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loccidentale.it - Ragionpolitica Rassegna Stampa
09.04.2007 Le vere intenzioni dell'Arabia saudita
due analisi su un'iniziativa

Testata:loccidentale.it - Ragionpolitica
Autore: Dore Gold - Gabriele Cazzulini
Titolo: «Tutta la verità sull’offerta di pace araba a Israele»

Dal sito LOCCIDENTALE:IT, l'analisi di Dore Gold, ex ambasciatore israeliano all'Onu:

Durante la sua ultima visita in Israele, il segretario di Stato americano, Condoleeza Rice, ha dedicato particolare attenzione alla ripresa dell’iniziativa di pace araba formulata dai sauditi nel 2002. Questo ha fatto crescere le aspettative sulla possibilità che il summit della Lega Araba di Riyad fornisse una soluzione per la  ripresa del processo di pace con Israele.

Di sicuro, i diplomatici israeliani speravano che i capi di stato arabi adottassero una modifica del piano di pace che rimuovesse ogni riferimento al ritorno dei rifugiati palestinesi in Israele, considerato un ostacolo alle trattative da tutti i partiti politici del paese.

Quando ciò è apparso improbabile, in molti hanno ritenuto che in mancanza di cambiamenti nella forma della proposta, ci sarebbe stata almeno qualche dichiarazione a margine della conferenza, per andare incontro all’opinione pubblica israeliana.

Ma l’iniziativa di pace araba è partita col piede sbagliato, quando il ministro degli esteri saudita, Saud al Faisal, ha avvertito Israele che il rifiuto del piano avrebbe lasciato il suo destino nelle mani dei signori della guerra. Più che margini negoziali, a Israele è stato dato un ultimatum.

Questo non era lo stile né del presidente egiziano Sadat né del re saudita Hussein, ma si tratta di un modo alquanto grezzo per offrire a Israele una qualche forma di modus vivendi.

Inoltre, se Israele pensava che la diplomazia dell’ottimismo fosse basata su un coordinamento ben prestabilito tra Stati Uniti e Arabia Saudita, è rimasto completamente spiazzata dalle rivelazioni di Jim Hoagland sul Washington Post, secondo cui il re saudita Abdullah avrebbe cancellato la cena di gala di metà aprile con il presidente George W. Bush alla Casa Bianca. Nel corso dello stesso summit di Riyad, Abdullah si è lanciato in una forte critica verso gli Stati Uniti, definendo la presenza americana in Iraq come “un’illegittima occupazione straniera”.

L’Arabia Saudita ha dato dunque un chiaro segnale di cambiamento nella sua politica verso gli Stati Uniti. Hoagland ha appreso da fonti dell’amministrazione americana che Riyad ha deciso di cercare per il momento un terreno comune con Iran, Hamas e gli Hezbollah. Si capisce ora il motivo per cui i sauditi hanno scelto di rafforzare Hamas con l’Accordo della Mecca a spese di Mahmoud Abbas, che da allora è diventato politicamente sempre più marginale.

Se oggi l’Arabia Saudita ha deciso di prendere le distanze dagli Stati Uniti, come può Washington pensare che i tempi possano essere maturi per un riavvicinamento tra arabi e Israele sotto la sua egida? Scott Mac Leodd, del magazine Time, ha concluso che i sauditi hanno lasciato la Rice “in alto mare”.

Quando l’iniziativa saudita fu discussa nel 2002al summit della Lega Araba di Beirut, Hamas, colpì il Park Hotel in Netanya nel corso della Pasqua ebraica, uccidendo 29 israeliani e ferendone oltre 150. All’epoca, l’Arabia Saudita non lanciò alcun segnale ad Israele di essere seriamente intenzionata a favorire la pace tagliando i finanziamenti ad Hamas. Questi, infatti, superarono il cinquanta per cento delle risorse incamerate dall’organizzazione jihadista palestinese nel 2003.

