Minaccia iraniana: un'idea su come l'Europa potrebbe fermarla e un'analisi dell'ambigua politica russa
Testata: Il Foglio Data: 21 marzo 2007 Pagina: 2 Autore: Andrea Affaticati -l a redazione Titolo: «La bomba iraniana - Le fatture di Putin»
Sanzioni economiche europee control'Iran. Sono forse l'unico modo per fermare le ambizioni genocide del regime degli aytollah senza una guerra. Lo sostiene il politologo tedesco Matthias Küntzel. Dal FOGLIO del 21 marzo 2007:
Berlino. “Se c’è un potere in grado di fermare Teheran senza ricorrere alle armi, si chiama Unione europea. Gli Usa no: non hanno scambi commerciali con l’Iran. Cina, Giappone e Russia nemmeno: l’Iran può fare a meno di loro. Ma ha bisogno dell’Europa. Il 40 per cento delle sue importazioni arrivano da qui, noi assorbiamo il 25 per cento delle sue esportazioni”. Così scriveva una settimana fa Matthias Küntzel, politologo tedesco, esperto di questioni mediorientali. Un appello che arriva tempestivo, in previsione del Consiglio di sicurezza dell’Onu di questa settimana per la nuova risoluzione sul programma nucleare di Teheran e sulle future sanzioni, ma che è anche un chiaro appello all’Ue, di cui la Germania ha la presidenza di turno, e che domenica prossima, a Berlino, festeggerà i 50 anni dai Trattati di Roma. Küntzel, 51 anni – un passato, tra il 1984 e1988, da consulente dei Verdi “ero a libro paga, non nel partito”, precisa in questa intervista al Foglio – non è tra gli esperti molto richiesti nel suo paese. Tutt’altro. “Quando nel 2002 uscì il mio libro ‘Djihad und Judenhass’ (Jihad e odio per gli ebrei) il Deutschlandfunk, con uno dei programmi di recensioni di saggi più importanti, l’ha fatto a pezzi, liquidandolo come propaganda pro Bush. Zeit, Frankfurter Allgemeine, Süddeutsche Zeitung non l’hanno nemmeno preso in considerazione”. Quello che l’aveva spinto a scrivere il libro era stata un’analogia tra l’11/9 e una fantasia di Hitler, raccontata da Albert Speer, che nelle sue memorie “L’architetto del Führer” ricordava come Hitler si esaltasse all’idea di vedere un giorno andare in fiamme e schiantarsi a terra i grattacieli di New York. “L’attacco alle Twin Towers mi portò a pensare che vi fossero motivazioni simili. Cioè che New York veniva vista come una città ebrea, che i grattacieli fossero simbolo di una detestata modernità”. Küntzel continua a essere, come lui stesso dice, più noto in America che in patria. La Yale University nel 2003 lo invitò come keynote-speaker nella conferenza Genocide and Terrorism – Probing the Mind of the Perpetrator; nel 2004 è stato accolto come ricercatore associato al Vidal Sassoon International Center for the Study of Antisemitism (SICSA) della Hebrew University di Gerusalemme. Ora anche in Germania piccoli segni di cambiamento sono in atto. Due volte gli è stato chiesto di scrivere per la più importante rivista di politica estera, la Internationale Politik. Ancora più significativo è il fatto che la Zeit l’abbia difeso dopo che l’università di Leed, in seguito ad alcune email di protesta di studenti musulmani, aveva annullato l’intervento di Küntzel alla conferenza su“Antisemitismo islamico”. Nuovo corso Merkel? Un cambiamento dovuto al nuovo corso Merkel? “Ho apprezzato le parole della Kanzlerin l’anno scorso alla conferenza Nato di Monaco: paragonò il pericolo dell’atomica iraniana a quello degli anni 30 del nazismo. Ancora la sua decisa presa di posizione quando disse: ‘L’Iran ha oltrepassato la linea rossa’, ‘è un errore temporeggiare, bisogna frenarlo subito’. E infine il suo riferimento al passato tedesco, Auschwitz compreso, ‘che chiama la Germania a impegnarsi ancora più degli altri’”. Una posizione assai diversa da quella del governo rosso-verde: “Dove certo Fischer si esprimeva in maniera più elegante di Schröder, ma nei fatti andavano in tandem”. L’antiamericanismo di Schröder, di questo è convinto Küntzel, ha arrecato un danno incredibile al paese. “Con loro è arrivata al potere una sinistra convinta che i suoi trascorsi sessantottini l’abbiano emancipata dal passato. Non a caso Schröder difende la tesi di Martin Walser secondo il quale è tempo che i tedeschi si liberino dalla mannaia di Auschwitz, e poi, nel 2002, lo invita ad appoggiarlo in campagna elettorale”. Tornando al governo di grande coalizione, Küntzel