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Il Foglio Rassegna Stampa
27.03.2007 Condoleezza Rice promuove il piano saudita
le analisi di quattro commentatori americani e israeliani

Testata: Il Foglio
Data: 27 marzo 2007
Pagina: 4
Autore: la redazione
Titolo: «Rice e Ban Ki-moon tirano la volata al piano saudita per Israele e Palestina, i ministri arabi lo firmano»
Dal FOGLIO del 27 marzo 2007, un articolo sul piano di pace saudita che riporta anche le opinioni di chi sottolinea che esso non comporta nessuna reale apertura araba a Israele.

Ecco il testo:

Gerusalemme. Alla sua terza visita in medio oriente dall’inizio dell’anno, Condoleezza Rice, segretario di stato americano, ha voluto dare una spinta all’iniziativa saudita per sbloccare la questione israelo-palestinese. E ha raggiunto il suo obiettivo. I capi della diplomazia della Lega araba, riuniti a Riad in un incontro preliminare al summit che si apre domani, hanno approvato “nel suo testo iniziale e senza emendamenti” il “piano di pace saudita”, così come era stato presentato già nel 2002, per poi però essere cassato dalle successive modifiche. Durante il vertice della Lega araba il testo sarà valutato nella sua interezza, con “margini di flessibilità”, come ha detto il ministro degli Esteri saudita Saud al Faisal, per renderlo “compatibile” con i recenti cambiamenti. Cioè potrebbe subire qualche modifica per essere accettato da Israele. Dopo Rice – che è tornata ieri sera a Gerusalemme in seguito a un incontro con il rais palestinese, Abu Mazen, e il re giordano Abdallah ad Amman – è stata la volta del segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, che alla sua prima visita nella regione ha proposto al premier israeliano, Ehud Olmert, un incontro con i paesi arabi moderati per discutere di pace. Olmert ha risposto: “Se arriverà un invito, non esiterò ad accettarlo”. Alla vigilia del summit di Riad, la “sorpresa saudita” pare prendere forma, grazie al contributo della diplomazia americana e onusiana: i due quartetti – quello della road map composto da Europa, Onu, Russia e Stati Uniti, e quello arabo formato da Arabia Saudita, Egitto, Giordania ed Emirati arabi – potrebbero sedersi allo stesso tavolo con Israele e discutere di un processo di pace. Al momento è soltanto una possibilità: come è noto, il piano saudita presenta alcune condizioni non accettabili da Israele, ma rappresenta l’unica alternativa alla situazione di stallo in cui si è arenato il dialogo tra il governo di Gerusalemme e i palestinesi, dopo che il governo d’unità nazionale si è rivelato ancora una volta un’emanazione di Hamas. Scetticismi ed entusiasmi si alternano nei confronti della mediazione saudita. L’obiettivo di Riad è uno solo e ha a che fare con Israele in modo indiretto: contenere l’ascesa della leadership iraniana nel mondo islamico. Ma l’attivismo di re Abdullah divide gli analisti: molti temono che l’attenzione statunitense per l’iniziativa di Riad sia eccessiva e dagli esiti pericolosi. Altri dicono che, non essendoci alternative, bisogna aspettare di vedere che cosa riescono e vogliono ottenere i sauditi. Il Foglio ha contattato quattro commentatori tra Washington e Israele per parlare di questa mediazione: Laurent Muraweic, ricercatore presso l’Hudson Institute; David Schenker, ricercatore presso il Washington Institute for Near East Policy; Mordechai Abir, del Jerusalem Center for Public Affairs; Joseph Kostiner, professore presso il Moshe Dayan Center all’Università di Tel Aviv. Il petrolio e Teheran L’arma che Riad usa con maggior dimestichezza è quella petrolifera. “I dati dimostrano che l’Arabia Saudita sta aumentando la quantità di petrolio presente sul mercato in modo da diminuirne il prezzo in un momento in cui l’Iran, colpito dalle sanzioni, avrebbe più bisogno di questi introiti”, spiega Muraweic. Questo strumento di pressione è però limitato “perché si può inondare il mercato, ma se dovesse esserci un effetto panico, il prezzo del petrolio comincerà a ballare”. Abir sottolinea che “i paesi industrializzati hanno riconosciuto la superiorità dell’Arabia Saudita non per la sua forza militare o politica ma perché controlla le strategie dell’Opec, e quindi delle risorse che finiscono sul mercato”. Gli iraniani possono “alzare la voce e fare minacce, ma la nazione che realmente definisce i toni della regione è una soltanto, ed è l’Arabia Saudita”. Ma resta la paura nei confronti della leadership di Teheran e della comunità sciita: Riad cerca di creare una “causa comune” con i paesi arabi moderati e usa tutto il potere finanziario a sua disposizione. “L’Arabia Saudita cerca di ‘ricomprarsi’ Hamas attraverso l’accordo della Mecca (da cui è nato l’attuale governo d’unità nazionale palestinese, ndr) – spiega Schenker – e di dare sostegno al governo libanese di Fouad Siniora per mandare messaggi a Hezbollah. E ha anche adottato una linea dura con la Siria, che è l’alleato numero uno dell’Iran nella regione”. Questi incontri e questi tentativi di strappare gli alleati iraniani dall’orbita di Teheran sono visti come provocazioni. Ma Kostiner è molto cauto sull’“alleanza sunnita”: “E’ un gioco rischioso – dice – per tutti i sunniti. Stimolare i sunniti con finanziamenti e armi è uno strumento efficace, ma