Trattare ad ogni costo può davvero condurre alla catastrofe Bernard Guetta non l'ha capito
Testata: La Repubblica Data: 14 marzo 2007 Pagina: 25 Autore: Bernard Guetta Titolo: «La catastrofe del Medio Oriente»
La REPUBBLICA del14 marzo 2007 pubblica un articolo di Bernard Guetta sulla "catastrofe" del Medio Oriente. Guetta è sistematicamente a favore delle trattative e della diplomazia: con Siria e Iran sull'Iraq, con l'Iran sul nucleare, tra israeliani e governo palestinese di unità nazionale, con l'Arabia Saudita per la sistemazione del Medio Oriente. Quando sono utili, o quantomeno non controproducenti, trattative e diplomazia sono ottime cose. Il problema è che talvolta possono essere controproducenti. E che certamente una cieca ed indiscriminata fiducia nella loro positività può rivelarsi davvero catastrofica.
Ci limitiamo a segnalare alcuni elementi che dovrebbero indurre allo scetticismo sull'efficiacia delle diverse trattative lodate o auspicate da Guetta: 1)Iraq: Iran e Siria sono tra i prinicipali responsabili del caos in Iraq, 2)nucleare iraniano: finora le trattative sono state usate dall'Iran per ritardare il confronto con la comunità internazionale e far progredire clandestinamente il suo programma nucleare, i presunti contrasti tra Khamenei e Ahmadinejad sarebbero da verificare, di fatto il presidente iraniano è stato eletto con l'appoggio decisivo della guida suprema 3) governo palestinese: Hamas non riconosce Israele e Al Fatah non la contrasta, anzi, Abu Mazen la finanza; sono queste le base dell'unità nazionale palestinese 4) Arabia Saudita: resta uno stato fodamentalista e la sua sfida all'Iran potrebbe assumere la forma di una concorrenza sul medesimo terreno.
Ecco il testo:
Nulla riassume meglio la situazione in Medio Oriente di una barzelletta dei tempi del comunismo. «E´ la catastrofe», dice il pessimista. «Peggio non potrebbe andare!» «Ma sì, ma sì invece…» gli risponde l´ottimista. E´ la catastrofe, perché in questa regione, terra di tutti i pericoli, le crisi dell´Iraq, dell´Iran e della Palestina si aggravano a vicenda, minacciando un incendio generalizzato che sarebbe fatale all´economia del mondo intero. E´ un momento di verità. L´ora è grave, e resa anche più inquietante dalla paralisi simultanea di tutti i protagonisti, bloccati dai rispettivi insuccessi e contraddizioni interne. Negli Stati Uniti George W. Bush è un presidente dimezzato, ormai del tutto privo di credibilità sulla scena internazionale, esposto all´ostilità dell´opinione pubblica del suo paese e costretto a venire a patti con un Congresso a maggioranza democratica. In Iran il regime islamico, dilaniato da una battaglia campale, non ha più la coesione indispensabile per il giro di boa diplomatico auspicato da tutti i suoi dirigenti, con la sola eccezione del presidente Mahmud Ahmadinejad. In Israele, Ehud Olmert è invischiato negli scandali e penalizzato dall´insuccesso subito l´estate scorsa dall´esercito israeliano, a un punto tale che la fiducia dell´elettorato nel suo governo è crollata al 2%; e non è quindi più in grado di rilanciare il processo di pace. Quanto ai palestinesi, il governo di unione nazionale che alla fine dovranno pur costituire non servirà comunque a sanare le divisioni tra laici e islamisti, tra Al Fatah e Hamas. Senza neppur parlare dell´inceppamento europeo, dell´Iraq a pezzi e dello scontro sempre più acceso tra sunniti e sciiti in tutto il Medio Oriente, siamo davvero alla catastrofe. Eppure l´ottimista ha ragione. Potrebbe andare anche peggio, perché questa corsa verso l´abisso ha quanto meno un merito. Oggi, improvvisamente, tutto sta ad indicare che la sua accelerazione sta inducendo a riflettere i dirigenti