Inoltre, i sauditi non si sono fatti avanti direttamente con Israele, ma hanno scelto di lanciare la loro iniziativa tramite Thomas Friedman sulle colonne del New York Times. Il mezzo era il messaggio. La figura chiave che manteneva i contatti con la stampa per i sauditi era Adel al Jubeir, spedito a Washington per riabilitare l’immagine del regno negli Stati Uniti. Era chiaro quindi che l’iniziativa saudita non era diretta verso Israele, ma all’opinione pubblica americana post 11 settembre, rimasta scioccata dalla notizia che 15 dei 19 attentatori di New York e Washington erano cittadini sauditi.
 
Il prezzo del ritiro israeliano.

Il vero problema dell’iniziativa di pace saudita va ben oltre la tanto discussa questione del “diritto di ritorno” dei profughi palestinesi. Il piano saudita richiede il “pieno ritiro” da “tutti i territori” che Israele ha occupato quarant’anni fa, con la guerra dei sei giorni del ’67, negando in questo modo la flessibilità che la risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza dell’Onu lascia intenzionalmente nella definizione dei confini territoriali.

Adottare il piano saudita per come è stato presentato porterà chiaramente ad una ri-divisione di Gerusalemme. Vorrebbe inoltre privare Israele di “confini difendibili”, che il Presidente Bush ha definito un diritto nell’aprile del 2004 in una lettera al primo ministro Sharon. Nel 2007, con il jihadismo qaedista che prende sempre più piede nella regione, le garanzie di sicurezza ricordate da Bush sono sempre più importanti.

Le rassicurazioni contenute nella lettera sono fondamentali e sono state la principale merce di scambio che Israele ha ottenuto per il disimpegno da Gaza. Ora però la lettera sembra caduta nel dimenticatoio. C’è infatti una contraddizione lampante tra il recente sostegno dell’amministrazione Bush al piano saudita e le rassicurazioni inviate per iscritto a Sharon solo tre anni fa.

Va detto che in passato Israele non ha dovuto pagare il prezzo di dichiararsi anche solo formalmente disposta al ritiro completo per negoziare con gli arabi. La conferenza di pace di Madrid del 1991 si è basata sulla risoluzione 242 e ha preparato la strada a un avvicinamento diplomatico tra Israele e i paesi del Golfo, Arabia Saudita inclusa. Se la 242 è stata sufficiente nel 1991, perché non dovrebbe esserlo nel 2007?

Anche la pace che i sauditi hanno proposto in cambio del completo ritiro non è come può apparire  ai poco informati. La promessa di una “relazione normale” con Israele riprende una formula diplomatica siriana risalente agli anni novanta, equivalente in realtà a una versione annacquata di quella pace “all’europea”  che si chiama “normalizzazione”.

Ciononostante, l’iniziativa saudita è considerata una grande opportunità per Israele e il mondo arabo: il ritiro completo in cambio della pace totale, anche se ci sono seri dubbi che questo sia il vero intento saudita.
 
La vera priorità dei sauditi: contenere l’Iran, non la pace con Israele

Oggi, come nel 2002, la pace con Israele non è tra le priorità del governo saudita. Il suo problema principale non è il conflitto tra Israele e palestinesi, nonostante la forte identificazione ideologica della monarchia con la causa palestinese. L’attivismo diplomatico saudita, invece, è dovuto alla minaccia rappresentata dal rapido espansionismo iraniano e alla debole risposta occidentale.

Ahamadinejad persegue l’obiettivo di una seconda rivoluzione khomeinista, il che comporta un’intensificazione degli sforzi iraniani nell’esportazione dello sciismo rivoluzionario ovunque sia possibile. In alcuni paesi a predominanza sunnita, quali ad esempio Sudan e Siria, gli iraniani sperano di convertire i sunniti allo sciismo. Nel Golfo, la componente sciita è già molto consistente. In Arabia Saudita, infatti, il principale elemento critico si trova nelle province orientali ricche di petrolio abitate a maggioranza da sciiti. Nel vicino Bahrein, da poco collegato all’Arabia Saudita con un ponte, l’80% della popolazione è sciita.      

