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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Amos Oz Non dire notte 14/03/2007

Amos Oz Non dire notte

Noa, 45 anni, è un’insegnante di letteratura ancora molto bella che inonda gli interlocutori con la sua voce giovanile, luminosa, e lascia dietro di sé una scia di profumo sottile dal sentore di caprifoglio. Ma è anche pervasa da uno slancio vitalistico a tratti insopportabile. Ha mani molto più vecchie di lei. «Le dita indaffarate sono già un poco avvizzite, la pelle è rugosa, un reticolo di vene bluastre e di macchie di pigmentazione fa assomigliare il dorso a una zolla di terra». È come se i suoi veri anni fossero stati temporaneamente risucchiati via da tutto il resto del corpo per confluire lì, nelle mani, dove fanno riserva di vecchiaia. Le mani la aspettano al varco: in attesa del primo cedimento.
Theo è un urbanista sessantenne, defenestrato dagli emergenti della politica, figli di suoi vecchi colleghi, dopo aver progettato e dato vita a intere città nel deserto. Il suo errore principale è stato probabilmente ricercare sempre una dimensione umana. Se, in tempi eroici, ciò gli valse gli onori nazionali e l’assunzione al ruolo di padre della patria, oggi lo condanna all’isolamento. Che, d’altra parte, sembra non dispiacergli troppo. È come se avesse deciso di lasciare volontariamente inaridire la sua vena creativa.
Tanto Noa è impulsiva, passionale, intuitiva, piena di sogni e di speranze, tanto Theo è razionale, freddo, disincantato e disilluso, realisticamente cinico. Cosa mai avranno in comune, per vivere insieme nello sperduto villaggio di Tel Kedar, in pieno deserto del Negev? Be’, innanzi tutto sono entrambi ebrei, e già non è poco. Poi sono insegnanti che si fanno continuamente le pulci, il che rende il loro ménage difficile ma sempre al riparo dalla noia. «Noa non è noia» ripetono scherzando gli amici comuni. Inoltre, come tutti i coniugi di lungo corso (e, va da sé, i conviventi: non sono sposati e rivendicano questo stato), capita che finiscano in qualche modo per somigliarsi. Non nel carattere, non all’esterno, o nei gesti: in qualcosa non facile da definire ma che pure indiscutibilmente esiste.
Noa e Theo sono i protagonisti dell’ultimo libro di Amos Oz, Non dire notte (Feltrinelli, pagg. 202, euro 15). Ottima la traduzione di Elena Loewenthal, anche se mi perdonerà per un unico appunto. Vi ho trovato un reiterato «esaustivo» che cozza con la narrazione piana e asciutta di Oz. Direi, in questo caso, un aggettivo «esiziale», se non diffidassi di tutti coloro che adoperano tale termine...
Noa e Theo hanno formato per sette anni (i fatidici sette...) una coppia affiatata ma, dopo la lunga convivenza, sembrano sull’orlo della separazione. Oz è bravissimo nel raccontare la piccola storia di tutti i giorni che scandisce gli attimi della vita: cose semplici e spesso di una ripetitività alienante. Oltretutto in un luogo come Tel Kedar, che non offre troppe distrazioni. La trovata narrativa è che la racconta ora con gli occhi di lui, ora con quelli di lei. Sorprende l’acutezza di analisi di questo versatile autore, capace di scrivere una bella favola per bambini (il recente D’un tratto nel folto del bosco, ancora Feltrinelli), come di scandagliare a fondo il mistero dell’animo femminile.
All’improvviso, a Tel Kedar accade l’imponderabile: muore un alunno di Noa (droga o suicidio?) e quest’ultima assume l’incarico di creare un centro di riabilitazione per giovani tossicodipendenti. Nella placida cittadina irrompe il caos, ben più fragoroso delle cicliche esplosioni isolate che si odono da lontano. I benpensanti, cioè quasi tutti, temono che «i drogati si piazzino dietro casa». Il razionalista Theo è molto perplesso, ma non interviene, aspettando che gli eventi facciano il loro corso. La relazione fra i due è messa a dura prova dalla vampata di passione civile della donna. Alla fine, però, saranno proprio le difficoltà a rivitalizzare un legame evidentemente non debole. Vincerà il reciproco rispetto. Un messaggio chiaro, che Oz ripete da sempre, indicando la strada difficile e obbligata della tolleranza in tutti i rapporti umani.

Felice Modica
Il giornale


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