Nel migliore dei mondi possibili, tutti sono usciti vincitori dalla crisi degli ostaggi inglesi, sia l'Iran che la Gran Bretagna.
E una così felice conclusione non è che l'annuncio di una nuova stagione di proficui rapporti diplomatici tra Occidente e Repubblica islamica.
Il migliore dei mondi possibili, ben diverso dalla realtà, nella quale la Gran Bretagna è stata umiliata da un Iran capace di combinare abilmente arroganza e ostentazione di magnanimità, violenza e propaganda, è descritto da Siavush Randjbar- Daemi su EUROPA del 6 aprile 2007.
Ecco il testo:
Né vincitori né vinti o meglio, o, se si vuole, entrambi convinti di aver portato a termine la faccenda a proprio vantaggio. La conclusione teatrale della prigionia dei quindici rapiti è forse meglio riassunta dall’emblematica prima pagina del quotidiano londinese The Independent di giovedì, divisa com’è in due parti eguali ma capovolte, ciascuna delle quali inneggiante alla vittoria di Iran o Gran Bretagna.
Dopo i rocamboleschi eventi di mercoledì quando Mahmoud Ahmadinejad ha annunciato a sorpresa la liberazione dei quindici prigionieri, l’attenzione ora passa a quanto è intercorso tra Teheran e Londra nel corso delle ultime 48 ore della crisi, quando cioè sono entrati in scena i convitati di pietra, subentrati ai sino ad allora inefficaci ambasciatori e viceministri degli esteri.
I veri protagonisti della risoluzione della querelle sono dunque Ali Larijani, il pacato e granitico segretario del Supremo consiglio per la sicurezza nazionale iraniano, e sir Nigel Sheinwald, un altrettanto discreto consigliere per gli affari diplomatici di Tony Blair che presto – forse come ricompensa per l’assai efficace lavoro negoziale effettuato sempre a debita distanza dalle luci dei media – diventerà il nuovo ambasciatore di Sua Maestà a Washington. La crisi, che non più tardi di domenica pomeriggio sembrava esser entrata nel vicolo cieco delle accuse reciproche e del ritorno del fanatismo di piazza dinanzi all’ambasciata britannica di Teheran, ha improvvisamente subito un lampo lunedì sera, dopo che il Foreign Of- fice ha deciso di rispondere positivamente all’intervista televisiva – a cui l’alto funzionario di Teheran si era autoinvitato – trasmessa dall’emittente britannica Channel 4, in cui il delfino della Guida suprema Khamenei spalancava le porte ad un dialogo serrato con Londra.
È a questo punto che è entrata in scena, in maniera forse determinante, la Siria di Bashar al-Assad.
Formatosi professionalmente in Gran Bretagna, dove ha avviato una discreta carriera nel campo dell’oftalmologia, il giovane Assad ha sempre mantenuto contatti discreti con il governo di Tony Blair e ha accolto alla fine di ottobre lo stesso Sheinwald a Damasco, dove l’emissario di Blair si era recato per una delicatissima missione, i cui risvolti non sono ancora del tutto noti. Il consigliere di Blair avrebbe comunque conquistato la fiducia di Assad, apparendo come un plenipotenziario più avvezzo alla realpolitik che alle tentazioni barricadere in voga in certi think tank ancora egemoni a Washington e Londra. Il cerchio si chiudeva: per una volta, era Damasco – unico alleato regionale di Teheran e insostituibile testa di ponte per l’approvvigionamento dell’Hezbollah libanese – che dettava il tempo a Teheran, e non viceversa. I gerarchi baathisti, primo fra tutti il veterano ministro degli esteri Walid Muallem, sono diventati così il tramite per l’organizzazione della prima e unica telefonica intercorsa tra Larijani e Sheinwald, della durata di oltre un’ora, che ha risolto di fatto la crisi. Grazie ai buoni uffici siriani, il Foreign Office ha recapitato una comunicazione ufficiale al ministero degli esteri iraniano in cui venivano accolte almeno in parte le richieste iraniane: nonostante l’assenza pressoché totale di confini ben demarcati sullo Shatt al-Arab e sulla bocca del Golfo Persico, Londra si impegnava a non violare la sovranità territoriale della Repubblica islamica.
