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24.03.2007
La sfida dell'islam
un articolo di Bernard Lewis
Testata : Corriere della Sera
Data : 24 marzo 2007
Pagina : 47
Autore : Bernard Lewis
Titolo : «Lo scontro»
Dal CORRIERE della SERA del 24 marzo 2007: gli occhi di una fanatica e risoluta minoranza di musulmani, la terza ondata dell'attacco all'Europa è chiaramente partita. Faremmo bene a non ingannarci con i «che cos'è» e «che cosa significa». Il tema che voglio affrontare è l'emigrazione. In epoche lontanissime, che un musulmano potesse trasferirsi, di sua spontanea volontà, in un Paese non musulmano era inconcepibile. I giuristi affrontano esaurientemente la questione nei manuali della sharia, ma sotto diversa forma: è lecito che un musulmano viva o anche solo visiti un Paese non musulmano? E, ove ciò avvenisse, come deve comportarsi? Ci fu chi sosteneva che fosse lecito, per i musulmani, rimanere purché venissero rispettate determinate condizioni, in primis la pratica della propria fede. Ciò che solleva un'altra questione, cui dò subito risposta. Che cosa si intende per «pratica della propria fede»? A tale proposito, è bene ricordare che si sta parlando non soltanto di una religione diversa, ma anche di una differente concezione dei suoi contenuti e sfera d'azione, e mi riferisco soprattutto a quella che i musulmani chiamano sharia, la santa legge dell'Islam, che copre un ampio spettro di questioni considerate «laiche» nel mondo cristiano già in epoca medioevale, e senz'altro lo sono in quello che qualcuno definisce Occidente postcristiano. Altra questione che merita di essere analizzata è quella dell'assimilazione, di cui oggi molto si discute. Fino a che punto gli emigrati musulmani stabilitisi in Europa, Nord America e altrove possono integrarsi in questi Paesi, come già avvenuto in passato con le tante ondate di immigrati? Credo sia necessario fare chiarezza su diversi punti. Ad esempio, le sostanziali divergenze quanto al preciso significato del concetto di «assimilazione» e «accoglienza». Emerge subito, a tale proposito, un'immediata quanto ovvia discrepanza tra il contesto europeo e quello americano. Diventare americano implica, per un immigrato, una nuova fedeltà politica. Diventare francese o tedesco, invece, comporta, per lo stesso immigrato, una nuova identità etnica. È indubbio che il primo cambiamento sia molto più agevole e comodo del secondo, in termini di sensibilità o grado di accoglienza del singolo. In tale cornice, a fare la differenza è il significato attribuito alla parola religione. Che, sostengono i musulmani, investe una lunga sequela di questioni: matrimonio, divorzio ed eredità gli esempi più evidenti. Sin dall'antichità, nel mondo occidentale e cristiano, queste ultime vengono considerate come questioni laiche. La distinzione tra Stato e Chiesa, tra spirituale e temporale, tra laico ed ecclesiastico è di matrice cristiana, ed è assente nella storia dell'Islam; ecco perché è tuttora difficile da spiegare ai musulmani. I quali, fino a pochissimo tempo fa, neanche disponevano di un lessico per esprimerla. Come reagisce l'Europa a una simile situazione? Nel Vecchio Continente, così come negli Usa, una risposta frequente è quella che prende variamente il nome di multiculturalismo e political correctness. Nel mondo musulmano, non esistono inibizioni di sorta. I suoi cittadini, difatti, sono perfettamente consapevoli della propria identità. Sanno chi sono, che fanno e cosa vogliono, qualità che noi sembriamo avere in larghissima parte smarrito. Ciò che si traduce in un punto di forza nell'un caso, e di debolezza nell'altro. Si parla anche, talvolta, di constructive engagement, di «scontro costruttivo». Parliamo loro, incontriamoci e vediamo cosa si può fare. Lo scontro costruttivo ha una lunga tradizione. Quando riconquistò Gerusalemme e altre località in Terra Santa, Saladino consentì ai mercanti cristiani provenienti dall'Europa di rimanere nelle città portuali. Egli, a quanto pare, sentì il bisogno di giustificarsi, e scrisse una lettera al califfo di Bagdad per spiegare il suo gesto: ne ripropongo un passaggio. I mercanti erano utili poiché «non c'è alcuno tra loro che non ci porti e venda armi per combattere, a loro detrimento e nostro vantaggio». Il fenomeno continuò durante le Crociate. E dopo. Lo scontro costruttivo ha una lunga storia. Difatti, ne esiste anche una versione moderna, e