Se la Francia cambia rotta le idee di Nicolas Sarkozy, candidato alla presidenza della Repubblica, sul Medio Oriente
Testata: Il Foglio Data: 28 marzo 2007 Pagina: 2 Autore: Marina Valensise Titolo: «Un'altra Francia in Medio Oriente»
Dal FOGLIO del28 marzo 2007:
Sull’Iran niente fughe in avanti. La “rupture”, almeno nel senso di un brutale cambiamento di rotta, pare non sia all’ordine del giorno per Nicolas Sarkozy, il più anti antiamericano e più filoisraeliano dei politici francesi. Anche su questo il candidato del centrodestra alle elezioni presidenziali ha le idee chiare. L’Iran non ha diritto al nucleare militare. E questo sarà per Sarkozy un obiettivo “non negoziabile” della sua politica estera. Teheran parla di “diritto inalienabile” al nucleare civile, ma si sa che la distinzione è utilizzata dagli ayatollah per continuare a installare centrifughe e arrivare a un processo completo di arricchimento dell’uranio al riparo dagli occhi degli ispettori dell’Agenzia atomica dell’Onu che continuano a essere non graditi in territorio iraniano. Ségolène Royal, candidata socialista all’Eliseo, era stata subissata di critiche quando aveva invocato restrizioni anche sul nucleare civile. La posizione di Sarkozy davanti all’ostinazione della Repubblica islamica nel procedere verso la costruzione della bomba atomica, tra l’impotenza degli occidentali, è senza appello: contrario a un intervento militare per distruggere le centrali iraniane, resta più che mai favorevole alle sanzioni. E’ convinto infatti Sarkozy che le sanzioni possano davvero incidere sulla popolazione, contribuendo a offuscare la popolarità del presidente, e a mettere in crisi le scelte, sino a revocarle. Lo dimostra Thérèse Delpech, massima specialista di questioni atomiche in Francia, che Sarkozy ha sempre ascoltato diligentemente prendendo appunti, in un libro che tutti dovrebbero leggere, perché contiene una disamina inquietante delle ambizioni iraniane e dell’impotenza occidentale a farvi fronte (“Le Grand Perturbateur”, ed. Grasset). Sarkozy dunque l’ha sempre detto: l’unica strada sono le sanzioni. E l’ha ribadito chiaro e tondo anche domenica scorsa in tv, dopo l’ennesimo rifiuto da parte dell’Iran della risoluzione 1.747, votata all’unanimità dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, frutto di un laborioso compromesso con Russia e Cina, grandi alleati commerciali della Repubblica islamica. La nuova risoluzione rafforza le sanzioni approvate il 23 dicembre, con una stretta sull’esportazione di armi iraniane, destinate ai palestinesi di Hamas, agli Hezbollah libanesi e alle millizie sciite in Iraq; nuovi limiti sull’importazione di armi convenzionali in Iran; e il congelamento di beni e fondi di 28 imprese e banche d’affari legate ai programmi sospetti, compresa la banca Sepah, nell’intento di mettere in imbarazzo i grandi dignitari del regime e trasformarli in gruppo di pressione. E dà all’Iran 60 giorni di tempo per fermare il programma di arricchimento dell’uranio. Teheran però s’ostina nel braccio di ferro. Ahmadinejad non ha aspettato nemmeno ventiquattr’ore per considerare “illegale” la risoluzione dell’Onu, e limitare la cooperazione con l’Agenzia internazionale sull’energia atomica. E continua la destabilizzazione con altri mezzi, come l’arresto di 15 marinai della Royal Navy, la Marina inglese, catturati mentre su mandato dell’Onu stavano ispezionando un mercantile nello Shatt el Arab, e trasferiti a Teheran, dove forse saranno processati con l’accusa di aver violato acque territoriali iraniane. Intanto l’Unione europea, riunita a Berlino per i cinquant’anni del Trattato di Roma, incurante dell’irrisione di cui è oggetto a Teheran da quando Ahmadinejad, appena eletto presidente, ha posto unilateralmente fine al secondo accordo del novembre 2004, risponde con la mano tesa, dichiarandosi pronta a tenere la porta del negoziato aperta, purché l’Iran rientri nell’alveo della comunità internazionale. Che fare dunque, ha chiesto domenica sera Jean Pierre Elkabbach a Sarkozy, se entro sessanta giorni l’Iran si rifiuta di ottemperare alle richieste dell’Onu? Insistere nel negoziato o scegliere le maniere forti? Al dilemma Sarkozy ha risposto con flemma: “Sono questioni complesse. Non possiamo risolverle dicendo che chi difende il negoziato non ha coraggio e chi freme per l’intervento è un prode”. E ha insistito sulla sua dottrina. Non possiamo permettere che l’Iran abbia il nucleare militare. Dobbiamo insistere e andare fino in fondo con la strategia