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La Repubblica Rassegna Stampa
06.04.2007 I veri mali del mondo ? I pregiudizi contro l'islam e la persecuzione dei palestinesi
la cecità di Martha Nussbaum e Tzvetan Todorov

Testata: La Repubblica
Data: 06 aprile 2007
Pagina: 47
Autore: Elisabetta Ambrosi - Tzvetan Todorov
Titolo: «Perché il velo fa scandalo - Primo Levi La memoria del male non ne esclude il ritorno»

Ascoltare le denunce dei dissidenti del mondo islamico, per esempio sull'uso del velo come mezzo per affermare il potere fondamentalista  per sottomettere le donne?
No, per la filosofa americana Martha Nussbaum, intervistata da Elisabetta Ambrosi, la vera minaccia alla libertà in Europa sono oggi le leggi anti-velo e i pregiudizi contro l'islam.
Ayaan Hirsi Ali avrebbe fatto bene a trasferirsi in India, o nel Bangladesh musulmano  , dove le donne hanno più possibilità di contare nella vita politica e culturale che negli Stati Uniti ! Questo discorso, pronunciato da una docente universitaria di grande prestigio, americana, riguarda un paese, il Bangladesh appunto, dove è costume dei fondamentalisti punire le donne gettando loro in faccia dell'acido.
Ecco l'articolo:

L´intervista che anticipiamo comparirà sul sito dell´associazione Reset-Dialogues on Civilizations (www.resetdoc.org). Fa parte di un dossier sulle relazioni interculturali con contributi di Margalit, Kepel, Soroush, Al-Aswani, Lakhous e la Cavarero.
«Lei sa cosa disse il nostro primo presidente George Washington, motivando ai quaccheri la ragione per la quale non avrebbe richiesto loro di adempiere il servizio militare? "Gli scrupoli di coscienza di tutti gli uomini dovrebbero essere trattati con la più grande delicatezza e tenerezza". Ecco, vorrei vedere più di questa delicatezza e tenerezza in Europa».
Secondo la filosofa politica Martha Nussbaum, «è semplicemente spaventoso che le nazioni vogliano bandire il velo». La religione, e in particolare quella islamica, è compatibile non solo con la democrazia ma anche con i diritti delle donne (in questo senso il caso indiano è esemplare). Ciò che c´è di veramente sbagliato sono invece gli stereotipi occidentali sui musulmani e sul (malamente) detto «mondo islamico».
(...) Se persino nel ricco Occidente le donne soffrono di restrizioni di vario genere, non crede che i diritti di cui lei parla siano sistematicamente negati alle donne nel mondo islamico?
«Non penso che esista qualcosa come "il mondo islamico" e di conseguenza "una via" per essere donna al suo interno. Ci sono diversi tipi di musulmani e, così come nel caso dei cristiani e degli ebrei, le donne trovano diversi modi di essere all´interno delle loro tradizioni (...)».
Tuttavia, lei non potrà negare che esistono casi di drammatica tensione tra religione islamica e condizione femminile.
«Come esperta d´India, vorrei farle innanzitutto notare che le tre nazioni islamiche più grandi sono l´Indonesia, il Pakistan e l´India. (...) Proprio recentemente ho scritto un libro sulle tensioni tra indù e musulmani, per cui conosco bene questo tema (il libro è intitolato The Clash Within: Democracy, Religious Violence, and India´s Future, e uscirà in aprile). Ultimamente ci sono stati due importanti studi sulla situazione dei musulmani in India: uno commissionato dal governo e l´altro, focalizzato sulle donne, portato avanti da due eccellenti sociologi (...) Entrambe le indagini hanno rilevato che i musulmani sono drasticamente poveri e che soffrono di vari tipi di discriminazioni. Tuttavia, la condizione delle donne musulmane non è peggiore, a conti fatti, di quella delle donne indù in tutte le regioni: in altre parole, le variazioni significative sono regionali piuttosto che basate sulla religione. Le donne musulmane sono strenue sostenitrici dell´educazione delle loro figlie, e in molti casi il fatto che i loro figli maschi fronteggino discriminazioni sul lavoro le ha spinte a porre maggiore enfasi sull´educazione delle ragazze».
Insomma, potremmo parlare di un "caso indiano", che sembra smontare tutti gli stereotipi occidentali.
