Neal Kozodoy, direttore di Commentary, è intervistato sul FOGLIO di oggi, 10 marzo 2007, a pag.3. Di particolare interesse la sua analisi sull' Iran. Cosa fare, come e quando. Ecco l'articolo:
Gerusalemme. Cinque anni di guerra terrore, uno scossone allo status quo che Condoleezza Rice ha definito senza troppi complimenti “le doglie del medio oriente”, una minaccia nucleare e negazionista alle porte, le offensive terroristiche tra Iraq e Afghanistan sempre pronte colpire. Una battaglia difficile, che sarà ancora lunga, “eppure molti non hanno ancora capito la lezione”. Neal Kozodoy, direttore di Commentary, una delle riviste politiche “assalite dalla realtà” più influenti d’America, sorride. Ce ne sono stati tanti di segnali, sembra dire. “Se ripenso ai giorni subito dopo l’11 settembre, ricordo che, per la prima volta, la percezione della minaccia jihadista è cambiata per tutti. Non era più un problema mediorientale, di Israele, ma di tutto l’occidente”. E’ per questo che la campagna irachena è stata accolta da Kozodoy come un elemento di una nuova, grande strategia mediorientale per innescare un processo di stabilizzazione in tutta la regione. Tra oggi e domani ci sono due vertici importanti: a Baghdad si siedono per la prima volta allo stesso tavolo Stati Uniti, Siria e Iran e Arabia Saudita – tra gli altri per definire un piano di sicurezza che responsabilizzi tutti i paesi dell’area. Domani sarà la volta dell’incontro tra Ehud Olmert, premier israeliano, e Abu Mazen, rais palestinese, per provare a rilanciare il processo di pace. In entrambi i casi, molto discussa l’influenza della corte saudita, soprattutto per quel che riguarda conflitto israelo-palestinese. Il 28 marzo terrà il summit della Lega araba a Riad cui molti analisti s’aspettano “una sorpresa”. Kozodoy dice di essere sicuro che qualcosa accadrà e molti sostengono che il vertice ha il sapore di un nuovo inizio o della proposta di una nuova sfumatura sull’accettazione del diritto di Israele a esistere”. Secondo il direttore di Commentary l’iniziativa saudita sarà accompagnata dagli sforzi di buona parte dell’occidente che vorrà puntare il dito contro Israele, il quale non sa cogliere le opportunità per fare la pace con i palestinesi. E questo finirà per annullare ogni tentativo, perché tutto si ridurrà “a columnist e diplomatici che vorranno mettere sotto pressione il governo di Gerusalemme per arrivare a un compromesso”.Ma questo non è il problema, “il problema sono i paesi arabi stessi, e tutti lo sanno”, conclude amareggiato Kozodoy. Perché il mondo arabo è preccupato che lastrategia americana funzioni sul serio: “Se Washington riesce a fare quello che si è prefissata, tutti si sentiranno minacciati, sciiti e sunniti, ognuno per i suoi diversidiversi motivi”. Lo scetticismo di Kozodoy riguarda anche i sauditi, anche se ci sono “legami di lunga data con Riad e ragioni economiche per non spezzare questi legami”. In più, il fatto che la corte saudita voglia mantenere un ruolo di leadership può risultare “positivo” nei confronti della minaccia iraniana. Il test iracheno La grande preoccupazione, oggi, sta a Teheran. Più che a Baghdad, perché – dice l’analista americano – “se riusciamo a essere duri nel piano di sicurezza appena adottato in Iraq e ad aumentare le attività di controterrorismo, abbiamo qualche possibilità”. Certo, ci vorrà “molto tempo”, è un test per tutta la strategia, ma c’è un progetto. La minaccia iraniana appareinvece più complessa: ci sono le pressioni internazionali per le sanzioni, ma il fronte si sgretola in continuazione sotto il peso degli interessi dei singoli paesi, comeCina e Russia (ma anche Italia e Francia). C’è l’ipotesi militare, che appare alla maggior parte degli analisti la più improbabile. C’è il sostegno alla