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Il Foglio Rassegna Stampa
21.03.2007 Due editoriali che cadono come pietre su un risultato disastroso per la democrazia e la libertà
la liberazione di cinque terroristi e il cedimento al ricatto dei sequestratori di Daniele Mastrogiacomo

Testata: Il Foglio
Data: 21 marzo 2007
Pagina: 3
Autore: la redazione - Piero Ostellino
Titolo: «Quel disgraziato di Daniele -DIPLOMAZIA SENZA STATO»

Dal FOGLIO del 21 marzo 2007:

Dovrebbero essere eroi della libera  stampa con la schiena dritta o sacerdoti di un'alta vocazione umanitaria, ma quei disgraziati dei nostri connazionali che finiscono nelle mani del nemico islamista, in Iraq o in Afghanistan, quando tornano si rivelano delle penose macchiette dello spirito penitenziale occidentale. Alla decima riga della corrispondenza della sua vita, scampato alla morte, spettatore dello sgozzamento rituale di un compagno di carcere, incatenato per quindici giorni e trattato come un maiale, come un animale immondo e non come una persona, scambiato al duro prezzo di cinque comandanti militari nemici già tornati a combattere contro di noi, Daniele Mastrogiacomo paragona la galera talebana al carcere di  Guantanamo, dove i fratelli dei suoi mandriani sanguinari hanno servito ogni giorno la dieta rituale islamica e una copia ciascuno del Corano. Liberato grazie alla "comprensione americana" come dice l'ineffabile capo della nostra diplomazia di strada, o da marciapiede, il disgraziato di turno posa con il turbante e la sua djellabah d'ordinanza, e mentre un centinaio di poveracci assedia l'ospedale di Gino chiedendo notizie almeno del corpo  del suo autista e compagno di sventura trucidato, queste figure carnevalesche del Grand Hotel d'Italie aspettano l'aereo giusto, quello con il brand di Emergency, perché non sia mai detto che l'ostaggio atterri con un aereo del Sismi, la vanità degli umanitari non lo consente.
Hanno fatto tutto loro, dicono. La diplomazia pacifista ha dato certo una mano a Dadullah, il mullah che manda i suoi a esplodersi contro i convogli occidentali e italiani, gli ha consentito di alzare il prezzo del riscatto, di essere più efficace nella guerra contro il mondo che odia, il mondo di quel disgraziato di Daniele; ma i due decreti di scarcerazione dei cinque combattenti talebani gli ha firmati quel porco di Karzai, con la complice "comprensione" degli americani, sotto gli occhi stupefatti ma alla fine rassegnati  di quelli che nella provincia di Helmand fanno la guerra ai terroristi venuti dalle madrasse. Si sa, gli italiani. Ezio Mauro ha scritto che intorno a Repubblica si è formata una tribù che ha il raro privilegio, come ha detto, di combinare sovranità e sottomissione al ricatto. Vabbè, lasciamo perdere.  Ma tribù per tribù, meglio l'etica tribale dei talebani, che sanno almeno quel che fanno, del cinico sentimentalismo di chi difende i sodali  senza sapere quello che dice, senza pudore. Fino al rilascio degli ostaggi abbiamo sempre taciuto, e taceremo ancora la prossima volta, ma con la loro liberazione ci riprendiamo la libertà di dire quel che tutti pensano: che la guerra al terrorismo fatta dall'Italia è una farsa di serie B, ma l'accoglienza impudica all'ostaggio è uno spettacolo che agisce come revulsivo. Fa vomitare.

Dal CORRIERE della SERA, l'editoriale di Piero Ostellino 

L'indubbio contributo del fondatore di «Emergency», Gino Strada, alla liberazione di Daniele Mastrogiacomo rischia ora di far perdere di vista che, se l'oggetto della diplomazia è il metodo attraverso il quale sono condotti i negoziati, il contenuto dei negoziati stessi rimane, e deve rimanere, oggetto della politica, cioè delle istituzioni rappresentative. L'espressione «diplomazia dei movimenti», coniata per l'occasione dal presidente della Camera, Fausto Bertinotti, è, dunque, non solo fuorviante per capire ciò che è realmente accaduto nella circostanza. Minaccia, altresì — in caso di altri rapimenti di cittadini italiani da parte di organizzazioni terroristiche — addirittura di spogliare delle loro responsabilità politiche le istituzioni rappresentative (governo e Parlamento), trasferendone ruolo e funzione a persone e organizzazioni che tali responsabilità non hanno e delle quali non devono pertanto rispondere al Paese.
Già nei secoli XV e XVI, a fianco dei diplomatici residenti, agivano individui assoldati nei ceti sociali e nelle categorie professionali più disparati: Venezia si serviva dei medici di corte degli altri Stati; Carlo V dei preti e dei confessori che frequentavano le corti; Francesco I aveva creato persino un corpo speciale di agenti anticipatori dei moderni 007 e altrettanto avrebbe fatto più tardi Francis Walsingham per la regina Elisabetta I. Ma nessun sovrano dell'epoca, e tanto meno i governanti delle età successive, si sarebbero mai sognati di attribuire a costoro una funzione che non fosse solo quella di affiancare e coadiuvare informalmente la diplomazia istituzionale, lo strumento operativo per eccellenza del ministero degli Esteri, cioè dello Stato.
L'affermazione di Bertinotti e altri che la liberazione dell'inviato di Repubblica
sia stata frutto «della diplomazia dei movimenti» non è credibile. Tanto meno lo è l'ipotesi che tale diplomazia informale possa diventare praticabile e decisiva in futuro. Innanzi tutto, perché accredita l'ipotesi che Gino Strada abbia praticato con i talebani, e con successo, una sorta di
boudoir diplomacy, aggiornata ai tempi e adattata a un movimento terrorista, analoga a quella che l'ambasciatore inglese James Harris (poi lord Malmesbury), seppure in epoca e con interlocutore diversi, aveva praticato, senza successo, per sedurre Caterina di Russia e convincerla ad allearsi con la Gran Bretagna. Non è stata la contessa di Castiglione, nel letto di Napoleone III, a fare il Risorgimento e l'Unità d'Italia, ma furono la genialità politica di Cavour e la perspicacia della diplomazia piemontese.
In secondo luogo, la «diplomazia dei movimenti» non sembra praticabile perché è la sua stessa natura non istituzionale che le impedisce di farsi forte, non solo di fronte al Paese, ma anche nei confronti degli interlocutori esterni, delle stesse credenziali che può esibire la diplomazia ufficiale: la legittimazione che le deriva dal mandato politico e la legalità che le conferisce l'ordinamento statuale. Costantemente ai margini dell'una e dell' altra, la «diplomazia dei movimenti» finirebbe, così, con assomigliare al diplomatico «machiavellico» descritto dal Guicciardini: «Riesce a esprimere il meglio di se stesso quando sembra così ansioso di trovare un accordo con il proprio antagonista da far sorgere il sospetto di essere un traditore del proprio Paese». Del resto, non è proprio questa l'accusa che, da certe parti, è rivolta a Gino Strada per la sua indulgenza verso uomini e gruppi antagonisti, anche militarmente, dell'Italia?
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