Sheinwald e Larijani erano quindi i mediatori d’obbligo in una crisi che poteva esser risolta solamente con un grand bargain, un accordo a larghe intese che, in uno scenario rassomigliante la Guerra Fredda, mettesse in atto una distensione almeno provvisoria tra le parti. La crisi tra Iran e Gran Bretagna si è però conclusa con molteplici interrogativi, a partire dalla circostanze clamorose della liberazione dei marinai britannici, rispediti a casa dopo una messa in scena mediatica con al centro Mahmoud Ahmadinejad, che ha elargito auguri di lunga vita e doni di valore a tutti i membri della comitiva con l’evidente intento di marcare la differenza di trattamento tra i militari arrestati dalla Repubblica islamica e quelli rinchiusi ad Abu Ghraib o a Guantanamo.
Resta da chiarire se i gesti di Ahmadinejad rappresentino una tardiva concessione della “vecchia guardia” del regime – i cui esponenti di spicco, come la Guida suprema Khamenei e l’ex presidente Rafsanjani, sono rimasti in silenzio pressoché assoluto per l’intera durata della vertenza – all’esuberanza dei Pasdaran, che sono usciti da questi crisi con un modesto miglioramento nel caso di cinque loro commilitoni arrestati ad Erbil, e non con l’agognato sogno di veder processati i marinai catturati. Sul piano politico è cresciuta la posizione di Larijani, anche se rimangono oscuri i motivi che hanno ritardato l’entrata in scena del capo-negoziatore di Teheran, attivatosi a una settimana e mezza dallo scoppio della crisi. Pure il dipartimento di stato Usa ha comunque speso qualche parola a favore del caponegoziatore iraniano che potrebbe dare il via ad una nuova fase dei negoziati con l’Occidente, che ora deve però prender atto di tutti gli strumenti – incluso il ricorso alla forza – che il regime islamico ha a sua disposizione in questa complessa partita diplomatica.
Sempre il quotidiano della Margherita, pubblica un articolo di Alif Ba intitolato
"Perfino il "partito antisiarano elogia la mano tesa di Nancy".
Vi si citano due articoli sul viaggio di Nancy Pelosi in Siria, pubblicati dal quotidiano libanese, anti-siriano, Daily Star.
In uno il viaggio è giudicato positivamente, nell'altro più criticamente.
Il primo è "più convincente" ci assicura Alif Ba, che non spiega il perché, ma giustifica così un titolo assolutamente parziale.
Ecco l'articolo:
«La Siria è parte della soluzione e non del problema», ha detto il governo siriano, durante la visita a Damasco di Nancy Pelosi, portavoce del Congresso statunitense. Le forze del 14 marzo a Beirut non sembrano esserne convinte. Lo scorso marzo, Walid Jumblatt, leader druso libanese, aveva detto a Europa che l’unico modo per ritrovare la stabilità a Beirut era di «rimuovere l’attuale regime siriano».
Gli sforzi diplomatici dell’Arabia Saudita, però, potrebbero avere cambiato lo scenario politico nella regione.
Durante il summit di Riyadh, il presidente siriano Bashar el Assad, preoccupato per la propria sopravvivenza, si è incontrato con il sovrano Abdullah tre volte, tentando di raggiungere un accordo sul Libano. Nei giorni scorsi, il quotidiano giordano, al Ra’y, ha inoltre affermato che Riyadh è riuscita nel suo scopo di allontanare la Siria da Teheran, riportandola nel campo sunnita.
Il re Abdullah ha, infatti, capito che – se vuole trovare una soluzione per il Libano senza destabilizzare l’area – deve cercare un compromesso con Damasco. L’Arabia Saudita, pertanto, si è distanziata dalla politica d’isolamento della Siria, portata avanti dall’attuale amministrazione americana.
