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Famiglia Cristiana Rassegna Stampa
07.04.2007 La guerra ha anche un altro volto
che il settimanale cattolico non mostra

Testata: Famiglia Cristiana
Data: 07 aprile 2007
Pagina: 0
Autore: Roberto Parmeggiani
Titolo: «Le colpe degli innocenti»
Famiglia Cristiana nel numero 14 on line pubblica un articolo di Roberto Parmeggiani intitolato “Le colpe degli innocenti”.

L’articolo prende in esame i danni causati dalle cluster bomb ai civili e in particolare ai bambini. Ma come è consuetudine del settimanale cattolico esiste solo una “versione” dei fatti e si omettono informazioni che sarebbero utili ai lettori per avere un quadro più obiettivo.

Innanzitutto è opportuno sottolineare che le cluster bomb sono ammesse dalla Convenzione di Ginevra, se utilizzate contro obiettivi militari legittimi, quali erano gli Hezbollah che nel luglio del 2006 hanno attaccato Israele lanciando missili sulle cittadine del Nord del paese. Inoltre nell’articolo è assente la notizia dell’uso dei medesimi ordigni cluster  da parte degli Hezbollah nei confronti della popolazione civile israeliana.

Da ultimo, in un Rapporto di Amnesty International pubblicato nel mese di settembre del 2006, emerge che Hezbollah, in un mese di conflitto , ha lanciato circa 4000 razzi sul nord di Israele, ha ferito decine di civili uccidendone più di 40 e costringendo migliaia di persone ad abbandonare le loro case per cercare riparo nei rifugi o, per chi aveva parenti e amici, nel sud del paese. Mentre Israele lasciava alla popolazione libanese il tempo di allontanarsi dalle zone di conflitto prima di bombardare e rinunciando spesso all’effetto sorpresa se capiva che sarebbe stata colpita la popolazione civile, i lanci dei razzi degli Hezbollah erano diretti proprio contro aree urbane e gli stessi missili contenevamo biglie di metallo provocando danni ai civili che non è difficile immaginare.

Il volto della guerra” non è solo quello dei bimbi libanesi feriti o mutilati ma di tutti i bambini, israeliani compresi, le cui sofferenze, ferite, traumi, troppo spesso passano sotto silenzio.

Eccolo, il volto della guerra. Quella che strazia i corpi e sconvolge le menti. La guerra silenziosa che uccide e mutila anche quando non c’è più, doppiamente subdola.

In Libano è così. Dopo il cessate il fuoco dello scorso agosto, i soldati israeliani non attaccano più il Sud del Paese in cerca dei miliziani di Hezbollah, le notti non sono più illuminate dai razzi, i giorni non sono più squarciati dalle esplosioni. Ma non tutte le armi tacciono.

C’è qualcosa che ancora continua a dilaniare, lacerare, spezzare. Qualcosa che continua a mietere vittime. Innocenti e incolpevoli come soltanto i bambini possono essere.

Sono le bombe a grappolo, le micidiali cluster bomb lanciate dagli aerei militari israeliani: nel territorio del Sud del Libano, secondo gli addetti sul campo delle Nazioni Unite, ne sono state sganciate un milione, e oltre 100.000 sono quelle tuttora inesplose. Cioè pronte a scoppiare, con tutta la forza devastante del loro carico di morte e dolore. Secondo le stesse fonti ufficiali, ogni giorno almeno due persone vengono mutilate o uccise da questi piccoli ordigni letali. E quasi sempre sono bambini.

Mohammad Al Haj Moussa è uno di loro. Palestinese, 11 anni, è nato e vive in un campo profughi del Libano meridionale, un ghetto che da 40 anni ospita in condizioni assai più che disagiate migliaia di famiglie profughe dai Territori occupati. Suo padre fa il contadino ed è povero persino per le sconsolanti statistiche socioeconomiche libanesi. Possiede un modesto campicello coltivato a ortaggi, che la guerra ha lasciato zeppo di bombe inesplose.

Qualche settimana fa, finite le scorte alimentari di casa, il padre di Mohammad si è trovato di fronte a un angosciante dilemma: doveva lasciar morire di fame la sua famiglia o rischiare la vita cercando di bonificare di persona il terreno per poterlo coltivare di nuovo? Vedere i figli deperire o accettare il rischio di farne degli orfani?

L’uomo ha rischiato. Ha preso il suo vecchio motorino ed è andato nel campo in cerca delle bombe a grappolo, con Mohammad sul sellino posteriore e una bisaccia a tracolla. Dentro, le cluster raccolte sul terreno. Poi, all’improvviso, una buca, uno scossone più forte degli altri. E le bombe raccolte sono esplose. Il padre si è salvato, uscendo praticamente illeso dal gran botto. Mohammad no: ha perso entrambe le gambe ed è rimasto ustionato su oltre il 50 per cento del corpo. Una devastazione. Una tragica mappa di segni rossi sulla pelle viva, che fanno venire alla memoria quelle dei bambini vietnamiti raggiunti dal napalm americano, tanti anni fa. Ferite tremende, insanabili. Soprattutto nell’animo.

