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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Alan Lewy Il cacciatore di nazisti 25/03/2007
Alan Lewy Il cacciatore di nazisti
Mondadori, pagine 447,
e 20

Lunedì 23 maggio 1960 Simon Wiesenthal ricevette da Gerusalemme questo telegramma: «Congratulazioni per l'eccellente lavoro svolto». Accompagnava l'annuncio della cattura di Eichmann, l'angelo della morte, il regista della Soluzione finale, il grande persecutore degli ebrei. E quella cattura la si doveva a lui. Wiesenthal porse il telegramma alla figlia Pauline, che aveva 14 anni, e le disse: «Quando eri piccola, il tuo papà non c'era mai. Quando me ne andavo al lavoro in cerca di quest'uomo tu dormivi già, e quando tornavo a casa eri ancora addormentata. Non so quanti anni mi restino da vivere, né se avrò un patrimonio da lasciarti. Ma il telegramma che vedi è il mio regalo per te: con questo sono entrato nella storia». Con questo e con altro. Nessuna persona, nessuna organizzazione, nessuna polizia, nessuna istituzione al mondo ha fatto quanto quest'uomo per ricercare e punire i responsabili della pagina più infame della storia moderna, la Shoah, l'Olocausto. Dal suo Centro di documentazione di Vienna, Wiesenthal ha guidato la caccia ai peggiori criminali nazisti ed è riuscito, da solo, ad assicurare alla giustizia gli assassini che le erano sfuggiti. Il maggiore di tutti, Eichmann, e poi Stangl, responsabile di un milione di morti, e Wagner che aveva diretto il progetto eutanasia per eliminare i minorati e i deformi. Oltre le centinaia di altri criminali che Alan Lewy enumera nel suo libro
Il cacciatore di nazisti
(Mondadori, pagine 447,
e 20), in cui racconta le avventure, i tormenti, il dramma di quest'uomo che perseguì fino alla fine della vita l'impegno morale di spazzar via quanto restava impunito della feccia nazista. Un uomo a cui avevano ucciso 89 familiari, a cui avevano distrutto l'esistenza, che era passato attraverso quattro campi di sterminio e si batteva perché non fossero dimenticati i sei milioni di ebrei morti nei lager. E com'erano morti...
Anche Lewy si chiede ciò che probabilmente si sono chiesti in tanti, specie da quando è cominciata a germogliare l'ibrida (e infame) pianta del negazionismo. Che cosa può avere spinto un uomo, emerso finalmente dall'inferno e con una vera vita davanti a sé, a sacrificarla, questa vita, per perseguire i criminali nazisti sfuggiti alla pena meritata. Desiderio di giustizia? Sete di vendetta? Ricerca della verità? Dedizione alla causa? Smania di protagonismo? La risposta è che forse, in Wiesenthal, c'era un misto di tutto questo: ma che egli aveva visto troppo, condiviso troppo dolore, che aveva subito l'inimmaginabile, che era passato attraverso troppe distese di massacrati, che era stato intriso di troppo sangue, che aveva sognato nello strazio dei lager il giorno (se mai fosse giunto) in cui avrebbe potuto testimoniare «la latitanza di Dio» e assumersi il ruolo di rappresentante dei morti. Solo così si può capire Wiesenthal. E i suoi rimorsi: come quello per un giovane SS morente in un ospedale, che chiedeva la presenza di un ebreo per averne il perdono. Wiesenthal andò e gli tenne la mano fino alla fine, ma il perdono non gli riuscì di darlo. Non poteva. E se ne tormentò per sempre.
Di Eichmann, il responsabile della Soluzione finale, disse: «Era un risultato così perfetto dell'indottrinamento nazista che se gli avessero ordinato di prendere l'elenco del telefono e di uccidere tutte le persone i cui nomi cominciavano per K, fossero o meno ebrei, lo avrebbe fatto, Kaiser compreso». Stangl aveva diretto i campi di sterminio di Treblinka e di Sobibor e aveva fatto personalmente gasare un milione di ebrei. Wiesenthal riuscì a individuarlo in Brasile e a farlo estradare in Germania, dove fu sottoposto a processo a Düsseldorf. Morì sei mesi dopo la condanna all'ergastolo e in quei mesi si confidò, anzi si mise a nudo, con Gitta Sereny, la quale descrisse quei colloqui con l'assassino nel più straordinario dei libri su ciò che Hanna Arendt avrebbe definito la «banalità del male». Perché Stangl non si poteva nemmeno dire pentito: era stato un esecutore che non si era mai chiesto il perché di nulla, un robot al servizio del crimine senza rendersi conto di esserne il protagonista. Un milione di morti per una condanna pagata solo con sei mesi di carcere. Wiesenthal calcolò 18 secondi di prigionia per ogni ebreo di quel milione di assassinati.
Al cacciatore di nazisti non riuscì la cattura di Mengele, il sadico medico di Auschwitz che compiva i suoi atroci esperimenti sui bambini. Mengele, fuggito in Brasile e in Paraguay, era troppo protetto, troppo ricco di famiglia, troppo tutelato dai vari dittatori sudamericani filonazisti. Wiesenthal lo braccò per anni, seguendolo in ognuna delle varie tappe della sua fuga, fino alla morte naturale, per annegamento, nel mare di Bertoga, nel febbraio 1979. Eppure si sapeva che in quanto a crudeltà, ferocia ed efferatezza, nessuno dei criminali nazisti reggeva il confronto con Mengele. Che fosse sfuggito, per Wiesenthal fu un'onta non solo sua, ma del mondo che lo aveva permesso. Prima di morire, nella sua casa di Vienna si allineavano a decine i riconoscimenti, le onorificenze, le decorazioni che la sua opera gli aveva meritato da ogni parte del mondo. Era stato nove volte candidato al Nobel per la pace, sempre bocciato dai soloni di Stoccolma.
Catturò Eichmann e Stangl, ma gli sfuggì Mengele

Silvio Bertoldi dal Corriere della Sera del 25 marzo 2007

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