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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
14.03.2007 Sucessi della strategia americana in Iraq
ignorati da media faziosi: l'analisi di Robert Kagan

Testata: Corriere della Sera
Data: 14 marzo 2007
Pagina: 34
Autore: Robert Kagan
Titolo: «Buone dall'Iraq»
Dal CORRIERE della SERA del 14 marzo 2007:

 Giorni fa, il Washington Post segnalava in prima pagina come l'amministrazione Bush sia sprovvista di un piano di riserva cui rifarsi ove la
surge, la nuova strategia Usa in Iraq, fallisse. E io mi chiedo se il suddetto e altri quotidiani abbiano messo a punto un piano B qualora la stessa, invece, funzionasse. Autorevoli giornalisti denunciano una guerra oramai senza speranza. Un'autentica disfatta cui non è possibile porre rimedio con lo schieramento di più soldati e una nuova strategia di controguerriglia. E la saggezza convenzionale ha suggerito, in dicembre, che l'invio di più truppe sarebbe stato politicamente impossibile. Impossibile anche materialmente, giacché non v'erano più truppe di rinforzo da schierare. E, ci fossero state, non avrebbe comunque fatto differenza.
Ebbene, 4 mesi più tardi, quella che era stata, un tempo, un'insormontabile opposizione politica è stata sormontata. Così, le truppe inesistenti oggi si riversano sul suolo iracheno. E, sebbene i tempi non siano ancora maturi, prove più che convincenti suggeriscono che la nuova strategia di controguerriglia, puntellata dall'apporto di nuove forze, sta sortendo effetti significativi. Qualche osservatore sta dando conto di tale cambio di rotta. I blogger iracheni Mohammed e Omar Fadhil, in genere molto rispettati per il loro parlar franco, sostengono che «i primi segnali sono incoraggianti». L'impatto iniziale della surge è stato, ai loro occhi, di tipo psicologico. In Iraq, amici e nemici erano stati persuasi, non ultimo dai media americani, che gli Usa fossero in procinto di ammainare bandiera. E il fatto che sia avvenuto proprio l'opposto è bastato a scombinare giochi e dinamiche.
Prima dell'arrivo del generale David Petraeus, cui è affidata la nuova strategia, le forze Usa erano solite condurre raid contro le roccaforti di ribelli e terroristi, fare dietrofront e, infine, consegnare il territorio alle forze irachene, incapaci di mantenerne il controllo. Scrivono i fratelli Fadhil che «una delle differenze tra l'attuale e i precedenti (falliti) tentativi di blindare Bagdad risiede nella disponibilità, da parte dei governi Usa e iracheno, a impegnarsi con le opportune risorse e per il tempo necessario al raggiungimento dei risultati». Gli abitanti di Bagdad «desiderano tuttora che il progetto di "mantenimento" dei territori liberati si concretizzi, e si sentono al sicuro quando escono di casa e trovano polizia ed esercito ai rispettivi avamposti. I fautori del male non possono farci paura, fintantoché le truppe restano al proprio posto».
Il rinnovato sentimento di fiducia si traduce in dovizia di vantaggi. Il numero di informazioni di intelligence sui ribelli fornite dai civili iracheni è incrementato in modo esponenziale. Riaprono, a Bagdad, negozi e mercati, ciò che favorisce il senso di appartenenza alla comunità. Chi si era dovuto spostare a causa della violenza settaria, sta ritornando alla propria casa. Di conseguenza, scrivono i fratelli Fadhil, «molti, tra gli abitanti di Bagdad, guardano nuovamente con speranza al futuro, e lo spettro della guerra civile sta lentamente facendo posto all'ottimismo per cui, un giorno, la pace potrà forse ritornare in questa città». «Questo nuovo stato d'animo rappresenta di per sé un'enorme svolta». E, a quanto pare, più d'un giornalista Usa se ne è accorto. Brian Williams,
Nbc, ha recentemente reso conto di straordinari mutamenti a Ramadi rispetto alle visite precedenti. La città appariva più tranquilla; l'aeroporto più sicuro. La nuova strategia Usa, per cui occorre «uscire, decentralizzare, andare nei quartieri, trovare appigli, dire al nemico "siamo qua" e avviare un dialogo con la popolazione locale, sta sortendo effetti evidenti». I soldati Usa hanno stretto accordi con leader religiosi locali, ricacciando la minaccia di Al Qaeda. Si tratta di una dinamica che altri osservatori hanno riscontrato in diverse aree a dominanza sunnita. L'esito, sostiene Williams, è che «la guerra è cambiata».
Non a caso, i mutamenti di realtà e stato d'animo sono stati accompagnati da un nuovo corso politico. A quanto pare, un accordo nazionale sulla spartizione dei proventi del petrolio sta per essere ratificato. È stata fatta pulizia, nel ministero dell'Interno, dei funzionari corrotti e dei molti sospettati di torture e brutalità. E cominciano ad affiorare le crepe della coalizione sciita al potere. Un buon segnale, se pensiamo che la sua inespugnabile unità è stata causa e conseguenza della violenza settaria.
Violenza che continua, giacché i ribelli sunniti cercano, assieme ad Al Qaeda, di dimostrare che il piano di
surge non dà frutti. Essi, tuttavia, colpiscono obiettivi più vulnerabili, localizzati nelle province. La violenza, a Bagdad, è al lumicino. Quanto ad Al Sadr e l'esercito del Mahdi, è possibile che, in futuro, si impongano nuovamente come problema. Ma azzardare un conto alla rovescia, aspettando che lo sforzo Usa-iracheno si smorzi, potrebbe essere rischioso ove l'opinione pubblica divenisse meno tollerante rispetto alla violenza estremista. Né potrebbe essere confortante, per Al Sadr o Al Qaeda, apprendere dal New York Times che gli Usa intendono mantenere elevati livelli di guardia in Iraq almeno fino a inizio 2008. Solo in un caso potrebbero essere rincuorati: qualora Bush ricominciasse a parlare di ridimensionamento.
Nessuno chiede ai giornalisti Usa di iniziare a porre l'enfasi sulle «buone» notizie. Loro compito è semplicemente raccontare quanto avviene, anche laddove strida con i giudizi precedentemente formulati. C'è ancora chi vende libri costruiti sulla premessa che la guerra sia persa, fine della storia. Ma se quest'ultima contenesse un nuovo capitolo?
© R. Kagan, distribuito da New York Times Syndicate
( Traduzione di Enrico Del Sero)

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