Eppure Mohammad non si è arreso. Non potendo più correre sulle gambe, si è messo a farlo sulla sedia a rotelle. Il papà gliene ha trovata una e lui è diventato subito bravissimo a usarla. Come tutti i bambini, si è fatto vincere dalla voglia di vivere, non da quella di morire. Non così suo padre, affranto. Esattamente come gli altri genitori che hanno perso i figli (per intero, o per metà, come è accaduto al papà di Mohammad...), mentre erano fuori a correre in bicicletta, a giocare a pallone o a nascondino. Due, cinque, 10, 50: dopo un po’ i bambini del Sud del Libano hanno smesso di giocare, costretti dalle famiglie a starsene chiusi in casa. Per colpa di una guerra ormai finita, ma ancora capace di uccidere e dilaniare.

Storie vere. Storie tragiche. Raccolte in prima persona da Sylvia Eibl, presidente dell’associazione Children first - onlus. Ne avevamo parlato sul numero 36 dell’anno scorso, per raccontare di come era riuscita a restituire il sorriso a Sheezan, il piccolo pakistano che aveva perso un braccio nel terremoto dell’ottobre 2005. Dopo aver visto una sua foto, Sylvia era stata in Pakistan, lo aveva trovato e portato in Italia, a Budrio (Bo), dove gli aveva fatto applicare una protesi cinematica con dita artificiali capaci di afferrare gli oggetti.

«Con Sheezan ho realizzato un sogno. Lo stesso farò per Mohammad», dice Sylvia, che dal 2 al 10 marzo è stata in Libano dove, grazie anche all’aiuto dei nostri militari, è riuscita a "scovare" i bambini in peggiori condizioni. È dovuta entrare nelle roccaforti di Hezbollah, a volte dopo trattative lunghissime con i capi locali, che hanno accettato di farla passare solo dopo aver capito che quello che la anima è la volontà di aiutare chi soffre. E primi fra tutti i bambini, che non sono colpevoli di niente, di nessuna delle nefandezze degli adulti. E, tuttavia, le pagano tutte.

Ora, di quei bambini due verranno in Italia: Mohammad e un ragazzo di 14 anni, che ha perso un piede per lo scoppio di una bomba. Gli altri, una ventina, saranno curati a Beirut. In Libano ci sono ottime strutture sanitarie (almeno quelle sopravvissute a troppi anni di guerra), ma nei fatti non tutti riescono ad avere le cure di cui avrebbero bisogno. Così, in questi casi, Children first cerca di curare i bambini più gravi nel loro Paese, anche grazie all’impegno di un gruppo di medici italiani. Si tratta di interventi specialistici, fisioterapia, operazioni e chirurgia estetica.

Sylvia Eibl parte dai corpi dei piccoli feriti, per arrivare a una ricostruzione integrale. Fa venire in mente don Gnocchi, che subito dopo la fine della seconda guerra mondiale si mise a percorrere l’Italia in cerca dei mutilatini (anche loro venivano oltraggiati dalle bombe inesplose), che raccoglieva nelle sue case e faceva curare dai migliori medici, perché potessero riprendersi dalle ferite fisiche e da quelle psicologiche.

Dopo il primo intervento in Romania, nel 2002 (aiuti economici a famiglie povere), Children first si è data da fare in Palestina (culle termiche per i neonati immaturi dell’Holy Family Hospital di Betlemme) e in favore dei terremotati del Pakistan (cure mediche per i bambini gravemente feriti e una casa famiglia per piccoli orfani e donne rimaste sole).

E ora il Libano. Negli anni, l’associazione ha conservato la sua caratteristica saliente, quella per cui l’intero volume delle donazioni ricevute finisce ai beneficiari. «Le spese di gestione non assorbono nemmeno un centesimo, perché le paghiamo personalmente mio marito e io», dice Sylvia Eibl che, avviato il progetto in Libano, già si sta dando da fare per intervenire in un’altra zona martoriata della Terra.

«È il Darfur», spiega. «Ho già contattato l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, stanno per partire le procedure che ci consentiranno di recarci in uno dei campi profughi del Ciad, al confine con il Sud Sudan, dove si trovano 100.000 persone. Cureremo e sfameremo i loro 20.000 bambini e creeremo per loro asili nido, in modo che le madri possano farsi carico di quel minimo di economia di sussistenza che permetterà loro di non fare morire di fame la famiglia».

Per portare un po’ di sollievo ai profughi del Darfur, Children first chiede di essere aiutata a collaborare. L’associazione ha sede a Varese, dove Sylvia Eibl vive con il marito e i sette figli, in via Daniele Manin 70 (fax 0332/22.38.41, sito Internet www.childrenfirst.it). Per le offerte: conto corrente postale 72423569, oppure presso UniCredit banca, c/c 403899, ABI 2008, Cab 10800. Per il 5 per mille: codice fiscale 95051200129. E si può anche acquistare il cd musicale Paradise bird, nei negozi di dischi. 

«Non mi piace chiedere», dice Sylvia, «ma alle volte per dare bisogna prima ricevere. Soprattutto quando si tratta di aiutare bambini che non hanno più un futuro. Riportare il sorriso sul volto devastato di un piccolo che piange, io che dalla vita ho avuto tanto lo sento come un dovere. Un dovere cristiano».

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