della sanzioni, puntando sull’unanimità delle nazioni. “Se la comunità internazionale si mostrerà unita, se anche Russia e Cina manterranno la fermezza, le cose cambieranno in Iran”. A dettare tale fiducia non è soltanto il risultato delle elezioni di dicembre che hanno segnato una parziale sconfitta per Ahmadinejad. E’ soprattutto la lezione della guerra in Iraq, alla quale i francesi erano contrari. Anziché liberare la regione da una minaccia incontrollabile, come le presunte armi di distruzione di massa nascoste da Saddam, molti sono convinti che la campagna irachena abbia corroborato le ambizioni della Repubblica islamica, che persegue il disegno di un grande medio oriente dominato dalla comunità sciita, dall’Iraq al Libano allo Yemen, minacciando l’esistenza stessa di Israele, stato che il presidente Mahmoud Ahmadinejad intende cancellare dalla carta geografica. Sarkozy, pur avendo criticato l’arroganza francese, insistite nel dire di essere sempre stato contrario alla guerra in Iraq, di averne contestato il metodo, ma non il merito. Riconosce che il presidente, Jacques Chirac, ha umiliato gli Stati Uniti, ventilando il ricorso al veto, pur sapendo che al Consiglio di sicurezza gli americani non avrebbero mai ottenuto la maggioranza. Ma giudica “esemplare” la sua scelta di astenersi dall’ “errore storico” della guerra in Iraq. Eppure, il presidente dell’Ump oggi candidato all’Eliseo resta il più atlantista e il più filoisraeliano dei politici francesi. Prima di ricucire con gli Stati Uniti, è stato lui a ricucire con Israele. Più che per calcolo politico l’ha fatto per convinzione. Perché l’adesione alla causa è di immediata evidenza per un “francese di sangue misto” come lui, nipote di un sefardita di Salonicco, gollista, patriota, nazionalista quanto si vuole, ma capace di sentirsi sempre un po’ uno straniero in patria, e di nutrire un debole per le minoranze, e di votare una specie di culto a un personaggio di prima grandezza, perlopiù sconosciuto, come Georges Mandel, ebreo, francese, ministro dell’Interno fucilato dal capo della milizia durante il regime di Vichy, di cui Sarko scrisse la biografia quando era ministro del Bilancio del governo Balladur. Nel 2003, tre mesi dopo l’inizio delle operazioni militari in Iraq fu dunque Sarkozy, ministro dell’Interno, a presenziare la festa per l’amicizia tra Francia e Israele organizzata alla Porta di Versailles dal Concistorio e altri organismi della comunità ebraica francese, che coi suoi 600 mila membri è la prima d’Europa e la terza nel mondo dopo l’America e Israele. Fu lui ad applaudire Enrico Macias che cantava la Marsigliese e il presidente del comitato organizzatore che giudicava “incomprensibile” la politica estera della Repubblica francese. Pochi mesi prima, in effetti, Chirac aveva voluto invitare Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, al vertice della francofonia tenuto a Beirut nell’ottobre 2002. Anche se a nulla era valsa la mossa: l’ostilità del Partito di Dio verso la Francia era continuata tale e quale, con nuove minacce durante l’approvazione della legge sul velo. Parigi, però, come se nulla fosse, s’era ostinata a porre il veto pur di non inserire Hezbolloah nella lista delle organizzazioni terroristiche preparata dall’Ue. Tant’è che oggi l’ambiguità francese, che avrà un suo peso nel mancato disarmo delle milizie previsto dalla risoluzione 1.559 del dicembre 2004, viene ammessa non soltanto dagli storici israeliani, come Tsilla Hershko, ricercatrice dell’Università Bar Ilan – che accusa la Francia di aver sempre dissociato il conflitto israelopalestinese dal terrorismo islamico e di aver sempre gli occhi sulla doppiezza di Yasser Arafat – ma dalla stessa Thérèse Delpech, direttrice degli Affari strategici al commissariato all’Energia atomica, e ispiratrice di Nicolas Sarkozy. E infatti dopo l’aggressione di Hezbollah contro Israele, sfociata l’estate scorso in una guerra asimmetrica che per la prima volta ha messo in in crisi il mito dell’invulnerabilita di Tsahal, oggi non si trovano più giustificazioni a quanti (come Chirac) hanno chiuso gli occhi su Nasrallah e sulla capacità di nuocere di un movimento come Hezbollah, dotato di un arsenale micidiale che minaccia la sicurezza di Israele, e va disarmato applicando la risoluzione dell’Onu, per restaurare la piena indipendenza del Libano e assicurare una pace duratura, come dice Sarko. Ma andiamo per ordine. Nel giugno del 2003, tre mesi dopo l’inizio della guerra in Iraq, il politico più