L'insegnamento di Nahum Goldman e il Darfur riflessioni sui profughi sudanesi in Israele, di Federico Steinhaus
Testata: Informazione Corretta Data: 20 marzo 2007 Pagina: 1 Autore: Federico Steinhaus Titolo: «L'insegnamento di Nahum Goldman e il Darfur»
Il Corrieredella Sera di lunedì 19 marzo ha dedicato una intera pagina ad un aspetto sconosciuto della tragedia che da anni sconvolge il Darfur nella totale paralisi ed incapacità di agire di tutto il mondo cosiddetto civile e democratico.
E’ vero, noi stessi non amiamo leggere le sconvolgenti notizie che ci giungono da quella terra infelice e sempre raccontano di massacri. Forse i nostri governi non sono altro che lo specchio della nostra stessa indifferenza od impermeabilità alle sofferenze di popoli lontani; forse il nostro disagio quando voltiamo la pagina del giornale per cercare notizie meno opprimenti – vallettopoli o sport poco importa – viene tacitamente recepito da chi ci governa e che, come noi del resto, non ama il senso di frustrazione che scaturisce da uno scenario umanitario in cui noi siamo semplici spettatori e quasi mai i protagonisti di audaci gesti di generosità e solidarietà. Forse.
E’ facile moralismo? E’ un modo per liberarsi dai sensi di colpa? Esiste, ora, chi ci dice che non è così, chi afferma con orgoglio che si può e dunque si deve fare qualcosa per opporsi alle stragi ed alla malvagità.
Poco più di 300 persone hanno scelto di fuggire dal Darfur, di sfuggire alle feroci stragi che insanguinano il loro popolo; più semplicemente hanno scelto di voler sopravvivere.
Hanno percorso il Sudan, poi l’Egitto, infine la penisola del Sinai, per attraversare finalmente la frontiera di quello che essi hanno percepito come l’unico possibile luogo di salvezza: Israele. Quella infatti è l’unica democrazia dello scacchiere afro-asiatico che si estende tra il Sudan ed il Mediterraneo, l’unica nazione in cui la libertà viene garantita indistintamente a tutti, l’unico popolo di quello scacchiere che dia un valore supremo alla vita, non alla morte.
E’ vero, sono stati arrestati: erano immigrati clandestini provenienti da uno stato nemico. Ma ora la coscienza nazionale si interroga sul loro destino. Sono trecento non-ebrei (200 musulmani e 100 cristiani) che hanno chiesto ad Israele un aiuto per vivere. A questo punto negli israeliani sono scattate due molle potenti e laceranti: la morale religiosa ebraica e, forse con ancora maggiore vigore, il ricordo doloroso delle porte che si chiudevano sessant’anni fa dinanzi agli ebrei in fuga dal nazismo – porte chiuse che li consegnavano al loro destino: le camere a gas. Le porte chiuse di nazioni civilissime come la Svizzera, gli Stati Uniti, e quante altre, che al contrario della fascista Spagna hanno rifiutato l’asilo ai perseguitati.
Credo che sia scattata anche una ulteriore molla, forse inconsapevole o meno visibile delle altre due: quella che, come migliaia di ebrei hanno potuto sperimentare, anche un solo “Giusto” può trovare in sé il coraggio e la forza morale per opporsi, per dire no al tiranno, per salvare una vita.
Il Corriereha pubblicato alcune frasi che riassumevano questi concetti, pronunciate da ebrei ed israeliani famosi e stimati, uno per tutti la voce per antonomasia dei perseguitati, Elie Wiesel. A queste voci, con una breve nota autobiografica, ne voglio aggiungere una che pochissimi oramai ricordano, ma che vale a mio parere più di queste perché erano molto diverse le circostanze ed i ruoli.
Negli anni settanta ho avuto il privilegio di vivere alcuni anni di una esperienza, credo, unica ed insostituibile: gli ultimi anni in cui è stato presidente del Congresso Mondiale Ebraico – il parlamento del popolo ebraico, senza poteri reali ma autorevole in virtù della forza morale che da esso emanava – quel leggendario Nahum Goldmann che lo aveva fondato nel 1936 , e ne era segretario quel Gerhard Riegner che per primo, nel 1942, era stato avvertito dell’incombere della Shoah.
Goldmann, che amava sottolineare con storielle raccontate in yiddish i suoi ragionamenti politici che lo portavano da pari a pari al cospetto di tutti i Grandi del pianeta, usava ripetere senza stancarsi che gli ebrei, se vogliono avere il rispetto delle nazioni e se vogliono potersi appellare agli altri per chiedere solidarietà ed aiuto dinanzi a persecuzioni che (in particolare nei territori sovietici) colpivano i loro fratelli, devono anche offrire la loro solidarietà ed il loro aiuto a tutti gli altri perseguitati. Spesso Goldmann faceva riferimento al dramma dell’apartheid sudafricano, ma la valenza di questo concetto etico era universale.
In Israele, ora, questa massima di Goldmann viene applicata a beneficio dei profughi sudanesi, che sono stati accolti in alcuni kibbutzim . Loro sono fuggiti dinanzi alla ferocia di quelli che sono gli stessi nemici di Israele, ed è in Israele che hanno trovato salvezza. Questo avviene nel momento stesso in cui un nuovo (o vecchio ridipinto) governo palestinese rifiuta di riconoscere il diritto di Israele ad esistere, nel momento stesso in cui terroristi mandati da Hamas tentano di infiltrarsi in Israele con le loro cinture esplosive, nel momento stesso in cui già vi sono esponenti politici che vorrebbero accontentarsi delle ambigue parole di Haniyeh pur di poter nuovamente accusare Israele di essere troppo intransigente e causa prima delle disgrazie dei palestinesi.