Nel numero 10 di Famiglia Cristiana è pubblicata un’intervista ad Amos Oz intitolata “Cercate la pace non l’amore” a firma Paolo Perazzolo.
È il provocatorio invito del grande scrittore israeliano. Chiedere di più, spiega, non porta a nulla. Basta imparare a convivere.
«Ogni mattina, appena sveglio, amo camminare per mezzora nel deserto: mi ridà la giusta dimensione delle cose, mi restituisce una prospettiva umana. Quando poi torno a casa e sento i politici fare ampio uso di parole come "mai", "mai più", "sempre", "per l’eternità", so che là fuori le pietre se la ridono».
Lo scrittore israeliano Amos Oz vive ad Arad, una cittadina a stretto contatto con la sabbia del deserto. Ed è, questo, un dettaglio che molto rivela del grande autore, della profondità del suo sguardo, del saggio equilibrio con cui ha sempre affrontato la questione delle questioni, il conflitto che oppone il suo Paese alla Palestina. E molto rivela anche del suo ultimo romanzo, Non dire notte, pubblicato da Feltrinelli. Qui si racconta di un uomo e una donna, Theo e Noa, che trascinano stancamente la loro relazione, fino a quando la morte di un ragazzo e il conseguente progetto di aprire un centro di recupero per tossicodipendenti non scatenano una serie di sentimenti e reazioni impreviste. La vicenda si svolge a Tel Kedar, una piccola città nel deserto del Negev, che molto assomiglia alla città dove risiede Oz.
- La sua Arad sembra identica alla Tel Kedar del libro...
«In realtà la somiglianza è molto superficiale: la città dove vivo conta 30 mila abitanti, quella del libro solo 9 mila».
- Entrambe però sono città di provincia, entrambe confinano con il deserto...
«Questo è vero, tuttavia per me è un punto fermo evitare di trasferire sulla pagina modelli reali. So in quali guai mi caccerei, dal momento che vivo in un ambiente piccolo dove sono molto conosciuto. Un vicino mi ha confidato che, quando esce di casa e passa davanti alle finestre del mio studio, prima di entrare nel mio campo visivo si dà una pettinata, perché pensa che, se dovessi ispirarmi a lui per uno dei miei personaggi, almeno farebbe una bella figura».
· La coppia è uno dei leitmotiv delle sue opere: fino a che punto è lecito considerarla un’allegoria del rapporto fra due popoli diversi?
«Scrivendo Non dire notte non intendevo costruire un’allegoria né pensavo ai blocchi Israele-Palestina. Devo però riconoscere che è un libro che si basa sulla necessità del compromesso e quindi metapolitico. Io sono un grande sostenitore del compromesso, perché ritengo che sia l’unica via per risolvere situazioni critiche. In questo senso sì vedo un collegamento allegorico fra la coppia e le nazioni, privato e pubblico: in entrambi i casi vale che, se non si scende a compromessi, finisce male».
- Noa dice: «Dimenticare per perdonare è un insopportabile cliché». È un suo pensiero? È possibile il compromesso senza il perdono?
«Il compromesso non include necessariamente il perdono, il voltare l’altra guancia. Compromesso significa cercare di incontrare l’altro a metà strada, né più né meno. Non credo che sia necessario perdonarsi o sviscerare il passato per incontrarsi, anzi, ciascuno può mantenere le sue convinzioni, ma fare un passo verso l’altro. Chiedere di più è troppo. Gli idealisti legano l’uno con l’altro tre concetti: pace, amore e perdono. Secondo me, invece, se si pretende di tenerli insieme si finisce per non mettersi d’accordo su nulla.
Non condivido lo slogan: "Fate l’amore, non fate la guerra". Il mio slogan è : "Fate la pace, non fate l’amore". Non bisogna pretendere che le parti contrapposte si amino, è sufficiente – e più realistico – che imparino a convivere, che smettano di ammazzarsi l’un l’altra e di procurarsi dolore».
- La manifestazione di Pordenone a lei dedicata porta per titolo "Conflitti e compromessi": una buona sintesi della sua opera, non crede?
«Certamente. Per molti giovani idealisti il compromesso è una cosa sporca, è disonesto, è opportunismo. Nel mio vocabolario, all’opposto, il rifiuto del compromesso equivale al fanatismo. E guardi che posso parlare di compromessi a ragion veduta, dato che sono sposato con la stessa donna da 47 anni...».
- Noa è solo l’ultimo dei personaggi femminili da lei creati: scrivere delle donne l’ha aiutata a conoscerle?
«Cerco di pensare come una donna, non è facile, ma è giusto provarci. Sono convinto che gli uomini che cercano, almeno qualche volta, di pensare come le donne, e viceversa, siano ottimi amanti, ottimi mariti o mogli e ottimi genitori. L’essenza della letteratura sta proprio nell’immaginare l’altro, capire la sua psicologia e indovinare le sue azioni».
- Si dice che l’80 per cento di israeliani e palestinesi sia pronto alla pace. Che cosa manca allora per realizzarla?
«Non so se l’80 per cento, ma certo la maggioranza dei due popoli vuole la pace e ha accettato l’idea dell’esistenza di due Stati. Quando verranno istituiti, non scenderanno in piazza a festeggiare, non la riterranno nemmeno una soluzione giusta, ma sanno che è l’esito obbligato. Cosa manca allora?
Una leadership capace, forte e coraggiosa che ci conduca alla pace».