Israele colpevole di non cedere al ricatto di Hezbollah l'etica di Rula Jebreal
Testata: La Stampa Data: 08 aprile 2007 Pagina: 23 Autore: Alain Elkann Titolo: «“Voglio una tv che parli del mondo"»
Sulla STAMPA dell'8 aprile 2007, Alain Elkann intervista Rula Jebreal. Tra le affermazioni delle giornalista, spiccano un giudizio molto positivo sulla politica estera antisraeliana e sostanzialmente antiamericana del governo Prodi, un'ambigua frase che riconosce la natura democratica di Israele, ma implica che gli arabo-israeliani siano discriminati rispetto agli ebrei, un rimprovero ad Olmert per non aver realizzato la Road Map (Rula Jebreal non è a conoscenza del fatto che dopo il ritiro Gaza è diventata la base di continui attacchi a Israele? E che il primo punto della Road Map è la lotta al terrorismo mai attuata dall'Autorità palestinese?), ma soprattutto la condanna di Israele per il rifiuto di trattare per i soldati rapiti da Hezbollah.
Rula Jebreal non condanna l'organizzazione terroristica, ma il paese che ne subisce il ricatto, al quale ha deciso di non piegarsi.
Ecco il testo:
Rula Jebreal, a cosa sta lavorando? «Sto scrivendo il mio terzo libro, un saggio sull’immigrazione in Italia. Una sfida. Ho cominciato a lavorarci dopo l’11 settembre, quando si è creata una frattura tra Oriente e Occidente e tra cittadini autoctoni e immigrati, anche quelli che vivono qui da trent’anni. La verità è che, in Italia, il processo di integrazione non è mai veramente decollato. Si fanno due passi indietro e uno in avanti». Cioè? «È come una grande palla fatta di vetro, ferro, alluminio, elementi che rappresentano le diverse culture: la spingiamo con fatica in cima ad una collina, ma la palla, invece di rotolare dall’altra parte, una volta raggiunta la vetta, in realtà torna indietro e si deve ricominciare tutto daccapo. E’ una metafora, naturalmente, di questa situazione di paralisi. Succede lo stesso in altri paesi, in altri c’è più razzismo ma forse più integrazione». E come vive la sua situazione di palestinese di nazionalità israeliana? «Sono in Italia da quattordici anni. Quest’anno avrò la cittadinanza italiana. Dopo aver passato molti anni alla ricerca della mia identità penso di aver inglobato un pezzo della cultura italiana e averla mescolata a quella palestinese». Quest’anno passerà la Pasqua lontana da Gerusalemme? «Sono stata lì a Natale ed è successa una cosa straordinaria. Le festività ebraiche, cristiane e musulmane erano a pochissimi giorni l’una dall’altra: Gerusalemme sembrava unificata in una tregua, la città ha celebrato le feste in modo comunitario. Ho vissuto questa esperienza come un segno di speranza». Essere una palestinese-israeliana cosa vuol dire rispetto agli altri palestinesi? «Vuol dire godere un po’ più di diritti rispetto agli altri che vivono nei territori occupati». Con lo Stato di Israele che rapporti ci sono? «Quando vivi in uno Stato democratico che garantisce i diritti primari non vivi del tutto come un ebreo-israeliano, ma respiri comunque un’aria diversa, libera». Che cosa pensa di Olmert? «Sono delusa, mi aspettavo molto di più dal suo partito, mi aspettavo che la “road map” andasse avanti. Ma si è fermata per via della guerra libanese. Comunque vedo dei segnali positivi per il futuro». Come procede la sua carriera televisiva? «È in una fase di trattative. Ho lasciato Santoro perché vorrei occuparmi di temi che non vengono sviluppati in televisione, cioè di politica estera». Come vi siete lasciati con Michele Santoro? «Benissimo, ma gli ho detto che volevo fare altro e con lui avevo un contratto per tredici puntate». E con La7? «Ho un contratto di collaborazione per due anni. Ho riflettuto a lungo e ora ho bisogno di liberarmi dai contratti a tempo determinato. Sto sviluppando nuove idee e progetti per il futuro». Lei si considera una donna impegnata? «Sì, vorrei fare tutto quello che posso con i miei libri e con tutti i mezzi possibili. Anche con l’ausilio di documenti filmati, mi piacerebbe raccontare ciò che è poco raccontato in Italia, dove i protagonisti in televisione ormai non sono più i fatti, ma i giornalisti. Sto provando, insomma, umilmente e con pazienza a raccontare cose che non vengono raccontate». Qual è il suo giudizio sulla politica estera italiana? «Sotto molti aspetti è stato fatto un lavoro straordinario e anche il piano portato da D’Alema al Senato era un piano pragmatico, serio e di ampio respiro internazionale, anche se si è scontrato, e continuerà - temo - a scontrarsi, con frange minoritarie dell’Unione, che reagiscono alle proposte soltanto in termini ideologici». Per gli ostaggi si deve trattare, secondo lei? «Non spetta a me né giudicare né dare lezioni. Per me la vita umana conta tantissimo, anche una sola vita umana. Provengo da un posto dove i governi israeliani, in fasi alterne, hanno trattato con gli Hezbollah per i loro ostaggi facendo degli scambi. Quando Olmert ha deciso di fare la guerra per liberare tre ostaggi il risultato è che sono morti cento soldati israeliani, migliaia di libanesi e i tre ostaggi sono ancora in mano agli Hezbollah». Lei non ha voglia di tornare in Israele? «Sì, sempre. Adoro quel posto, mi piacerebbe poter vivere tra Roma e Gerusalemme. Quando sono in Israele difendo l’Italia, quando sono in Italia difendo i palestinesi». Che rapporti ha con gli ebrei israeliani? «Ottimi rapporti. Ho anche grande stima per intellettuali come Grossman, Oz, Yehoshua: li invidio per la loro capacità di esprimersi in modo così romantico e pieno di speranza, nonostante i drammi che hanno subito. Quando parlo con loro riesco a trovare una nuova fiducia, riesco a credere che la situazione cambierà. Loro riescono a dare speranza a tutti: israeliani o palestinesi che siano».
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