Il viaggio diplomatico di Pelosi a Damasco appare quindi in linea con la nuova strategia del re Abdullah, che per adesso sembra essere l’unica ad avere raggiunto risultati positivi nell’area.
Per Riyadh, infatti, potrebbe essere più pericoloso ignorare Damasco, che tentare di dialogare con Assad.
«L’Arabia Saudita ha il diritto di dare un’opportunità alla Siria – scrive al Ra’y – Per farle ritrovare un rapporto con il mondo arabo e toglierla dalle ginocchia dell’Iran». I democratici statunitensi sembrano, pertanto, dare credito all’istinto strategico di Abdullah.
Dopotutto, isolare semplicemente Assad senza nemmeno tentare una mediazione, significherebbe soltanto rafforzare l’asse siro-iraniano. Il suo ulteriore consolidamento, pertanto, farebbe perdere ogni speranza per una risoluzione della crisi libanese e della disputa territoriale con Israele, oltre che a fermare gli insorti, che dal confine siriano raggiungono Bagdad.
Pelosi crede che questo sia il periodo migliore per cercare un accordo con Damasco.
Assad, infatti, è disperatamente alla ricerca di un compromesso, temendo che la formazione di un tribunale internazionale per l’assassinio dell’ex premier libanese, Rafik Hariri, possa fargli togliere il potere.
«Pelosi non è venuta a Damasco, perché ama la nostra città – ha scritto al Thawrah, quotidiano siriano – Ma perché ha capito che è impossibile ignorare il ruolo della Siria nella scena mediorientale». Il giornale governativo continua, elogiando la visita di Pelosi e dichiarando inutile la «chiusura» dell’amministrazione del presidente americano, George W. Bush. «La Casa Bianca si sbaglia se pensa che la Siria possa fare concessioni senza dialogo», scrive al Thawrah.
Il quotidiano saudita, al Hayat, ha riportato che il ministro degli affari esteri siriano, Walid al Muallem, ha reiterato la volontà del suo governo di riavvicinarsi a Washington. «Siamo pronti a trattare con gli Stati Uniti – ha dichiarato Muallem – a condizione che si discutano tutti i temi senza termini prestabiliti». I leader politici della regione, però, non sanno se possono fidarsi dei propositi di Assad.
Ma fu proprio l’ex ambasciatore saudita a Washington, Turki al Faisal, a preannunciare la politica del «tentare a dialogare non costa niente», adottata dal sovrano saudita Abdullah.
Dall’altro lato, però, i quotidiano libanesi temono che la portavoce del Congresso americano abbia potuto dare un messaggio sbagliato ad Assad.
«Pelosi ha detto che la strada per risolvere i problemi in Libano passa per Damasco – ha scritto il giornalista Michael Young, sul Daily Star – Gli sforzi dell’Arabia Saudita, invece, sono stati improntati a fare cessare qualsiasi coinvolgimento siriano a Beirut». Ma appare, però, chiaro che per convincere Damasco a non interferire in Libano è comunque necessario iniziare una mediazione Ieri, pertanto, un editoriale pubblicato sul medesimo quotidiano libanese, appare più convincente. «Le critiche alla visita di Pelosi non tengono in considerazione le realtà regionali – scrive il Daily Star – Che ci piaccia o no, la Siria e l’Iran per ragioni storiche e geografiche sono influenti in Palestina, Iraq e Libano. L’isolamento e l’intimidazione, pertanto, non possono offrire loro alcun incentivo per giocare pulito».
La linea editoriale del Daily Star, conosciuto per posizioni anti-siriane, elogia pertanto la visita di Pelosi, dichiarando che Damasco può assumere un ruolo di mediatore nei conflitti regionali.
«I neocon, però, preferiscono demonizzare i propri rivali politici», critica il quotidiano libanese. Pelosi, invece, ha aperto un nuovo spiraglio nella politica estera americana. Adesso, dovrà vedere se il dialogo sarà accettato dalla controparte. «La Siria, pertanto, dovrà dimostrare di volere tenere aperte le linee di comunicazione – scrive il Daily Star – E non di essere un fattore di destabilizzazione».
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