questo può voler dire finire con sostenere, per esempio, al Qaida in Iraq, che è violentemente anti sciita”. E’ un’arma a doppio taglio, che già ha mostrato quanto può essere devastante. Il terreno di scontro più probabile è l’Iraq. “L’Arabia Saudita si sente vulnerabile – sottolinea Kostiner – perché non ha un esercito potente e ha confini molto lunghi che la piazzano al centro di parecchi conflitti. E’ terrorizzata dal fatto che una forza rivoluzionaria possa stravolgere tutti gli equilibri: il 12 per cento della popolazione saudita è sciita, e vive nella regione più ricca di petrolio di tutto il paese”. Di recente il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, è andato a Riad per incontrare il re Abdullah. Un vertice breve, dagli esiti incerti: si sono accordati per “contenere i conflitti settari che stanno insanguinando il medio oriente”. Kostiner commenta scettico: “Non vogliono divisioni settarie, o non vogliono divisioni settarie dominate dalla setta avversaria?”. L’ossessione di Riad per la mediazione Nel 2002 l’iniziativa saudita era stata considerata, prima che i membri della Lega araba la emendassero fino a stravolgerla, una possibile via per tentare di andare avanti nel processo di pace tra Israele e Palestina. Negli ultimi mesi, ci sono stati contatti tra il governo di Gerusalemme e Riad per valutare se alcuni punti di quell’iniziativa possano essere riattualizzati e da domani il piano sarà all’ordine del giorno della Lega araba. Secondo Schenker, “l’Arabia Saudita, riconoscendo la minaccia costituita dall’Iran, sta valutando una cooperazione tattica con Israele. Hanno in questo momento un interesse comune che ha a che fare con il contenimento della minaccia iraniana. Molti stati arabi, in particolare quelli sunniti del Golfo, hanno cominciato a riconoscere che Israele è ormai una realtà”. Ma c’è un ma, come sempre. Ed è “la natura dell’attuale governo palestinese”. Secondo Abir, Israele dovrebbe comunque sostenere l’iniziativa saudita: “Con un miliardo e trecentomila musulmani che hanno un potere enorme all’interno delle Nazioni Unite, penso che sia necessario instaurare un dialogo fruttuoso tra Israele e Riad, visto che quest’ultima ha una grande influenza nel mondo sunnita”. Muraweic non è per nulla d’accordo: “I sauditi devono avere ben più paura di quanta già ne abbiano per essere credibili in un processo di pace con Israele”. L’attuale iniziativa è, secondo lui, “farsesca”. Al suo centro c’è infatti il ritorno dei rifugiati il che, secondo Muraweic, rappresenta un’“opzione suicida” per il governo di Gerusalemme. Anche Kostiner condivide lo stesso scetticismo. “Quello che i sauditi fanno è mediare, mediare, mediare – dice – Mediano per mantenere la loro posizione privilegiata nella regione. Ma non hanno un’idea forte, e certo non sono mai stati parti di un ‘processo di pace’. Per questo, ogni volta che sono stati criticati, i sauditi hanno mollato il colpo. Nel 2002, la loro iniziativa dichiarava una normalizzazione dei rapporti con Israele, ma non appena la Siria si oppose, Riad si arrese. La stessa cosa era già accaduta in passato”. Kostiner chiosa: “Mai avere troppe aspettative nei confronti dei sauditi. Loro vogliono soltanto mantenere il mondo arabo calmo, qualsiasi cosa in più di Rice e Ban Ki-moon tirano la volata al piano saudita per Israele e Palestina, i ministri arabi lo firmanoquesta non è nei loro desideri”. Però l’influenza di re Abdullah sui palestinesi è consolidata. “Sì – continua Kostiner – ma a Riad interessa che non ci sia un collasso interno ai palestinesi perché questo potrebbe portare o a un intervento israeliano o, peggio ancora, a uno iraniano. Quindi i sauditi vogliono che le fazioni palestinesi smettano di combattersi, ma questo non ha nulla a che fare con qualche volontà di pace nei confronti di Israele”. Semplicemente, “it’s not their business”, dice il professore dell’Università di Tel Aviv. Loro hanno un’iniziativa, la mettono sul tavolo, “fa parte del solito atteggiamento, della tipica postura saudita, quella da mediatori. In questo modo si guadagnano una certa immunità: chi attaccherebbe mai i mediatori?”. Gli interessi di re Abdullah e un patto Soltanto Abir è ottimista sul summit che si apre domani: “I gruppi principali sotto l’egida saudita, come quelli giordani ed egiziani – dice – che hanno la tendenza a negoziare con Israele, cercheranno di rendere più accettabile l’iniziativa per il governo di Gerusalemme”. Tutti i suoi colleghi scuotono la testa. Ma, viste le circostanze, il momento di difficoltà, i tanti fronti di conflitto, ci si potrà, con cautela certo, fidare un po’ dei sauditi? Kostiner la definisce una domanda da un milione di dollari e, molto pragmaticamente, risponde: “L’occidente può fidarsi di Riad a patto che capisca che Riad non fa nulla nell’interesse dell’occidente”. Prima viene la sopravvivenza e la leadership della corte, poi “forse” il mondo arabo. Non combattono in prima persona, i sauditi, anche Muraweic è d’accordo. Soltanto Abir, ancora una volta, dissente. Non sarà la migliore delle alternative, “ma l’unico modo che abbiamo per parlare con il mondo arabo è la mediazione del re saudita Abdullah”. L’unica chance del momento.

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