Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein".
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)
Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine.
Profughi del Darfur in Israele in preparazione una legge che garantirà l'accoglienza
Testata: Corriere della Sera Data: 19 marzo 2007 Pagina: 17 Autore: Davide Frattini Titolo: «Ali, dal Darfur a un kibbutz israeliano «Sono perseguitati come lo fummo noi»»
Dal CORRIERE della SERA del19 marzo 2007:
KIBBUTZ MAAGAN MICHAEL — L'ultima volta che Ali ha visto la moglie e il figlio era andato a cercare rami e foglie per proteggerli dall'acqua torrenziale. Stagione delle piogge nel Darfur. Sono passati quattro anni prima di trovare un tetto dove potersi addormentare, senza la paura. Quattro anni sotto il cemento umido delle prigioni sudanesi, l'alluminio dei container nei campi profughi egiziani, il sole rovente del Sinai. Un viaggio senza mai alzare la testa, per non farsi riconoscere, sperando che nessuno lo rimandasse indietro, lo rispedisse al villaggio da dove è fuggito, quando le milizie janjaweed hanno attaccato e ammazzato, incendiato e violentato. In poche ore ha perso quaranta parenti e qualunque contatto con la famiglia. Adesso chiama «casa» una delle villette tutte uguali, da pionieri spartani, di questo kibbutz sulla costa tra Tel Aviv e Haifa. I 1.412 abitanti di Maagan Michael si sono riuniti una sera nella mensa per decidere se accogliere cinque ospiti in più. In maggioranza hanno votato sì e come loro hanno fatto venti comuni agricole: un centinaio di rifugiati sudanesi, su 320 arrivati negli ultimi anni, ha potuto lasciare le carceri israeliane per vivere e lavorare sotto la custodia affettuosa dei villaggi che li hanno accolti. «Come avremmo potuto respingerli? — commenta Janine, che insegna l'ebraico ad Ali e ai suoi compagni —. Gli ebrei che cercarono di fuggire dalla Germania negli anni Trenta vennero ricacciati verso la morte. Come avremmo potuto commettere lo stesso crimine?». È il dilemma che il governo israeliano sta vivendo, da quando la guerra civile ha spinto i perseguitati del Darfur a cercare asilo proprio nell'unico Paese non arabo della regione. Una vecchia legge del 1954 contro le infiltrazioni nemiche (il Sudan è considerato un Paese ostile) impedisce al ministero degli Interni di garantire lo status di rifugiati politici. I profughi arrivano dall'Egitto e passano il confine di notte, dopo aver pagato i contrabbandieri beduini. Si siedono sul ciglio della strada ad aspettare di venire arrestati dai militari che pattugliano la frontiera. Possono essere detenuti senza processo e molti hanno passato quasi due anni in cella prima di essere trasferiti in uno dei kibbutz. Le organizzazioni umanitarie — guidate dal Committee for Advancement of Refugees from Darfur — hanno chiesto alla Corte Suprema di intervenire e il laburista Amir Peretz, ministro della Difesa, ha garantito nei giorni scorsi di voler trovare una soluzione per rilasciare i sudanesi ancora detenuti. Alla Knesset, deputati di destra e di sinistra stanno preparando un disegno di legge che garantisca l'accoglienza. «Noi ebrei abbiamo l'obbligo — ha commentato Elie Wiesel, premio Nobel e sopravvissuto all'Olocausto — di aiutare anche i non ebrei. La Storia sceglie continuamente una capitale della sofferenza umana e oggi questa capitale è il Darfur». Tommy Lapid, ex ministro della Giustizia, anche lui scampato ai campi nazisti, fa notare il parallelo con gli ebrei che fuggivano in Gran Bretagna dalla Germania, «solo per essere incarcerati perché provenivano da una nazione nemica»: «Non possiamo permetterci di guardare dall'altra parte, mentre viene commesso un orribile genocidio». Una settimana fa un gruppo di sudanesi ha visitato Yad Vashem. Avner Shalev, presidente del museo, ha scritto una lettera al premier Ehud Olmert: «Il ricordo dell'Olocausto ci impedisce di restare indifferenti, quando qualcuno bussa alla nostra porta in cerca di aiuto». Janine è arrivata in Israele nel 1949 dalla Tunisia (la nonna è livornese). Ha 76 anni, maestra tutta la vita. Guarda con allegria i suoi cinque «bambini», questi nuovi allievi che la sovrastano di trenta centimetri in altezza e che hanno le mani solcate di chi ha lavorato nei campi. Hassan, 25 anni, è l'intellettuale del gruppo. Non è cresciuto nel Darfur, anche se la sua famiglia è originaria della regione. Gli altri sono contadini, lui è un cittadino, ha studiato ingegneria a Khartoum. «Solo per un mese», racconta mentre i suoi riccioli dreadlocks dondolano e lo sguardo si sposta su Janine per assicurarsi di usare le parole giuste. «All'università avevamo organizzato un gruppo per aiutare i nuovi studenti che arrivavano dal Darfur. Facevamo riunioni, discutevamo della situazione laggiù. La polizia è intervenuta durante un incontro, ci hanno picchiato con i bastoni, sono stato arrestato. Mi hanno rilasciato dopo due giorni, con un avvertimento: "Dimentica l'attività politica". Qualche settimana dopo hanno compiuto un'altra retata e mi hanno portato via, anche se io non ero all'assemblea. Questa volta sono rimasto in cella 21 giorni e hanno minacciato di sbattermi dentro per sempre, se fossi stato preso ancora. Ho capito di dover fuggire, mi avrebbero continuato a perseguitare. Non ti puoi nascondere: dalla faccia riconoscono da dove vieni e a quale tribù appartieni». Sono tutti e cinque musulmani, come duecento dei profughi in Israele. Cento sono cristiani, braccati nel Sud del Paese, e un altro centinaio è stato scalciato qui dalla fame, in cerca di un lavoro: adesso anche loro, se venissero rimandati indietro, verrebbero condannati come traditori. Nessuno fa proclami politici. Solo Ali, 32 anni, dice di essere venuto qui «perché è una democrazia che rispetta i diritti umani». Gli occhi atterriti non riescono a dimenticare il «gioco» che divertiva i suoi carcerieri janjaweed. «Una volta al giorno mi prelevavano dalla cella e mi buttavano in una buca di pochi metri, insieme a un cobra. Lottavo per sopravvivere, mentre fuori loro ridevano».
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