Il potenziale per lo scoppio di una rivoluzione è altissimo. Nel 1979 e nel 1980, l’Iran khomeinista supportò l’insurrezione sciita nelle province orientali dell’Arabia Saudita. In base ai documenti del tribunale americano, responsabile degli attacchi alle Khobar Towers nell’est del regno fu Hizbullah al-Hijaz, un gruppo terrorista sciita manovrato da Teheran.

Che può fare l’Occidente? Dovrebbe rassicurare gli alleati del Golfo assumendo una condotta più decisa verso l’Iran. La Rice non sbaglia se intende favorire un avvicinamento tra Israele e paesi arabi approfittando dell’esistenza di un nemico comune, ma i suoi sforzi dovrebbero prendere strade completamente differenti.

L’Arabia sta affrontando una minaccia sunnita interna e una minaccia sciita esterna, per questo l’ultima cosa di cui ha bisogno è la presenza di negoziatori e giornalisti israeliani a Riyad. E con Hamas che è al potere nei territori palestinesi e si rafforza militarmente a Gaza, Israele non ha certo bisogno di sperimentare nuovi ritiri. In queste circostanze, contatti più discreti e meno pubblicizzati tra Israele e i suoi vicini hanno maggior senso di grandiose iniziative diplomatiche. Nella costruzione della pace, il tempo è essenziale.
 
Un approccio alternativo

Su cosa potrebbe incentrarsi un’iniziativa negoziale di questo tipo? In primo luogo, trovare punti di convergenza con quei palestinesi disposti a prendere le distanze dall’Iran. E se non emerge nessuna leadership palestinese, incoraggiare l’Egitto e la Giordania a impegnarsi seriamente nel contrastare la presenza terroristica che si annida al loro interno.

Al momento, però, non ci sono prove che questo sta avvenendo. Ma se l’Arabia Saudita sta cercando di accreditarsi come interlocutore costruttivo, dovrebbe utilizzare il suo peso politico ed economico dietro le quinte per neutralizzare quei gruppi che cercano di destabilizzare il Medio Oriente. Solo allora sarà possibile costruire i presupoosti per la pacificazione della regione.

Ad oggi, comunque, la priorità dell’Arabia Saudita è allineare gli arabi su una posizione comune per fronteggiare la sfida posta da Teheran. Riyad ha interesse ad includere anche Hamas nel fronte arabo antiraniano e non a favorire una forza più moderata che si contrapponga all’organizzazione jihadista palestinese e che rappresenti l’interlocutore d’Israele. Dato che per l’Arabia Saudita è più importante la questione iraniana che il conflitto israelo-arabo, Washington non dovrebbe essere sorpresa dall’esito del summit di Riyad.

Di seguito, il link all'articolo. Dalla pagina web cliccando su "e-mail" è possibile scrivere direttamente alla redazione de loccidentale:
http://www.loccidentale.it./?q=node/951

Dal sito RAGIONPOLITICA:

Nei tempi antichi l'atto di segnare i confini spettava soltanto alle spade dei sovrani a cavallo. Era un atto profondamente simbolico per esprimere la sovranità di un potere senza limiti che possedeva e manipolava il suo territorio definendone la superficie. Oggi quella spada si è trasformata in un'influenza più dispersa, che può assumere forme variabili ma non meno incisive. Ora la scimitarra con cui Abdul Aziz lanciò il jihad per conquistare il Neged, il nucleo della futura Arabia Saudita, torna a luccicare sulla bandiera verde.