coinvolti. A un tratto, come colti dalla paura, tutti cercano di raffreddare il gioco. E mai come ora si sono visti tanti incontri che fino a ieri sembravano impensabili. Sabato scorso a Bagdad gli Stati Uniti hanno partecipato a una conferenza internazionale sull´Iraq accanto all´Iran e alla Siria, due paesi dell´ "asse del male", con i quali fino a ieri Washington aveva escluso qualunque contatto. In quell´occasione, americani e iraniani hanno avviato un dialogo diretto, che secondo i primi è stato «costruttivo ed efficace», mentre i secondi lo hanno definito «un buon primo passo». Si sono costituiti "gruppi di lavoro" ai quali prenderanno parte tutti i paesi limitrofi dell´Iraq. Verrà così preparata una seconda sessione di questa conferenza, convocata per metà aprile a Istanbul con la partecipazione dei ministri degli affari esteri, e non più di semplici ambasciatori. Nel frattempo si moltiplicheranno gli incontri e i contatti a tutti i livelli, in una frenesia diplomatica senza precedenti. La paura a volte serve. Può essere buona consigliera e portatrice di speranza, proprio perché i protagonisti di questa triplice crisi, indeboliti e sul punto di toccare il fondo, vorrebbero ormai cambiare questo stato di cose. Non è affatto certo che ci riusciranno; ma dovunque si sta affermando una volontà di compromesso, il cui primo artefice è l´Arabia Saudita. Allarmata dagli sviluppi dell´influenza iraniana e dall´emergere di un asse sciita tra Teheran, Damasco e Beirut, quest´estate la monarchia saudita si augurava ardentemente che gli israeliani riuscissero a farla finita una volta per tutte con gli Hezbollah, alleati libanesi degli iraniani. Lo speravano anche gli altri paesi sunniti; e l´insuccesso israeliano li ha convinti a premere sull´acceleratore verso una soluzione israelo-palestinese. Sostenuti dal mondo arabo nel suo complesso, i sauditi sono oggi decisi a fare di tutto per voltare pagina in questo conflitto, con l´obiettivo di prosciugare le fonti che alimentano la radicalizzazione della regione e l´estremismo del presidente iraniano. Ecco perché il mese scorso hanno preteso e ottenuto da Hamas il «rispetto» degli accordi già conclusi con Israele, e l´accettazione del principio di un governo unitario con Al Fatah. In questo senso non c´è ancora un risultato concreto, ma i sauditi sono ben decisi ad andare avanti, tanto che per il prossimo 28 marzo hanno convocato a Riad un vertice della Lega araba. Quest´ultima dovrebbe reiterare l´offerta di pace avanzata nel 2002: il riconoscimento di Israele da parte di tutti i paesi sunniti, in cambio della creazione di uno Stato palestinese sui territori occupati dal 1967. All´epoca, gli israeliani avevano ignorato questa proposta, non volendo né ritirarsi da Gerusalemme, né accettare il ritorno dei profughi palestinesi del 1948 nel loro Stato. Ma anche se continuano a non volere né l´una, né l´altra cosa, domenica scorsa Ehud Olmert si è dichiarato pronto a «prendere sul serio» l´offerta. Quanto agli inglesi, sono disponibili, per la buona ragione che ad alleare Israele e i paesi arabi è il nemico comune iraniano. Non solo: il primo ministro israeliano sa bene che su Gerusalemme e sui profughi esiste la possibilità di compromessi; mentre vuole evitare l´anarchia e lo sviluppo dell´influenza iraniana sui territori occupati. Israele ha dunque interesse ad afferrare la pertica che gli viene tesa dal mondo arabo. Peraltro, Ehud Olmert è consapevole di avere un solo modo per mantenersi al potere: avviare un negoziato di pace con le capitali sunnite, che costringerebbero i palestinesi - Hamas compreso - a seguirle. La paura dell´Iran, delle sue ambizioni nucleari e del fanatismo del suo presidente, ha