applaudito dai 40 mila ebrei alla Porta di Versailles non fu François Hollande che dichiarava “l’attaccamento indefettibile dei socialisti per lo stato di Israele”, non fu Dominique Strauss-Kahn, che cercava di rabberciare la fiducia tradita degli ebrei nella gauche, ma il ministro dell’Interno Sarkozy, che ricordò le contromisure all’antisemitismo e all’incitazione all’odio razziale cresciute in modo esponenziale con la guerra in Iraq: “Israele è una grande democrazia e va difesa e rispettata. Per questo, non ho accettato che la bandiera israeliana fosse oltraggiata con una croce uncinata durante le manifestazioni contro la guerra in Iraq”. L’anno dopo, e siamo al dicembre 2004, Sarkozy appena nominato presidente dell’Ump va in Israele per la sua prima visita ufficiale, per darsi una caratura da candidato all’Eliseo. Viene accolto dal premier Ariel Sharon, che nel maggio del 2003 s’era rifiutato di ricevere il ministro degli Esteri Villepin che aveva incontrato anche Arafat. Incontra il capo dell’opposizione Shimon Peres, pronto a guardare il futuro, e il presidente Moshe Katzav, che plaude alla censura imposta dai francesi su al Manar, la televisione di Hezbollah (primo segno di resipiscenza nei confronti del movimento di Nasrallah). Poi si fa persino un giro nel vecchio quartiere arabo di Gerusalemme, quasi a mimare a contrario la performance di Chirac che nel 1996, travolto in un bagno di folla, se l’era presa con gli agenti di sicurezza israeliana che lo tallonavano troppo da vicino: “This is not a method, this is a provocation”, questo non è un metodo, questa è una provocazione, aveva gridato Chirac sotto l’occhio delle telecamere, confermandosi una star per tutto il mondo arabo. Per Sarkozy, invece, niente ressa, niente spintoni. “Chi è questo?”,“E’ tornato Chirac?”, chiedono incuriositi i commercianti del suk. “Vi abbiamo portato suo figlio”, risponde un deputato dell’Ump. Meno noto, ma più incisivo, Sarkozy a Herzliya è ospite del presidente del Centro di studi strategici di Uri Azad, un ex del Mossad consigliere politico di Benjamin Netanyahu, che oggi che Israele entri a far parte della Nato. E tiene, come al solito, un discorso chiaro. Parla di trasparenza, semplicità, sincerità, convinto che farlo ormai sia un imperativo. “In un mondo interdipentente e multipolare come il nostro, la diplomazia non è più cosa da specialisti, ma riguarda tutti”. Insiste sulla difesa non negoziabile dello stato di Israele, sulla sofferenza e la paura come elementi di dignità. Poi, senza troppo tergiversare, arriva al sodo: “Perché nascondere le cose? Voi israeliani sieti preoccupati dall’ondata di antisemitismo che ha colpito la Francia. Secondo un recente sondaggio, l’86 per cento degli israeliani pensa che i francesi sono antisemiti. Ma io vi chiedo di credermi se vi dico che la Francia non è antisemita, anche se in Francia esiste l’antisemitismo”. E giù con l’elenco dei provvedimenti presi come ministro dell’Interno appena arrivato a Place Beauveau: statistiche da stilare d’intesa con le organizzazioni della comunità ebraica; polizia per piantonare scuole e sinagoghe; fermo per chi oltraggia la bandiera israeliana; rifiuto di ogni compiacenza, e una legge contro l’antisemitismo e il razzismo. “Cercare di spiegare l’inspiegabile, vuole dire prepararsi a scusare l’inescusabile”. La guerra all’antisemitismo non riguarda soltanto gli ebrei, ma tutti i francesi, perché “insultare un ebreo in quanto ebreo vuol dire insultare tutta la Repubblica”, spiega Sarko agli amici israeliani. Se le cose stanno così sul piano interno, anche sul piano internazionale la sicurezza dello stato di Israele sarà dunque un punto fermo e non negoziabile per la République. E infatti, davanti alla minaccia del terrorismo, Sarkozy, convinto da pragmatico liberale che la pace si conquista sulla base di interessi comuni, rilancia gli accordi bilaterali, prospetta un avvenire comune, lancia l’idea dell’Unione mediterranea, di un’organizzazione regionale per gestire insieme le risorse di acqua, la rete dei trasporti, le vie di comunicazioni, e persino un mercato comune del Mediterraneo dell’est, che riunisca Israele, il futuro stato palestinese e la Giordania. Siamo alla fine del 2004. Si parla già del ritiro da Gaza, ma il peggio è ancora lontano. Nessuno immagina che l’anno dopo la stabilità della regione sarà sconvolta dal sindaco di Teheran, Mahamoud Ahmadinejad, eletto a sorpresa presidente della Repubblica islamica. E nessuno può pensare che nel 2006 sarà Hamas