Zbigniew Brzezinski, Consigliere per la Sicurezza Nazionale durante l'amministrazione Carter, è uno dei teorici americani del compromesso con il fondamentalismo islamico, con la rivoluzione khomeinista in Iran, con il terorrismo palestinese.
Convinto da sempre che l'alleanza con Israele, l'unica democrazia compiuta del Medio Oriente fosse contraria agli interessi americani, meglio tutelati, secondo lui, da rapporti privilegiati con gli emiri e i monarchi della penisola araba e persino con gli ayatollah iraniani, non è stato riportato alla realtà nemmeno dall'11 settembre.
Il terrorismo, in fondo, per lui non è una gran cosa, così come il fondamentalismo islamico che lo motiva.
Il vero rischio viene dalla paranoia e dalla cultura della paura che ha prodotto nella società americana.
Basterebbe superarle per tornare al proficuo dialogo con i dittatori mediorentali che Bush ha avuto la pessima idea di deporre e assicurare ai tribunali dei loro popoli.
Dopo di che i terroristi di Al Qaeda potrebbero essere facilmente isolati e sconfitti, lasciando in pace tutti gli altri , molto più "moderati".
Brzezinski denuncia anche fantomatica "vessazione legale e politica degli arabo-americani". Un'affermazione assai grave che andrebbe provata, ma che contrasta con il fatto che i diritti costituzionali dei membri di questo gruppo non sono stati affatto intaccati.
E numerosi, al contrario, sono gli arabi e i musulmani americani che vedono nella loro patria d'adozione il rifugio dalle vessazioni e dalle persecuzioni dei fondamentalisti.
Brzezinski potrebbe farsi informare in merito, da Wafa Sultan, da Nonie Darwish, da Ayaan Hirsi Ali.
Ecco il testo:
La «Guerra al terrorismo» ha dato vita in America a una cultura della paura. L´elevazione di queste tre parolette a mantra nazionale da parte dell´Amministrazione Bush, dopo i terribili eventi dell´11 settembre, ha avuto un effetto deleterio sulla democrazia americana, sulla psiche americana e sulla reputazione degli Stati Uniti nel mondo. L´utilizzo di questa formula ha di fatto pregiudicato la nostra capacità di affrontare in modo efficace le vere sfide che ci impongono i fanatici che potrebbero utilizzare il terrorismo contro di noi. Il danno inferto da queste tre parole - la classica ferita che ci si infligge da soli - è infinitamente più grande di qualsiasi sfrenata aspirazione avessero in mente i fanatici che hanno perpetrato gli attentati dell´11 settembre allorché complottavano contro di noi nelle remote caverne dell´Afghanistan.
In sé e per sé la formula è priva di significato: non definisce con precisione né un ambito geografico né il nostro presunto nemico. Il terrorismo non è un nemico, bensì una tecnica di guerra: è l´intimidazione politica attuata con l´uccisione di esseri umani disarmati.
Può anche essere che l´indeterminatezza della frase sia stata intenzionalmente (o istintivamente) calcolata dai suoi sostenitori. Il costante riferimento a una «guerra al terrorismo» ha di fatto conseguito un obiettivo primario, quello di favorire l´affermarsi di una cultura della paura. La paura obnubila la ragione, intensifica le emozioni e rende più facile per i politici demagogici mobilitare l´opinione pubblica nell´interesse delle politiche che si prefiggono di perseguire. Senza quel legame psicologico instaurato tra lo shock dell´11 settembre e la presunta esistenza di armi irachene di distruzione di massa, la guerra in Iraq non avrebbe mai conseguito il supporto del Congresso di fatto ottenuto. Anche il sostegno al presidente Bush nelle elezioni del 2004 è stato almeno in parte incamerato grazie al principio secondo cui «una nazione in guerra» non cambia il proprio comandante in capo nel bel mezzo dell´azione. Una sensazione di intenso pericolo, per altri versi del tutto imprecisato, è stata quindi inculcata in una direzione politicamente opportuna dall´appello mobilizzante dell´essere «in guerra».
La cultura della paura è come il genio fatto uscire dalla lampada: acquisisce vita propria e può diventare demoralizzante.
