Reportage tra i militari e i cooperanti italiani in Afghanistan sul settimanale cattolico
Testata: Famiglia Cristiana Data: 16 marzo 2007 Pagina: 0 Autore: Fulvio Scaglione Titolo: «Le armi non bastano»
Famiglia Cristiana on line pubblica nel numero 11 un articolo di Fulvio Scaglione intitolato “Le armi non bastano”.
Il giornalista riporta un’intervista ad Amedeo Sperotto, generale di brigata, appena rientrato da Herat il quale analizza l’attuale situazione afgana mettendo in rilievo l’importanza della presenza italiana nel paese. “La gente – dice il generale - stima i nostri soldati perché realizzano progetti utili alla gente, coinvolgendo i locali».
Alla fine del 2006, George W. Bush decise di inviare altri 21.500 soldati in Irak. Ora il generale David Petraeus, che ha preso il posto del generale George Casey al comando delle truppe in Irak, prevede una nuova offensiva terroristica e chiede al proprio Governo e a quello dell’Irak più iniziativa diplomatica e l’apertura di un dialogo «con coloro che pensano che il nuovo Irak non abbia un posto per loro», ovvero con le formazioni ribelli. Se pensiamo all’Afghanistan, le similitudini saltano all’occhio. Anche lì le forze della coalizione Nato si stanno infoltendo, anche lì sono in corso misure per smorzare l’impatto di una nuova offensiva data per imminente. Prima che sia un generale della Nato, a ricordarci, come ha fatto Petraeus, che «non c’è soluzione militare a un problema come l’Irak (leggi anche Afghanistan, ndr.), l’azione militare è necessaria ma non sufficiente», abbiamo chiesto a un generale italiano quali sistemi funzionano in una missione difficile come quella afghana.
Amedeo Sperotto, generale di brigata, ora sottocapo operativo del Comando forze operative, responsabile della preparazione delle unità dell’Esercito che devono partire per missioni all’estero, ha appena concluso un turno di comando al Provincial Reconstruction Team italiano di Herat, dove non sono mancati attentati anche sanguinosi. «È vero», dice il generale Sperotto, «ma mai contro i nostri uomini o le nostre strutture. Solo in un caso spararono lungo la strada per l’aeroporto dopo che era appena passato un nostro veicolo. Le autorità locali, soprattutto la polizia, confermano che si tratta soprattutto di faide tra gruppi criminali del luogo. I "signori della guerra" potevano essere recuperati alla democrazia e molti lo sono stati. Forse alcuni si sentono tagliati fuori, ed ecco che nascono le tensioni».
Avete avuto a che fare con questo tipo di bande?
«Forse siamo stati fortunati, abbiamo avuto pochi contatti diretti con l’opposizione armata. E invece ottimi rapporti con la popolazione e le autorità». C’è un segreto per questo risultato?
«Più che un segreto, un metodo. Il nostro è: non limitarsi alle strutture ma lavorare anche sul senso del Paese. È sempre stato chiaro che noi non eravamo lì "al posto di", ma piuttosto a "collaborare con". Abbiamo sempre fatto in modo che fossero le autorità locali a individuare le priorità degli interventi di cooperazione, e anche che fossero loro a spiegare alla gente che cosa stavamo facendo. E qualche risultato è stato ottenuto, visto che abbiamo avviato 90 progetti e 40 sono stati portati a termine. Nel frattempo, abbiamo visto cambiare l’atteggiamento della popolazione, anche perché abbiamo scelto progetti di impatto immediato (cioè pronti in 5-7 mesi), per far capire che eravamo lì solo per aiutare. E il nostro metodo venne studiato, ci fu persino un articolo sul Washington Post in proposito».
Ci può fare qualche esempio?
«In sinergia con la Cooperazione italiana abbiamo costruito 11 scuole, ristrutturato lo stadio di Herat che è un forte punto di aggregazione giovanile, rifatto il pronto soccorso dell’ospedale, tracciato 40 chilometri di acquedotto per dare l’acqua a 40.000 persone, costruito una stazione di pompaggio delle acque reflue. Con regolari gare d’appalto, perché il lavoro si distribuisse tra tutti. Due i fiori all’occhiello: la riorganizzazione della raccolta rifiuti, perché nei cassonetti andavano a mangiare poveri, bambini e animali; e la costruzione del Centro di coordinamento provinciale, che abbiamo dotato di radio, telefoni satellitari e computer, perché il governatore potesse sapere quello che succede sul suo territorio e comunicare in tempo reale con il Governo a Kabul».
· A proposito di Kabul: una delle sfide è allargare l’autorità del Governo Karzaj su tutto il territorio. Sta succedendo, secondo lei?
«Tutti i nostri interventi erano diretti secondo priorità stabilite dalle autorità locali con il Governo, ne sono testimone. Quindi secondo me sì, l’autorità del Governo di Kabul piano piano si allarga».
Lei è in contatto con i suoi colleghi che sono a Herat. Che cosa pensano di questa offensiva di primavera?
«Lavorano e li sento sereni».
Dai soldati ai cooperanti. Marco Rotelli di Intersos ora è in Sudan, ma ha lavorato in Afghanistan dal 2004 alla fine del 2006. Progetti sparsi in quasi tutto il Paese, da Kandahar a Jalalabad, da Kabul alla provincia di Helmand. Assistenza nei campi per preparare i profughi al ritorno alle zone d’origine, opere dedicate al sistema delle acque («Dove la crisi è aggravata da sette anni di siccità, e influisce sui profughi: nessuno vuol vederli tornare e consumare riserve d’acqua già scarse») e della sanità a esso collegate, consulenza allo sminamento.
A Rotelli la domanda secca: che cosa non ha funzionato? «Nel 2001, dopo 30 anni di guerre, l’Afghanistan era in assoluta emergenza e le Ong sono intervenute appunto nell’ottica dell’emergenza. Un paio d’anni fa, però, molti hanno cominciato a riflettere e a chiedere interventi più lungimiranti. Purtroppo la comunità internazionale non ha dato peso a tale riflessione e i Paesi donatori si sono lanciati, con interventi strutturali anche massicci, verso uno sviluppo che non aveva solide basi. Tra l’emergenza e lo sviluppo si è creato un buco che nessuno ha saputo colmare. Ora siamo tornati all’emergenza, che però è insostenibile sul lungo periodo».
Più soldati o no? La verità dov’è?
«La dichiarazione di vittoria militare è stata prematura, certe abitudini erano troppo radicate per sparire a causa di una guerra lampo. Il ritiro dei soldati, però, potrebbe essere devastante. È chiaro che accanto all’intervento militare ci vuole quello della cooperazione, facendo ognuno il proprio mestiere». I cooperanti sono spesso stati attaccati. Voi come vi regolavate?
«Ribelli, talebani, guerriglieri, comunque li si voglia chiamare, sono una presenza sul territorio, è impossibile non "incontrarli". Noi, grazie all’utilità del lavoro che facevamo, godevamo della protezione della popolazione, che era in contatto con i ribelli o addirittura ne era parte, ma garantiva per noi».
Si può vincere la battaglia per far uscire l’Afghanistan dalla crisi?
«Sì, a patto che nasca un forte coordinamento tra tutti coloro che operano sul campo e ci sia la volontà di ridiscutere senza pregiudizi e su scala globale quello che si è fatto finora».
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