a vincere le elezioni palestinesi. Sarkozy, sempre attento a non brandire l’arma della superiorità evitando l’umiliazione che di solito l’accompagna, non ha mai cavalcato lo scontro di civiltà. Ministro dell’Interno, sapeva benissimo che era un’idea incandescente per un paese come la Francia, dove i cittadini di origine araba sono più di cinque milioni, dove se la popolazione cresce col tasso di fecondità più alto d’Europa (1,9) lo si deve soprattutto alle donne immigrate, dove l’islam è ormai la prima religione professata e dove i giovani nei ghetti di banlieue giocano a importare l’intifada, e in certe scuole non si può fare una lezione sulla Shoah o sulla nascita di Israele senza gettare lo sconcerto fra quella parte della classe pronta a dichiarare che ha letto “Mein Kampf” e che Hitler, per sterminare gli ebrei, qualche ragione doveva pure avercela, come racconta Barbara Lefebvre, che insegna storia in un liceo di Puteaux. Dell’islamizzazione d’Europa, il cancro che corrode il Vecchio continente come denunciano gli apocalittici alla Dantec, Sarkozy è ben consapevole. Ma da ministro dell’Interno s’è sempre guardato bene dall’accendere la miccia. Così per esempio è stato il primo ad ammettere che la rivolta delle banlieues era un problema di tipo etnico e religioso, prendendo le difese di Alain Finkielkraut che, accusato di razzismo, stava per essere linciato dal Monde. Ma non è andato oltre. E adesso come candidato alla presidenza, e futuro responsabile del “domaine réservé” che in Francia resta la politica estera (anche se ha già deciso di cambiare le regole e aprire il dibattito in Parlamento), Sarko sa benissimo che non può alienarsi, in nome dello scontro di civiltà, l’appoggio dei paesi arabi moderati nella guerra contro le forze oscurantiste che foraggiano il terrorismo e i suoi santuari. “La lotta al terrorismo non è una battaglia contro l’islam, ma contro i gruppi e le organizzazioni che ne deviano la tradizione umanistica, e distorcono la religione in vista di obiettivi ideologici e politici”, ha detto in un’intervista l’estate scorsa, all’indomani della guerra tra Israele e Hezbollah. E ha insistito sulla distorsione della religione, come vettore dell’odio per la democrazia: significa fare dei terroristi gli avversari non soltanto delle democrazie occidentali, ma degli stessi musulmani, in bilico tra democrazia e oscurantismo. Per questo, per lui anche l’idea di una guerra aperta su tre fronti, Iraq, Afghanistan e Libano, alimentata in nome del jihad dall’Iran, grande perturbatore, è da prendere con le pinze: “Non esiste per me uno scontro tra l’islam radicale e il resto del mondo, in particolare occidentale”, ha detto Sarkozy, l’estate scorsa, quando ormai s’era deciso di mandare in Libano i soldati francesi come truppe dell’Unifil, a Michaël Prazan che l’intervistava con André Glucksmann, Yasmina Reza e Pascal Bruckner per “Le Meilleurs des Mondes”. Il che non vuol dire dar prova di debolezza davanti al terrorismo che minaccia la stabilità internazionale, ma evitare confusioni pericolose. L’idea vincente infatti è ancora e sempre politica per Sarkozy. Consiste nel federare la comunità internazionale, nel rafforzarne la presenza nei paesi minati da operazioni di gruppi terroristici, come in Afghanistan e anche in Iraq, dove ora bisogna reinventare un patto sociale che isoli i terroristi e dia a ogni comunità piena sovranità. Ma anche in Somalia e in Darfur, dove l’indifferenza davanti a 200 mila morti è diventata intollerabile. Per evitare che queste regioni diventino i santuari del terrorismo e si trasformino in sostegni attivi alle loro azioni, bisogna mobilitare le forze, costruire un consenso internazionale senza lasciare che sia l’America l’unica polizia del mondo. E soprattutto, oltre a coordinare gli sforzi nella politica di difesa dell’Ue, secondo Sarkozy bisogna coinvolgere direttamente i grandi imperi, la Russia e la Cina, anche a costo di denunciarne il dispotismo e le violazioni dei diritti dell’uomo, senza restare prigionieri degli interessi commerciali. L’obiettivo per Sarko è stabilire rapporti internazionali responsabili e sovrani. E l’unico modo per raggiungerlo è promuovere le libertà e i diritti dell’uomo sulla scena internazionale, rifiutando la sterile contrapposizione tra realpolitiker e idealisti. Tra l’immobilismo dei primi, difensori di uno status quo ingiusto e crudele, e le fughe in avanti dei secondi, s’apre lo spazio della “rupture”.
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