Non sapevamo che Sabino Acquaviva fosse un esperto di Kibbutz, come si evince dall'articolo uscito oggi, 17/03/2007, a pag.32, sulla STAMPA. Benvenuto nel club, egregio professore. Anche se il suo articolo è un po' troppo schematico sulle differenze fra socialismo e capitalismo, libertà e sfruttamento. Le cose non stanno così, almeno per quanto riguarda la realtà dei kibbutzim in Israele. Certo, non sono più quelli di un tempo, l'economia sovvenzionata dallo Stato si è rivelata ovunque un fallimento, non capisce perchè in Israele debba essere diveramente. Ma molte realtà del kubbutz delle origini sopravvivono, anche se oggi la loro struttura si è modificata. Un'esperienza in progress, si direbbe oggi, da conoscere nei suoi aspetti ancora largamente apprezzati nello Stato ebraico. Un'osservazione sul titolo, " Il kibbutz sconfitto dal mercato", non sconfitto, ma trasformato, rinnovato. Ma al quotidiano torinese, abituti e vedere nero quando c'è Israele, non se ne sono accorti, forse hanno letto in modo poco accurato anche l'articolo di Acquaviva.
Ecco l'articolo:
Quasi una tragedia per i fondatori di Israele: il primo kibbutz, con una decisione a maggioranza dei suoi soci, diventa una banale cooperativa con stipendi differenti e la proprietà privata delle case e di altri beni. Significa la fine dei grandi ideali che spinsero a creare i kibbutzim? La prima comune dell’età moderna, allora soltanto agricola, era stata fondata in Israele nel 1910, si era chiamata Degania e aveva dodici abitanti, dieci uomini e due donne. Era il risultato della fusione politica e culturale del Sionismo, dell’anarchismo, di un socialismo più o meno marxista. I fondatori affermarono: «Noi compagni (...) abbiamo fondato un insediamento indipendente di lavoratori ebrei. Una cooperativa senza sfruttatori e senza sfruttati».
Il consumismo più forte degli ideali
Nel tumulto politico dell’ultimo secolo queste comuni si diffusero in Israele, ma non furono considerate un fatto molto positivo in Europa, dove il socialismo sovietico preferì corteggiare politicamente le centinaia di milioni di musulmani che i pochi ebrei di Palestina. Inoltre, lo Stato ebraico nacque nel 1948, in piena guerra fredda, quando i kibbutzim erano già numerosi da quasi quarant’anni. Attualmente in Israele ci sono almeno 268 comuni agricole, con circa 117 mila abitanti nati in Israele e provenienti da ogni parte del mondo, come Allan Saphiro, americano e professore all’università di Haifa, che vive appunto a Degania.
Oggi che accade? Molti sostengono che il mercato sostituisce gli ideali, ma è vero entro certi limiti anche se Degania si è inchinata alle sue leggi. Questo significa il fallimento dell’unico vero tentativo al mondo di progettare una società socialista? Qualcuno, demoralizzato, dopo le recenti decisioni ha detto: «La tradizione non esiste più, la mensa comune è vuota, le feste non sono più quelle di una volta». Perché tutto questo? Il consumismo ha spianato valori e ideali della nostra civiltà. Quasi ovunque ha vinto. Persino la Cina, la patria della Rivoluzione Culturale e del maoismo, ha capitolato di fronte alle leggi ferree del consumismo, ritenendo che lo sviluppo economico sia impossibile senza rinunciare ad alcuni ideali di eguaglianza.
Tra fratellanza e competizione
I kibbutzim sono soltanto espressione della cultura e della filosofia socialista del secolo passato? Non lo penso, rappresentano un tentativo di arginare il consumismo, di dialogare con il mercato, il grande schiacciasassi di culture, filosofie e religioni della nostra società. In Israele, minacciato di distruzione dall’ennesimo fondamentalismo, è in corso la battaglia per la sopravvivenza di un’istituzione economica, sociale, lasciataci in eredità da una cultura che, per il resto, all’alba di questa nuova civiltà, sembra quasi in agonia. Nelle comuni israeliane si contrappongono caratteristiche diverse della natura umana. Da un lato gli esseri umani cercano fratellanza, cooperazione, fraterna convivenza, dall’altro competizione e sfruttamento. Le due anime sono presenti anche nei kibbutz che però continuano a rappresentare il solo esempio concreto di eguaglianza e fratellanza. Dovremmo studiare e capire i kibbutzim e insieme domandarci se possono essere un modello per riorganizzare la società nel suo complesso, in una parola per progettare il nostro futuro.
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