«Dovremmo ricordare che questi musulmani sono spesso molto devoti. Ad esempio, un musulmano estremamente religioso, Maulan Azad, è stato uno dei principali alleati del Mahatma Gandhi, e uno dei primi leader del partito del Congresso. Ma persone come lui non interpretano la loro religione in un modo che fa delle donne cittadini di seconda classe. Voglio ricordare che al tempo dell´indipendenza coloro che protestavano più animatamente contro leggi "progressiste", per esempio quelle che aumentavano l´età per il matrimonio, erano gli indù tradizionalisti. Le donne devono fronteggiare ineguaglianze in ogni regione dell´India, ma hanno gli stessi identici diritti come cittadini, ed esiste un fronte unito di donne e uomini che attraversa tutte le religioni e che combatte per l´eguaglianza sessuale contro i costumi repressivi. Non c´è dunque ragione per pensare che i musulmani siano maggiormente contrari all´eguaglianza femminile che gli indù o i parsi o i cristiani. In tutte le religioni ci sono persone sessiste. Le donne cristiane in India hanno avuto il diritto a divorziare, e in maniera drammaticamente travagliata, solo nel 2001, ben dopo che le altre religioni avevano ottenuto quel diritto».
Ma, appunto, questo esempio mostra l´esistenza di una difficoltà. Non a caso alcune intellettuali di peso, mi riferisco in particolare a Ayaan Hirsi Ali, arrivano persino a sostenere che l´Islam è contro le donne e che non c´è mediazione possibile.
«Quello che vediamo in alcune nazioni non è l´Islam in sé, ma una sua versione politicizzata che non è un´interpretazione obbligatoria dei suoi testi religiosi. Questo punto è stato sottolineato ripetutamente dai dissidenti delle società in cui questa versione politicizzata dell´Islam è influente, come Shiran Ebadi e Akbar Ganji in Iran. Entrambi sono musulmani devoti ed entrambi insistono, con argomenti convincenti, che non c´è nulla nelle loro proposte democratiche circa la parità dei sessi che sia incompatibile con l´Islam. Sfortunatamente, la gente occidentale spesso non sa molto dell´Islam, così mette in relazione l´intera religione con la sua versione politicizzata di cui magari ha sentito parlare».
Anche Hirsi Ali?
«Per quanto riguarda Hirsi Ali, penso che forse avrebbe dovuto trasferirsi in India invece che negli Usa: sicuramente avrebbe avuto migliori chance di avere un ruolo da leader nella vita politica o intellettuale di laggiù, come donna, di quanto ne abbia negli Stati Uniti. Potremmo anche citare il Bangladesh, una democrazia dove l´85 per cento della popolazione è musulmana e dove due donne (entrambe musulmane) sono a capo dei due principali partiti politici».
Arriviamo al problema della compatibilità tra Islam e democrazia. Lei sicuramente avrà notato che il livello della tensione è cresciuto, dopo i violenti attacchi a scrittori e registi occidentali da parte di islamici. Le cito a proposito una recente disputa tra Ian Buruma e Timoty Garton Ash da un lato, e Pascal Bruckner e Ayaan Hirsi Ali dall´altro, sulla possibilità o meno che l´Islam diventi liberale.
«Le persone che dubitano della possibilità di un Islam liberale dovrebbero andare a vivere in India per un po´. Per quanto riguarda il dibattito europeo, credo che esso sia basato sull´assunzione secondo cui essere un buon cittadino democratico significa accettare le norme e i comportamenti della maggioranza. Ma perché dovremmo pensar questo? Forse una buona democrazia è un posto dove le persone si esprimono ciascuna a proprio modo, e tuttavia vivono con gli altri rispettandosi reciprocamente. A questo proposito, sto finendo un libro sul tema della libertà religiosa nella tradizione americana e credo che per una volta tanto qualcosa vada detto in favore delle tradizioni della mia nazione. Qui le persone diverse dalla norma non solo ottengono scrupolosa giustizia, che persino John Locke auspicava, ma ottengono anche quelli che vengono chiamati diritti di "accoglienza" (rights of accommodation): ciò significa che non devono osservare alcune norme che peserebbero sulla loro coscienza, a meno che non ci sia uno "stringente interesse di stato"».
Può fare qualche esempio?
