Hans Magnus Enzensberger
Il perdente radicale
Einaudi
C he cosa pensa — se pure in quel momento pensa a qualcosa — un terrorista prima di saltare in aria? Che cosa gli passa per la testa quando entra in un locale affollato e sa che tra qualche secondo ci saranno sparse intorno solo membra insanguinate di gente «che non c'entra», di donne e bambini innocenti? Me lo sono domandato spesso e non ho saputo darmi una risposta.
Pensa solo alle Uri che lo accoglieranno in Paradiso? O obbedisce solo all'ordine di un Dio che non è fatto a nostra immagine e somiglianza, neppure riguardo al senso della giustizia, e che non ferma la mano di Abramo? In altre parole, un terrorista islamico è un soggetto interrogabile attraverso un tipo di indagine psicologica, o questo tipo di indagine può essere solo riservata a chi più o meno la pensa come noi e ci rassomiglia nell'inconscio? Non so rispondere a questa domanda, ma avevo individuato nel terrorista di qualsiasi provenienza, islamico o occidentale, la nota figura del risentito, rintracciabile nella nostra storia nelle sue varianti, dal giacobino a Neciaev, dal nichilista al brigatista rosso. Lo avevo riconosciuto anche nella letteratura europea, ed era Bazarov di Turgenev, Verchovenskij o Stavrogin di Dostoevskij, e tanti altri che ci sono stati raccontati da Conrad, da Céline, da Camus.
È il risentito che cerca negli altri, come società, la causa del proprio fallimento, e a seconda dell'ideologia professata ora accusa il sistema, ora le multinazionali, ora l'America, ora il Comunismo, e ora (a preferenza) gli ebrei. C'è sempre in qualche parte una concomitanza di forze ostili, un complotto, che ha impedito al risentito di raggiungere il meritato successo. Tutto il mondo fa parte del complotto ordito contro di lui, mentre lui solitario giganteggia e aspetta il suo momento. Tra megalomania e risentimento ci sono parecchi legami, e purtroppo spesso tra paranoia e ideologia.
René Girard ha spiegato che cos'è il «desiderio mimetico», cioè il desiderio di essere come l'Altro considerato vincente, un desiderio che si sposta su modelli sempre mutevoli in una società di uguali come la nostra, dove ogni minima differenza è vista come un segno di ingiustizia. C'è una nuova descrizione del risentito nel breve saggio di Enzensberger
Il perdente radicale (Einaudi). Chi è il perdente radicale? È sempre lui, è chi ha fatto proprio il supposto giudizio negativo degli altri su di sé. Quando si paragona a questi altri, il perdente radicale vorrebbe distruggerli, annientare loro come loro hanno annientato lui. Distruzione degli altri e distruzione di sé si combinano nella sua mente, diventano l'unica via di uscita: se la sua vita non vale nulla, anche la vita degli altri non vale nulla.
Così il perdente radicale cova il suo risentimento e attende l'ora di esplodere insieme a quelli che sono la causa del proprio fallimento. Tra l'altro «il mondo esterno che non si è mai curato di lui, quando lui mette mano alle armi prende atto della sua persona. I media — e fosse solo per 24 ore — provvedono ad assicurargli una pubblicità enorme... e in tal modo stimolano potenziali imitatori». La globalizzazione ha prodotto oggi un nuovo tipo di perdente radicale, anzi — dice Enzensberger — una «patria dei perdenti» che ha nell'Islamismo fondamentalista e nel terrorismo la sua «miccia ideologica», così come l'aveva avuta nella Germania di Hitler, un amalgama di desiderio di morte e megalomania e il fantasma del dominio mondiale che impazza nelle teste. Oggi — scrive Enzensberger — «da soggetto rivoluzionario non funge più il proletariato mondiale, ma la ummah dei combattenti islamisti e il loro vastamente ramificato reticolo cospirativo... Ma sono anch'essi creature del mondo globalizzato che osteggiano», e che imitano soprattutto impossessandosi della capacità mediatica.
Come mai questo soggetto rivoluzionario si è risvegliato oggi con tanta violenza? Enzensberger ne trova la causa nell'enorme e inspiegabile arretratezza politica, scientifica, tecnica del mondo arabo che vede in ogni aspetto dell'Occidente un nemico capace di distruggerlo. La totale dipendenza economica da questo nemico è diventata per un arabo intollerabile: «Ogni telefono, ogni presa elettrica, ogni frigorifero, senza contare i prodotti della tecnologia avanzata, rappresenta per lui una umiliazione che brucia tanto quanto più forte è in lui l'innato senso di superiorità su ogni altro popolo. È questo senso di superiorità, continuamente smentito dai fatti, che rende impossibile qualsiasi forma di dialogo e ogni forma di reciprocità. Da tutto questo — secondo Enzensberger — e non dalla stretta osservanza religiosa, nasce l'attentato omicida che consente di sfogare le fantasie megalomaniache e insieme l'odio verso se stessi.
Su questo punto però avrei qualche riserva. Pur comprendendo il discorso di Enzensberger, come si fa a non riconoscere che la religione occupa sempre il primo posto nell'animo di un musulmano, anche se spesso viene strumentalizzata dai mandanti per creare l'esaltazione necessaria a compiere l'atto terroristico? E poi penso che a un talebano, per esempio, non gliene potrebbe importar di meno della presa elettrica e del frigorifero, di cui non sente il bisogno, e forse come prodotto tecnologico dell'Occidente preferisce di gran lunga il kalashnikov, vendutogli dagli infedeli per la guerra santa contro gli infedeli (e così il circolo vizioso si chiude).
Si tratta sostanzialmente di un movimento impolitico, dato che non avanza richieste negoziabili. Questo, secondo Enzensberger. Ma io credo che anche il mondo occidentale si trovi in una posizione che rende difficile, se non impossibile, qualsiasi vera trattativa col mondo islamico, perché quella combinazione di capitalismo, scienza, tecnica, mercato, democrazia che lo costituisce, non è un soggetto individuabile come il «perdente radicale», ma è un'entità senza soggetto, una forza non governabile che va avanti per conto suo, incurante di ogni politica, che nessun «perdente» potrà mai contrastare e nessun «vincente» governare.
Questo stato delle cose produce effetti deleteri in entrambi i campi: nel mondo occidentale, che per sua natura è incapace di rinunciare agli affari con gli Stati che appoggiano il terrorismo ed è inoltre esposto, come scrive Enzensberger, sempre più a «infezione da parte dell'avversario» (a controlli continui, polizia, servizi segreti, allarme e perdita conseguente dei diritti di libertà); e nel mondo arabo, perché ne pagherà le spese la sua parte esposta al genocidio, alle stragi, e agli altri disastri della guerra e della guerriglia. Che i terroristi «riescano a universalizzare e perpetuare senza limiti il loro culto della morte, non è probabile», così come non è probabile una vittoria sul campo dei loro oppositori. Ed è questa l'impasse in cui si trova oggi il mondo. Perciò «la società globale dovrà rassegnarsi a vivere in uno stato di rischio permanente», conclude Enzensberger.
Conclusione che sembra negare ogni speranza, non solo nell'immediato ma anche nell'imprevedibile evoluzione della storia dove, come sappiamo, si ripete di frequente che ciò che l'uomo propone non sempre è quello che l'incontrollabile avvicendarsi delle cause e degli effetti dispone.