina II («i mari caldi aperti») si erige la «dottrina Carter»: gli Stati Uniti passano al contrattacco. Ma l’ingresso dell’Armata Rossa in Afghanistan dà ossigeno agli islamisti. Il resto è una guerra civile che vede l’Urss oramai in disfacimento «risalire le valli che aveva disceso con tanta orgogliosa sicurezza». Ma l’uscita dei sovietici dal fiero paese afghano non ha portato alla pace della ricostruzione. La dura parentesi dei Talebani teoricamente sconfitti sul campo «per saturazione» e in forza della spinta impressa alla dinamica americana dal terrorismo islamico suicida (un vero «movimento»), la sconfitta dell’islamismo «puro e duro» di Osama bin Laden, tutto questo dura lo spazio d’un mattino. Oggi l’Afghanistan vede il ritorno dei Talebani spegnere ogni speranza di pace interna. Il segreto d’una terribile forza
Ma chi sono questi Talebani? «Studenti del Libro», (presunti) lettori e banditori del Corano, si vuole siano una delle 77 sette dell’Islam pakistano. Combattenti nati, rapidi come camosci, orgogliosi della sconfitta inflitta all’Armata Rossa, seguono il loro capo, quel Mullah Omar che protegge l’ex palazzinaro saudita Osama bin Laden, carismatico leader che fu amato (brevemente) dall’Arabia e dagli Usa per aver condotto contro l’Urss una guerra senza quartiere, impasto di terrorismo e fideismo: Corano e moschetto. Studiosi del Libro o manipolatori del Corano, i Talebani? In maggior parte analfabeti, ignorano tutto del resto del mondo ed è qui, forse, la loro terribile forza: nella solitudine culturale ritrovano «lo spirito di Allah» in virtù del quale si sentono «chiamati» al terrorismo suicida. Lo considerano la morte sul campo, la via maestra che porta al paradiso. La loro «filosofia coranica» è: quel che non si legge nel Libro «non vale». Ma tanta rozza «purezza» semplicistica nella sua applicazione è anche la spia d’un mutamento malvagio. Oggi l’Afghanistan è il laboratorio dove si stanno studiando presente e futuro dell’Islam. È davvero ignobile il comportamento dei Talebani, la loro palese intenzione di sporcare la Pasqua dell’Occidente cristiano col sangue d’una «spia», anticipando d’un giorno la decapitazione per «avvelenare la festa pasquale agli infedeli». Epperò certi delitti la Storia li fa pagare, delitti di Stato, dico. Nel secolo XIX l’Emiro Abd el Kader, colui che Napoleone III intendeva nominare «imperatore degli arabi», si privava del proprio pasto per nutrire i prigionieri. Nell’Islam i doveri verso gli ospiti e i prigionieri sono identici a quelli riservati agli orfani. Nella Sura IX, versetto 5 leggiamo: «Se i prigionieri si convertiranno (...) lasciateli tranquilli, finché non tornino alle loro case lodando Iddio». Anche l’innocente giornalista afghano lodò il suo Dio quando apprese dello scambio di prigionieri. Ma l’ammazzano come un cane rognoso. Certi delitti si pagano con più alta moneta.
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