«Se tu sei ebreo e ricevi una citazione in giudizio per testimoniare in tribunale di sabato, puoi rifiutarti senza alcuna conseguenza penale. Se sei un prete cattolico romano, e stai testimoniando sotto giuramento in un processo criminale, puoi rifiutarti di diffondere le informazioni che hai avuto in confessionale, senza alcuna pena. Se la tua religione ti vieta il servizio militare, vieni esonerato dalla coscrizione militare, senza andare in carcere per il tuo rifiuto. Ancora: se la tua religione richiede l´uso di droghe illegali nelle cerimonie sacre, puoi essere esentato, relativamente a quel contesto, dalle leggi sulla droga. Io credo che questa tradizione di "accoglienza" esprima uno spirito di rispetto per le minoranze che vivono all´interno di maggioranze. Il nostro primo presidente George Washington, motivando ai quaccheri la ragione per la quale non avrebbe richiesto loro di adempiere il servizio militare, disse: "Gli scrupoli di coscienza di tutti gli uomini dovrebbero essere trattati con la più grande delicatezza e tenerezza". Bene, vorrei vedere più di questa delicatezza e tenerezza in Europa».
E come si potrebbe realizzare questo?
«Credo sia spaventoso che le nazioni vogliano bandire il tradizionale velo islamico. L´argomentazione secondo cui le donne velate in strada costituiscono un problema di sicurezza è davvero comica (...): noi abbiamo a che fare ogni giorno con persone dal volto coperto, dai chirurghi e dentisti agli abitanti di Chicago quando escono in inverno! E nessuno sostiene che ci sia un rischio per la sicurezza, fino a quando uno straniero la cui religione ci sembra non familiare vuole fare la stessa cosa per motivazioni religiose. Per fare un altro esempio: lo stato del New Jersey ha emanato una norma secondo cui nessun ufficiale di polizia può avere la barba e ha licenziato alcuni ufficiali musulmani che si erano rifiutati di radersi. Naturalmente hanno detto che si trattava di una questione di disciplina e sicurezza, ma alla fine è risultato che, in realtà, avevano già permesso ad alcuni poliziotti con problemi di pelle di tenere la barba. Per questo, giustamente, la Corte d´appello degli Usa ha deciso che gli ufficiali musulmani dovevano essere reintegrati senza obbligo di radersi. Insomma, la gente ama l´omogeneità, ma la legge deve difendere i diritti di chi è diverso».

Sempre sulle pagine di REPUBBLICA  Tzvetan Tdorov ricorda Primo Levi  e trae dalla sua opera un ammonimento: la Storia può ripetersi.
Ma Todorov non accenna all'11 settembre, né ai proclami genocidi di Ahmadinejad, né al Darfur.
Cita invece Guantanamo (dove i prigionieri sono regolarmente visitati dalla Croce Rossa) e le violenze ad Abu Ghraib (i cui responsabili sono stati processati e condannati).
E cita la "persecuzione dei palestinesi" da parte di Israele.
Che, semplicemente, non ha mai avuto luogo.

Ecco il testo:  

Primo Levi (1919-87) è il testimone esemplare di uno degli avvenimenti più strazianti della storia europea: la deportazione nei campi di concentramento e la riduzione in schiavitù di milioni di esseri umani, compiute dalla Germania nazista. Entrato giovane nelle file della resistenza italiana, Levi sarà arrestato nel 1944 e, in quanto ebreo, deportato ad Auschwitz da dove uscirà solo alla liberazione del campo avvenuta un anno dopo. Ritornato in Italia, nel 1946 scrive un libro di testimonianza in cui analizza l´esperienza vissuta: Se questo è un uomo. Un testo che passa inizialmente inosservato ma che, con il trascorrere degli anni, assume lo statuto di classico e spinge l´autore - in occasione di incontri con i lettori, di riedizioni del libro o di traduzioni in altre lingue - a ritornare costantemente sui temi trattati. Da queste meditazioni nascerà un nuovo libro, I sommersi e i salvati. Apparso nel 1986, un anno prima della morte, I sommersi e i salvati conclude una carriera letteraria iniziata quarant´anni prima e ci appare oggi come il testamento spirituale del suo autore. Secondo quanto afferma lo stesso Levi nel primo capitolo del libro, I sommersi e i salvati si distingue per due ragioni da Se questo è un uomo: qui predominano infatti più le riflessioni che i racconti, sebbene neanche questi siano assenti; e più della propria esperienza viene riferita l´esperienza degli altri deportati che Levi scopre leggendone le storie o ascoltandone le parole. Eppure, il messaggio dei due libri resta molto vicino. In entrambi. Levi afferma infatti con forza la nostra comune umanità - comune a tutti noi qualunque siano le nostre convinzioni e le nostre azioni. Nel suo primo libro l´autore poneva decisamente l´accento sull´umanità dei detenuti, sebbene fossero considerati dai loro carcerieri alla stregua di schiavi e sotto-uomini; nel secondo libro concede altrettanto, se non maggiore, spazio all´umanità dei guardiani, delle SS, dei tedeschi. Proprio qui sta la forza di Primo Levi: senza mai perder di vista la distinzione insormontabile fra Bene e Male, tener comunque conto di tutte le possibili sfumature. Levi riesce a mantenere questo difficile equilibrio: non diventare né nichilista, né manicheista, farsi carico di giudizi di valore senza tuttavia trasformarsi in rigido moralista. In lui le vittime non saranno mai idealizzate, e i carnefici non saranno demonizzati; lui, comunque, non confonderà mai carnefici e vittime.