società civile contro regime di Ahmadinejad, cui il Congresso americano contribuisce con 65 miliardi di dollari stanziati, ma i tempi del riarmo nuclare potrebbero essere più rapidi dei tempi di una destabilizzazione interna. Kozodoy ha una sua teoria, che molto più a che fare con l’attacco preventivo e con “l’orologio che continua a battere i suoi colpi”. Qualche mese fa ha pubblicato un articolo in cui spiegava i diversi tipi di strategia militare che possono essere applicati. Il presidente iraniano detto che, se dovesse essere attaccato, chiuderà subito il rifornimento di petrolio dallo stretto di Hormuz e strangolerà l’occidente. “Dovremmo prevenire questa reazione – spiega Kozodoy – occupando piattaforme petrolifere nello stretto modo da evitare rappresaglie iraniane continuare a far arrivare i rifornimenti Europa. In questo modo daremmo un colpo all’economia iraniana, il che contribuirebbe ad azzoppare il regime e farlo collassare”. A questa operazione preventiva Kozodoy aggiungerebbe anche “un’operazione militare mirata” sui siti nucleari di cui le forze di intelligence sono conoscenza. Le indiscrezioni su un intervento degli Stati Uniti si moltiplicano da mesi, ma linea dell’Amministrazione Bush è quella della diplomazia delle Nazioni Unite, che ora punta a un inasprimento delle sanzioni dopo l’ennesimo rifiuto di Teheran sospendere il suo programma di arricchimento dell’uranio. In più, molti critici della dottrina Bush sostengono che il presidente americano, schiacciato dal falli-mento della sua strategia e dalla sconfitta alle elezioni di mid-term, abbia deciso di tornare a più miti consigli. Tornerebbe il realismo, insomma. In questo senso – sostengono – andrebbe inquadrato anche il vertice di oggi a Baghdad, con l’inedita presenza di funzionari americani, iraniani e siriani allo stesso tavolo. Secondo Kozodoy, non c’è stato alcun cambiamento nella linea di Bush, soltanto qualche “aggiustamento tattico”, che ha a che fare con il nuovo piano del generale David Petraeus e il contestuale tavolo dei negoziati, e aggiunge: “Bush non uscirà dalla Casa Bianca con la convinzione di essere il presidente che ha lasciato che l’Iran degli ayatollah diventasse nucleare”. Il problema è che la guerra “non è niente paragonata al conflitto interno in America”, come dice uno dei padri dei neocon, Norman Podhoretz. E il direttore di Commentary è del tutto d’accordo, anzi, aggiunge che non è soltanto una guerra a Bush ma anche interna alla sua stessa Amministrazione, “ci sono tante persone tra l’intelligence e i ministeri che si sono sempre schierati contro”. Oggi ancor di più. Perché anche le opinioni pubbliche sono stanche. terroristi lo sanno bene, e lavorano sul logorio interno, battendo sulle ferite interne ogni paese presente sul fronte. Ma questo, secondo analisti come Kozodoy, rende ancora più deleteria la proposta – fatta ancora due giorni fa dai democratici al Congresso – di stabilire una data per il ritiro l’autunno del 2008). In questo modo infatti si darebbe un calendario non alle truppe alleate, ma ai terroristi. La sfida tra Rudy e Hillary Comunque sia, Bush è destinato a lasciare la Casa Bianca. Chi verrà al suo posto? Kozodoy è molto cauto, dice che la campagna elettorale è cominciata con un anno di anticipo e quindi tutto può accadere. Spende una parola in più per Rudy Giuliani, il candidato che meglio “personifica” la dottrina Bush. E poi ammette che la sfida che più gli piacerebbe vedere quella tra Hillary Clinton e Rudy, una battaglia tutta newyorkese, la senatrice più falca e l’ex sindaco eroe dell’11 settembre. “Sarebbe interessante e potrebbe raggiungere quei livelli alti, quasi teatrali, che già vediamo in Francia, nella sfida tra Sarkozy e Ségolène”.
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