Nel gioco di equilibri dinamici del Medioriente l'Arabia Saudita sta abilmente dispiegando un'iniziativa diplomatica sui principali punti di tensione. Dopo due anni di laceranti conflitti interni, l'Arabia Saudita è riuscita nell'arduo compito di far siglare un accordo di pacificazione tra le due opposte sponde della Palestina, Fatah ed Hamas. L'accordo per la formazione di un governo di «unità» nazionale ha stracciato gli sforzi dell'attivissima diplomazia egiziana, ora impelagata nella nuova crisi del potere di Mubarak e sempre percepita come lunga mano dell'America. Una volta formato il nuovo governo palestinese che invoca la rimozione dell'embargo finanziario internazionale, la conferenza della Lega Araba a Riad ha proposto la riapertura dei negoziati di pace con Israele - questa volta formando un fronte compatto che ha allineato i paesi arabi sulla Palestina.

Ancora una volta Israele è finita nell'angolo. Non ha commesso mosse false, ma soffre sulla sua pelle gli effetti di un'altra crisi, quella che attanaglia la leadership nella politica estera del suo protettore americano. Se lo speaker della camera dei rappresentanti organizza la sua personale politica estera, sostituendosi al segretario di stato, la sua spericolatezza diplomatica indebolisce la presenza americana in Medioriente. Se poi questa speaker in cerca di fama personale va in visita al presidente siriano quando gli Usa non hanno relazioni diplomatiche con Damasco dal 2003 e la Siria non fa niente per mimetizzare il suo fervente antiamericanismo, questo fa coprire di ridicolo l'America. Israele resta isolato di fronte ad un mondo arabo compatto come una volta e sotto l'autorevole leadership saudita.

L'altra egemonia nascente, quella della teocrazia iraniana, sembra già in declino. Il suo principale alleato nel campo sunnita è proprio la Siria, ma da quando i sauditi sono passati alla carica, l'asse Damasco-Teheran si sta sfilacciando. Anche la mano tesa ai sunniti dell'Iraq è un segnale di stop alla dilagante influenza iraniana. Quando (perché ormai è questione di tempo) gli americani lasceranno l'Iraq, Riad è pronta a sponsorizzare i sunniti iracheni qualora gli sciiti acquistassero troppo potere - cioè nel caso in cui la già robusta influenza iraniana superasse il limite di tolleranza. Palestina, Iran, Iraq e ora anche il Libano: l'avanzata saudita fa indietreggiare l'Iran. Il presidente del parlamento di Beirut ha richiesto la mediazione saudita sulla vertenza del tribunale internazionale che dovrebbe perseguire i responsabili dell'assassinio del premier libanese Hariri. E' significativo che tale richiesta provenga da Nabih Berri, leader del partito sciita Amal, la radice da cui è nato Hezbollah. Chiamare in causa l'Arabia Saudita finora è l'ennesimo colpo di coda per procrastinare l'instaurazione del tribunale che probabilmente incolperà la Siria per le sue indebite intromissioni nella politica interna del Libano. Ma resta una testimonianza del valore geopolitica dell'Arabia.

La sfera d'influenza di Riad sta estendendo il suo raggio a grandi passi, offrendo una sorta di arbitrato generale per allentare le tensioni locali. E' evidente l'utilità dell'iniziativa saudita soprattutto in funzione anti-terrorista. La «pax saudita» non ammette l'esistenza di una stabile rete sovversiva che sfida anche i governi arabi, sia sul piano teologico che politico. In questa fase congiunturale l'Arabia Saudita si fa quindi carico di un intervento salutare per impedire che le varie crisi possano combinarsi producendo un catastrofico effetto domino - specialmente quando la guerra generale è lo scenario pensato dagli strateghi iraniani. Però il secondo tempo di questa fase di mediazione saudita potrebbe vedere Riad che riannoda nelle sue mani i vari fili del potere mediorientale. Da arbitro a governante: l'impegno e l'investimento politico versato oggi dall'Arabia Saudita domani potrebbe essere lautamente ricompensato sottoforma di egemonia regionale. Tutte le strade porterebbero a Riad. Sarebbe un cambiamento epocale per il Medioriente, orfano dai tempi di Nasser di un leader panarabo. Quella volta finì in tragedia - e adesso?

! Gabriele Cazzulini
cazzulini@ragionpolitica.it


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