fa notare che alle parole risolute di Merkel non sono però seguiti i fatti. C’è l’antagonismo strisciante del ministro degli Esteri Steinmeier che prosegue la politica di Schröder ed è appoggiato anche da un’ala dell’Unione. Per Küntzel, ci si continua a nascondere dietro alle decisioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Eppure, secondo uno studio commissionato dal Parlamento iraniano, basterebbe un embargo commerciale europeo di pochi mesi per mettere in ginocchio l’economia iraniana. Invece, fa notare il politologo, “come si leggeva nel marzo del 2006 sulla homepage del ministero degli Esteri tedesco, ‘prosegue da qualche anno il trend in crescita delle relazioni economiche tra Germania e Iran’. Ma se la Germania è il partner commerciale numero uno per l’Iran, e l’industria iraniana dipende primariamente dalla tecnologia tedesca, l’Iran nel 2004 si posizionava al 35° nelle esportazioni tedesche. I rapporti commerciali sono poi prevalentemente imprese controllate dal regime. “Visto che in questo momento la Germania è anche presidente di turno dell’Ue, mi chiedo se Merkel riuscirà a trasformare in atti concreti il monito e il riferimento al passato tedesco di un anno fa. Fischer in un suo discorso del 2004 disse che gli europei, in passato, avevano fatto capire agli iraniani che riguardo alla loro politica di sicurezza, dunque anche al programma nucleare, potevano usare l’Ue come scudo. Spero che proprio sotto la presidenza di turno tedesca vengano presi tre provvedimenti. Il primo: l’Ue impedisca ai governi di fare da garante negli accordi commerciali. Il secondo: vengano interrotti i lavori della pipeline Nabucco tra Iran e Austria, e la Banca di investimenti europea blocchi i fondi per un miliardo di dollari stanziati; terzo: vi sia una seria minaccia di embargo economico, come previsto dall’articolo 41 della Carta dell’Onu. Provvedimenti che devono rimanere in vigore finché non vi saranno prove tangibili da parte dell’Iran di aver ridotto il suo programma nucleare a livelli tali da escluderne l’impiego offensivo”.
Di seguito un editoriale sulla "svolta"russa sull'Iran, più apparente che reale:
Da due secoli la Russia tenta d’imporre il suo padrinato all’Iran e sino a poche settimane fa sembrava che l’alleanza delineasse un percorso comune: Mosca forniva a Teheran tecnologia nucleare e missilistica, lavorava con Ahmadinejad per fondare una “Opec del gas” e prendeva le sue parti ogni volta che l’Onu voleva imporre sanzioni. Sembrava di essere tornati al novembre 1979, quando Sayed Khomeini, figlio dell’ayatollah, salutava entusiasta un’alleanza tattica tra Iran e Urss, sulla pelle dei diplomatici dell’ambasciata americana sequestrati dai pasdaran. Da alcune settimane, però, il clima pare cambiato: Mosca approva all’Onu sanzioni sempre più gravi, pone ultimatum a Teheran, e minaccia di sospendere le forniture atomiche per la centrale di Busher. Ma sbaglia chi legge in tutto questo una svolta strategica di un Putin finalmente cosciente del pericolo iraniano. Il Cremlino è spietato solo con i fondamentalisti che rifiutano la sua autorità – e lo dimostra in Cecenia – ma è generoso coi fondamentalisti islamici che insidiano la superpotenza americana. Putin non ha linee di politica estera, se non quelle strettamente collegate alla egemonia energetica. Per il resto, cinicamente – e ciecamente – appoggia chi lavora ai fianchi gli Usa. Riceve con tutti gli onori a Mosca i leader di Hamas, così come quelli di Hezbollah, riarma la Siria, rimettendola in grado di contrastare Israele sul terreno, e vende centrifughe atomiche ai più avventuristi pasdaran iraniani. Sviluppa una politica estera “di rimessa”, opportunista, senza ampi disegni – se non quelli di Gazprom – e poco gli interessa l’espansione o meno del terrorismo islamico, fuori della sua diretta sfera d’influenza. Gode delle difficoltà americane in Iraq, come di quelle in Afghanistan, e usa l’Onu per costringere Washington a riconoscere il suo crescente peso nel mondo. I rapporti con Teheran non si stanno raffreddando per ragioni strategiche, ma perché Ahmadinejad è in ritardo di mesi nel saldare una fattura di 30 milioni di dollari per le forniture nucleari. Una politica da bottegai arricchiti e incoscienti.
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