Che l´America sia diventata insicura e molto più paranoica è difficilmente contestabile. Da un recente studio è emerso che nel 2003 il Congresso aveva individuato 160 località che potevano diventare obiettivi potenzialmente importanti a livello nazionale per i presunti terroristi. Grazie al peso di varie lobby, alla fine di quell´anno l´elenco dei luoghi-bersaglio era già salito a 1.849. Alla fine del 2004 ha raggiunto i 28.360 e alla fine del 2005 i 77.769. Oggi l´archivio nazionale dei possibili obiettivi di un attentato terroristico comprende 300.000 località circa. Tra di esse figurano la Sears Tower di Chicago e una Sagra della mela e del maiale dell´Illinois.
Proprio la settimana scorsa, qui a Washington, mentre mi recavo in visita a uno studio giornalistico, ho dovuto passare attraverso uno di quegli assurdi "controlli di sicurezza" proliferati in quasi tutti gli edifici privati di uffici della capitale e della città di New York. Una guardia in uniforme mi ha chiesto di riempire un modulo, di mostrare un documento di identità e nel caso specifico di spiegare gli scopi della mia visita. Un terrorista in visita indicherebbe per iscritto di voler «far saltare in aria l´edificio»? E la guardia, sarebbe effettivamente in grado di fermare un aspirante attentatore suicida disposto ad autodenunciarsi? A rendere le cose ancora più paradossali, c´è il fatto che i grandi magazzini, con tutte le loro folle di acquirenti, sono esentati da procedure simili. Né del resto queste sono previste per gli auditorium o i cinema. Ciò nonostante, queste "procedure di sicurezza" sono diventate routine, comportano uno spreco di centinaia di milioni di dollari e danno un ulteriore contributo a far affermare questa mentalità di assedio permanente.
L´atmosfera generata dalla "guerra al terrorismo" ha incoraggiato la vessazione legale e politica degli arabo-americani. La discriminazione sociale, per esempio quella nei confronti dei musulmani che viaggiano in aereo, è anch´essa una conseguenza collaterale involontaria: non deve stupire il fatto che il risentimento nei confronti degli Stati Uniti sia cresciuto perfino tra musulmani per altro non particolarmente interessati al Medio Oriente, mentre la reputazione dell´America di leader nel promuovere rapporti costruttivi interrazziali e interreligiosi ne ha gravemente sofferto.
Questo risultato è ancora più preoccupante nell´area più generale dei diritti civili. La cultura della paura ha alimentato l´intolleranza, il sospetto nei confronti degli stranieri, l´adozione di procedure legali che sono deleterie per i principi fondamentali della giustizia. Il principio secondo il quale si è innocenti fino a quando la colpevolezza non è dimostrata si è stemperato, se già non si è dissolto del tutto, e alcune persone - anche cittadini statunitensi - sono incarcerate per lunghi periodi senza un giusto processo. Non vi è alcuna prova sicura di cui si abbia testimonianza che un simile eccesso ha effettivamente scongiurato qualche significativo attentato terroristico, né che gli arresti di presunti terroristi di qualsivoglia tipo siano serviti a qualcosa. Un giorno gli americani si vergogneranno di tutto ciò.
Nel frattempo, però, la «guerra al terrorismo» ha gravemente pregiudicato gli Stati Uniti a livello internazionale. Il risentimento non si limita ai musulmani: un recente sondaggio condotto dalla Bbc presso 28.000 persone di 27 paesi, per capire in che modo si valuti il ruolo dei vari Stati nelle questioni internazionali, ha evidenziato che Israele, Iran e Stati Uniti (in questo ordine) sono considerati i paesi che hanno «la peggiore influenza negativa al mondo».
Quanto accaduto l´11 settembre avrebbe potuto portare a una solidarietà davvero globale contro l´estremismo e il terrorismo. Un´alleanza globale dei moderati, inclusi quelli musulmani, impegnata in una campagna dichiarata volta a estirpare i network specificatamente terroristici e a porre fine ai conflitti politici che alimentano il terrorismo sarebbe stata molto più fruttuosa di una «guerra al terrorismo» contro il «fascismo islamico» proclamata demagogicamente e pressoché unilateralmente dagli Stati Uniti. Soltanto un´America fiduciosamente determinata e raziocinante potrà promuovere un´autentica sicurezza internazionale che non lascia più spazio al terrorismo.
Dov´è il leader degli Stati Uniti disposto a dire: «Basta con queste isterie, poniamo fine a questa paranoia»? Anche posti di fronte a futuri attentati terroristici, la probabilità dei quali non può essere negata, cerchiamo di dimostrare un po´ di buonsenso. Cerchiamo di rimanere fedeli alle nostre tradizioni.
Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail alla redazione della Repubblica