piuttosto stupefacente. Si è assistito, a suo tempo, all'imperdibile spettacolo di un Papa che si scusa con i musulmani per le Crociate. Non che io desideri difendere il comportamento dei crociati, sotto più aspetti spietato. Mi aspetto soltanto un po' di senso delle proporzioni, quello sì. Dovremmo credere, ora, che le Crociate furono un arbitrario atto di aggressione contro il pacifico mondo musulmano. Per favore! Il primo appello papale alla Crociata fu lanciato nell'anno 846, quando una spedizione araba proveniente dalla Sicilia risalì il Tevere e saccheggiò la basilica di San Pietro. Un sinodo tenutosi in Francia lanciò un appello affinché i sovrani cristiani si unissero contro «i nemici di Cristo», e il Papa, Leone IV, offrì una ricompensa celeste a quanti fossero morti combattendo i musulmani. Dopo un secolo e mezzo e molte altre battaglie, nel 1096, i crociati giunsero effettivamente in Medio Oriente. Le Crociate furono un'intempestiva, circoscritta e vana imitazione della jihad. Un tentativo di recuperare con la guerra santa le perdite di un'altra guerra santa. Fallito, e senza alcun seguito. Oggi, gli estremisti islamici sono stati persino capaci di trovare qualche alleato in Europa. Nell'abbozzarne una descrizione, dovrò ricorrere alle parole «destra» e «sinistra»; parole sempre più fuorvianti. Arduo applicare le stesse categorie all'odierno Occidente. Del tutto insensato ricorrervi per etichettare i vari tipi di Islam. Ma tale è l'uso che se ne fa comunemente: mettiamola così. C'è un fascino sinistroide esercitato sugli elementi di antiamericanismo presenti in Europa, che funge, per così dire, da epigono dell'Urss. E c'è una malia destroide che agisce, sempre in Europa, sugli elementi di antigiudaismo, surrogato dell'Asse. Il sostegno che si è potuto incamerare sotto entrambe le vesti è stato notevole. Qualcuno, in Europa, sostiene che l'odio abbia chiaramente la meglio sui giuramenti di fedeltà. E adesso, in quale fase ci troviamo? Che la terza «ondata» sia quella buona? Niente è impossibile. Dalla loro parte ci sono alcuni chiari vantaggi. Hanno fervore e convinzione, sono persuasi di battersi per una causa giusta, mentre noi passiamo la maggior parte del tempo ad autodenigrarci e mortificarci. Sono leali e disciplinati e registrano, fatto forse più importante in assoluto, un buon andamento demografico, giacché il connubio di incremento naturale ed emigrazione comporta notevoli cambiamenti a livello di popolazione, ciò che potrebbe tradursi, in un prossimo futuro, in maggioranze significative almeno in qualche città — o addirittura Paese — del Vecchio Continente. Anche noi, però, possiamo contare su qualche vantaggio, in primis libertà e sapere. Il fascino esercitato dal puro sapere è fin troppo evidente. Chi ne fa parte è dolorosamente consapevole della propria arretratezza, e saluta l'opportunità di porvi rimedio. Meno evidente, ma altrettanto forte, è il richiamo della libertà. In passato, la parola «libertà» non veniva utilizzata, nel mondo islamico, in senso politico. La libertà era un concetto giuridico. Si era liberi se non si era schiavi. Vigeva l'istituto della schiavitù. Libero uguale non schiavo. A differenza dell'Occidente, non si adoperavano i concetti di libertà e schiavitù come allegoria del buono e cattivo governo, come noi a lungo abbiamo fatto. Per spiegare la differenza tra buono e cattivo governo, si ricorreva alle nozioni di «giustizia» e «ingiustizia». Un buon governo è un governo giusto, in cui la Santa Legge, comprese le restrizioni all'autorità sovrana, viene rigorosamente applicata. La tradizione islamica — in teoria e, fino all'assalto della modernità, in larga misura anche sul piano pratico — rifiuta categoricamente qualsiasi forma di governo dispotico e arbitrario. Così, l'idea di vivere secondo giustizia riflette un approccio quanto più vicino a quella che noi definiamo «libertà». Tuttavia, l'idea di libertà secondo l'interpretazione dell'Occidente si sta progressivamente affermando. È sempre più compresa, apprezzata e ambita. E forse, pensando al lungo periodo, rappresenta la nostra migliore speranza — o magari soltanto l'unica che abbiamo — di sopravvivere a questa battaglia. © Global Viewpoint 2007 Traduzione di Enrico Del Sero Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail alla redazione del Corriere della Sera
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