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Corriere della Sera Rassegna Stampa
30.03.2007 Gli arabi non vogliono più la distruzione di Israele ?
la storia raccontata da Sergio Romano è piena di omissioni

Testata: Corriere della Sera
Data: 30 marzo 2007
Pagina: 49
Autore: Sergio Romano
Titolo: «I critici di Israele: un coro a molte voci»

Dal CORRIERE della SERA del 30 marzo 2007, pubblichiamo la lettera di un lettore e la risposta di Sergio Romano, seguita da un nostro commento:

Nella sua risposta a un lettore intitolata «America e Israele: come ammirarli e criticarli», una sua frase mi lascia molto perplesso: «Ho l'impressione che (...) uno Stato europeo, composto dall'avanguardia più dinamica e intraprendente dell'ebraismo, abbia maggiori responsabilità del mondo da poco decolonizzato che lo circonda». Con questa frase, lei glissa abilmente sul fatto che «il mondo (...) che lo circonda» non vuole altro che la distruzione dello Stato di Israele. La responsabilità primaria di ogni entità vivente è verso se stessa, è la sopravvivenza. Ma lei aggiunge la sua voce (subdolamente, devo dire) al coro che condanna Israele per il fatto che vuole sopravvivere, che si difende, che deve per forza occuparsi principalmente di non sparire.
Aggiungo: l'Arabia Saudita, che è strapiena di petroldollari, non ha essa una qualche «responsabilità del mondo da poco decolonizzato che lo circonda»? O può limitarsi a fomentare il terrorismo?

Daniel Gold,
dangold@stny.rr.com

Caro Gold, non esiste il «coro che condanna Israele». Fra quanti disapprovano la politica dello Stato ebraico esistono posizioni diverse, ora fortemente critiche, ora esplicitamente ostili, ora ispirate da preoccupazioni e riserve di varia natura. Quando ho ricevuto la sua lettera avevo appena finito di leggere un articolo di George Soros, pubblicato dal Financial Times, in cui l'autore sostiene, con argomenti molto convincenti, che il boicottaggio dei ministri di Hamas nel nuovo governo palestinese è un errore. Soros è un ricco finanziere ebreo di origine ungherese, divenuto in questi ultimi anni il maggiore benefattore privato di istituzioni accademiche e associazioni civili nell'Europa ex comunista, e non può essere accusato di antisionismo. Anche lui farebbe parte del coro? E farebbe parte del coro quella stampa israeliana che non ha mai smesso di segnalare le discriminazioni inflitte dal governo israeliano alla popolazione palestinese o, più recentemente, il modo in cui furono condotte le operazioni militari nella guerra libanese della scorsa estate? Vengo al punto della sua lettera in cui lei sostiene che il mondo arabo circostante «non vuole altro che la distruzione dello Stato di Israele». Fu questa effettivamente la posizione dei Paesi arabi sino alla guerra del Kippur nell'ottobre 1973. In quel periodo Israele poté contare sulla comprensione e sul sostegno di gran parte dell'Europa occidentale e delle Americhe. Ma sarebbe assurdo ignorare che fra il nostro punto di vista e quello degli arabi esisteva una sostanziale differenza. Noi assistevamo con simpatia alla costruzione dello Stato d'Israele perché eravamo stati diretti testimoni delle persecuzioni che gli ebrei avevano subito durante buona parte del secolo. Gli arabi non avevano in quelle vicende alcuna responsabilità e non capivano perché il debito dell'umanità verso gli ebrei dovesse venire pagato proprio da coloro che non avevano collaborato al loro sterminio. Dopo il 1973 la situazione è andata progressivamente cambiando. Vi sono stati gli accordi di Camp David del settembre 1978 fra il presidente egiziano Anwar Al Sadat e il Primo ministro israeliano Menachem Begin. Vi è stata la grande conferenza di Madrid dell'ottobre 1991 a cui hanno partecipato, insieme agli israeliani, gli Stati arabi della regione e una delegazione palestinese. Vi sono stati gli accordi del governo di Gerusalemme con Giordania e Marocco per lo stabilimento di rapporti diplomatici. E vi è stato infine il piano saudita del 2002, approvato dalla Lega Araba, che comporta l'implicito riconoscimento dello Stato israeliano. Nella sua lettera lei accenna criticamente alle responsabilità dell'Arabia Saudita verso il mondo arabo. Sappiamo che il regno dei Saud è stato per molti anni un Giano bifronte: custode dell'ortodossia islamica da un lato e partner politico-economico degli Stati Uniti dall'altro. Ma in questi ultimi tempi, dalla proposta del 2002 alla recente mediazione per la costituzione di un governo palestinese di unità nazionale e al recente vertice della Lega Araba, ha adottato una linea prudente e responsabile. Credo che Israele dovrebbe prestare maggiore attenzione ai segnali che vengono dall'Arabia Saudita.

Romano dimentica un gran numero di fatti che rendono la realtà e la storia del Medio Oriente molto diversa da quella che lui descrive.
Israele ha firmato trattati di pace con gli Stati arabi che si sono dimostrati disponibili. Se con i palestinesi il conflitto continua è proprio perchè questi ultimi , sostenuti da un fronte radicale che comprende almeno Iran e Siria, continuano a perseguire la distruzione dello Stato degli ebrei.
Romano dimentica Hamas, dimentica Ahmadinejad e, quando passa a scrivere del piano saudita, dimentica la richiesta che Israele accetti il "diritto al ritorno" dei profughi palestines, che equivale alla rischiesta di un suicidio.
Dimenticata è anche la storia del nazionalismo arabo, in particolare la sua alleanza con il nazismo e l'opposizione all'emigrazione ebraica in Terra d'Israele durante la Shoah del muftì di Gerusalemme. 
Non è proprio vero, dunque, che gli arabi non ebbero "nessuna responsabilità" nelle vicende della persecuzione antiebraica.
In ogni caso, essi non pagarono il prezzo dell colpe europee verso il popolo ebraico, ma quello delle guerre di annientamento che scatenarono e perdettero.
Infine, Soros, ebreo "non sionista" che accusa Israele di non razzismo e la "lobby ebraica" di controllare e deformare la politica americana in Medio Oriente, si è collocato da solo nel coro "anti- Israele".

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