ridato consistenza al processo di pace israelo-palestinese. Perciò il mese scorso Condoleezza Rice ha organizzato un vertice tra Ehud Olmert e il presidente palestinese Mahmud Abbas (i quali ultimi si sono rivisti domenica); e si prepara a tornare nella regione, mentre in parallelo le cose si stanno muovendo anche sul fronte siriano. Totalmente isolata da quando ha dovuto ritirarsi dal Libano per via delle sue responsabilità nell´assassinio dell´ex primo ministro Rafic Hariri, la Siria tenta di uscire dalla quarantena concludendo una pace separata con gli israeliani. E ha quindi avviato con Tel Aviv una serie di colloqui ufficiosi, protrattisi per tutta la durata dello scorso anno, fino ad arrivare a un progetto di accordo. Gli Stati Uniti hanno però imposto una frenata a Israele, dato che vogliono innanzitutto ottenere dai siriani assicurazioni sull´Iraq e sul Libano. Intanto però questi negoziati, che non hanno ormai più nulla di segreto, sono avanzati al punto che la Commissione esteri del parlamento israeliano dovrà discuterne il 12 aprile prossimo; e Javier Solana, capo della diplomazia europea, è atteso questa settimana a Damasco, dove precederà di poco la vice di Condoleezza Rice. Israele, l´Europa e l´America sono in contatto diretto con Damasco, e ciò non può che indurre gli iraniani a riflettere. L´Iran rischia infatti di perdere nel giro di pochi mesi il suo indispensabile alleato, crocevia delle sue forniture d´armi, senza il quale non avrebbe più alcun peso, né in Libano né in Palestina. A fronte della posizione unanime delle grandi potenze, che le contestano il diritto di dotarsi di un arsenale nucleare, la Repubblica islamica si trova davanti a una scelta: seguire il suo presidente, continuando a puntare sulla destabilizzazione della regione - e in tal caso si ritroverebbe nella morsa delle sanzioni economiche, e sotto la crescente minaccia dei bombardamenti americani; o convertirsi invece al realismo per giocare - prima di perderle - le sue carte nucleari e irachene. Data la sua capacità di nuocere in Iraq e le paure suscitate dal suo programma nucleare, l´Iran ha oggi la possibilità di far fruttare la sua moderazione. Se rinunciasse alla bomba e si impegnasse veramente per la riconciliazione nazionale e la pacificazione dell´Iraq, potrebbe ottenere l´integrazione nell´economia mondiale, i crediti necessari alla modernizzazione dei suoi pozzi di petrolio, la ripresa dei rapporti diplomatici con gli Stati Uniti e il riconoscimento di un legame privilegiato con l´Iraq sciita. Avventurismo o normalizzazione: questa l´alternativa che spiega la violenza dei dibattiti in corso a Teheran. Il primo segnale, lo ha dato l´intervista concessa un mese fa a Repubblica da Ali Akbar Velayati, consigliere diplomatico della suprema autorità del regime, la Guida Al Khamenei. Riportata da tutta la stampa iraniana e largamente citata ovunque, quell´intervista aveva preso esattamente di contropiede Mahmud Ahmadinejad, sia su Israele che sul nucleare. Da allora non sono più cessate le polemiche, oramai pubbliche, tra il presidente iraniano e le altre personalità del regime. La scelta iraniana è ancora un problema aperto. Ma il fatto che George W. Bush si sia rassegnato a riprendere fin d´ora contatto con Teheran è un messaggio inviato alla Repubblica islamica. Meglio per lui trovare un terreno d´intesa con i realisti di quel regime, piuttosto che doversi lanciare in una campagna di bombardamenti dalle conseguenze imprevedibili, avversata non solo dai paesi arabi, ma dal Consiglio di sicurezza e dall´opinione pubblica americana. Anche per lui la paura è buona consigliera: ma il puzzle è ancora tutto da comporre. (Traduzione di Elisabetta Horvat)