I sommersi e i salvati sono una lunga arringa in favore della complessità, del rifiuto di accontentarsi di risposte facili, della necessità di un esame attento dei pro e dei contro. Ciascun capitolo «rende più complesso» un diverso tema. Il primo ci ricorda quanto la memoria sia fallace e quanto poco meriti una fiducia cieca, anche quando non sia manipolata al fine di provare l´innocenza di chi ricorda. Il secondo affronta il vasto spettro dei comportamenti umani che coesistono nel campo di concentramento e che vanno dall´innocenza più completa alla colpevolezza più totale - con sfumature infinite tra i due estremi. A dirlo è lo stesso Levi, in un´intervista rilasciata in occasione dell´uscita del libro: «Il capitolo centrale, il più importante del libro è quello intitolato La zona grigia». Dopo aver introdotto tale distinzione nei diversi gradi della «collaborazione», il capitolo successivo si interroga sui motivi di vergogna - alcuni dei quali eccessivi, altri legittimi - provati dai sopravvissuti. E così via, fino all´ultimo capitolo che mostra come siano fra loro diverse le posizioni dei lettori tedeschi che gli scrivono riguardo al suo primo libro.
Perché questa pagina oscura del nostro passato deve essere ricordata? Perché le passioni e i comportamenti umani non cambiano mai radicalmente e dunque, anche se le istituzioni e le tecnologie si trasformano, la storia si ripete. Ora l´idea che momenti così desolanti possano ripetersi è per Levi insopportabile. «È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire», scrive nella Conclusione (p. 164). Levi pensa (e ha evidentemente ragione) non tanto a una ripetizione dell´identico, all´avvento cioè di un regime nazista nel centro Europa, quanto piuttosto a una proliferazione di quei fattori che hanno reso l´orrore possibile - magari in altri paesi, sotto altro nome, con nuove giustificazioni, non raggiungendo lo stesso parossismo ma producendo, quantomeno, massacri e sofferenze senza fine. Contro questo propagarsi del male, pensa l´autore, il richiamo del passato può essere salutare: non bisogna stancarsi mai di ricordare l´orrore antico. Ed è proprio quello che lui farà per tutta la sua esistenza, dopo Auschwitz.
All´inizio del libro Levi racconta che lui e molti altri superstiti erano ossessionati da uno stesso pensiero: che la propria sofferenza restasse ignorata, che questa pagina della storia non venisse mai scritta. Levi e gli altri superstiti hanno uno stesso incubo ricorrente: in quell´incubo si vedono mentre stanno raccontando e il loro interlocutore si volta e se ne va in silenzio. Una speranza questa che avevano anche i comandanti nazisti, i quali contavano di cancellare così ogni traccia dei loro crimini. Sessant´anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, noi possiamo appurare che sia quella preoccupazione, sia queste speranze sono risultate vane. Probabilmente nessun´altro avvenimento storico ha suscitato tante memorie quante questa guerra; le pagine che le sono state consacrate si contano a milioni; e nessuno - almeno nei paesi dell´Europa occidentale - può sfuggire a film o alle trasmissioni televisive che ogni settimana vengono dedicate alle follie del nazismo. Hitler, lontano dall´essere dimenticato, è diventato un nome noto a tutti. Dunque, anche se un nazismo identico al precedente non ha nessuna possibilità di ripresentarsi, comportamenti come quelli che ne hanno reso possibile l´avvento, non sono invece rari. Levi aveva ragione, la memoria è necessaria; ma oggi noi dobbiamo aggiungere: tuttavia non basta.
Perché? Perché tutti noi abbiamo la tendenza a sfruttare la memoria a nostro vantaggio. Se ci identifichiamo con le vittime innocenti, questo ci dà a priori il diritto di esigere riparazioni; se ci identifichiamo invece con eroi irreprensibili, questo ci permette di passare sotto silenzio i nostri misfatti. Basta cioè cambiare luogo, etichetta, circostanze, e non vediamo più nessun buon motivo per trarre dal passato lezioni che potrebbero applicarsi anche a noi. I resistenti e i combattenti francesi della Seconda guerra mondiale non ignoravano gli orrori nazisti; eppure questo non ha impedito loro, dopo la Liberazione, quando occupavano posti di comando nell´esercito o nel governo, di reprimere nel sangue le richieste di un po´ più di autonomia fatte dalle popolazioni delle colonie: 15 000 morti a Sétif, in Algeria, nel 1945; 40 000 morti in Madagascar, nel 1947 - prima di arrivare all´uso sistematico della tortura, ancora in
Algeria, a partire dal 1954. I dirigenti israeliani non ignoravano niente, se ne può essere certi, delle persecuzioni subite dagli ebrei durante la guerra; ciò non ha impedito loro, in diversi momenti della storia recente, di perseguitare a loro volta i palestinesi che avevano il torto di trovarsi ancora su quella terra che aveva smesso di essere la loro. Non era un genocidio, fortunatamente; ma se prima di indignarsi bisogna aspettare che le sofferenze umane raggiungano l´apice di Auschwitz, allora si potrà ancora per molto tempo, e con la coscienza tranquilla, fare orecchie da mercante ai lamenti di uomini e popoli.
Non è dunque necessario che siano presenti tutte le caratteristiche tipiche dello Stato totalitario perché ricompaiano alcune delle sue pratiche. Levi lo sa bene: la violenza illegittima (se non «inutile») non è prerogativa solo dei regimi nazisti e comunisti, si incontra anche negli Stati autoritari del Terzo mondo e anche nelle democrazie parlamentari. Basta soltanto che le voci dei capi politici la presentino come necessaria, persino come urgente; subito sarà rilanciata da media onnipresenti e poco dopo sostenuta dalla corte di autori e intellettuali che sanno bene come trovare giustificazioni razionali alle scelte del potere: tali scelte sono sempre fatte in nome della «difesa della democrazia» o del «male minore». Per il lettore odierno, testimone della guerra intrapresa dagli Stati Uniti in Iraq, la messa in guardia di Levi acquista una nuova pertinenza, dalla condanna della «violenza preventiva» fino a quella del trattamento dei prigionieri nemici che ha lo scopo di «far crollare subito la capacità di resistere» iniziando con una «denudazione totale», per finire con altre pratiche di umiliazione come a Guantanamo e a Abu Ghraib. Cosa che non permette affatto di stabilire un´equivalenza «US = SS», ma mostra che il male, anche se attenuato, si può ritrovare sull´intera superficie terrestre - un male a volte anche compiuto in nome di un glorioso passato di opposizione al fascismo e di resistenza al comunismo.
La semplice memoria del male non è dunque sufficiente a prevenirne il ritorno; bisogna che il richiamo del male sia sempre accompagnato da un´interpretazione e da istruzioni per l´uso; ed è proprio quello che ci offre Levi nei Sommersi e i salvati. Levi non si accontenta di rievocare gli orrori del passato, ma si interroga - a lungo, con pazienza - sui significati che tali orrori hanno oggi per noi; ed è proprio in questo atteggiamento verso il passato che sta la sua lezione più preziosa. È proprio in quest´ottica che si trova in compagnia di altri grandi rappresentanti del nuovo umanesimo eu-ropeo (quello del dopo Auschwitz e del dopo Kolyma) come Vassili Grossman o Germaine Tillion: quegli umanisti, cioè, a cui l´aver dovuto scandagliare il fondo del male non ha impedito di mantenere opinioni moderate; che la follia del mondo non ha cioè portato a rinunciare alla ragione.
Che uomini come lui abbiano camminato su questa terra, che siano sfuggiti all´insidiosa penetrazione del male che sapevano così bene descrivere è fonte di incoraggiamento per il lettore di questo libro, comunque sprofondato negli abissi della miseria umana. Tuttavia, non si può fare a meno di essere toccati, leggendo, anche dalla malinconia crescente del suo autore. Se questo è un uomo, che pure dà molto più spazio agli orrori vissuti personalmente da Levi a Auschwitz, provoca un´impressione meno deprimente. Il motivo non è soltanto che Levi è passato dalla rivendicazione alla meditazione.

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