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Libero Rassegna Stampa
09.03.2007 Non credere alle confessioni estorte sotto tortura rende atei
strampalati argomenti in difesa del libro di Ariel Toaff

Testata: Libero
Data: 09 marzo 2007
Pagina: 31
Autore: Roberto De Mattei
Titolo: ««Ha ragione Ariel Toaff Anche la tortura fa storia»»
Su LIBERO del 9 marzo 2007, lo storico cattolico Roberto De Mattei difende l'uso delle confessioni estorte con la tortura come prove storiche, intervenendo nel dibattito sul libro di Ariel Toaff "Pasque di sangue".

Se non credessimo alle confessioni di omicidi rituali perché fornite sotto tortura, sostiene, non dovremmo nemmeno credere all'esistenza delle dottrine eretiche alle quali le vittime dell'Inquisizione confessavano la propria adesione. 

Ma dell'esistenza di dottrine eretiche rispetto all'ortodossia cattolica come quella catara, quella dolciniana e quella valdese, e più tardi quelle della Riforma,  ci sono altre testimonianze storiche, anche extragiudiziali.

Ricordiamo poi a De Mattei che fu lo stesso inviato del Papa a giudicare il processo di Trento (la cui trattazione costituisce gran parte del libro di Toaff) irregolare e manipolato, anche secondo gli standard giuridici dell'epoca.

L'ipotesi che gli accusati fossero indotti a confessare ciò che gli inquisitori si aspettavano da loro sembra poi a De Mattei minare la credenza in Dio e "la  
stessa concezione dell'uomo e della storia."

Scrive infatti:  "Ritenere che le testimonianze raccolte dagli inquisitori non fossero che la proiezione dei loro perversi desideri significa voler spiegare la storia in chiave psico-sociale. Con questi presupposti, però, la stessa idea di Dio potrebbe essere considerata come proiezione di inconfessati terrori o di inconsci desideri, dimenticando che le scienze psicologiche e sociali difficilmente ci aiutano a penetrare nelle profondità del cuore umano"

Ma si tratta di un' assurdità. Sarebbe come sostenere che ammettere l'esistenza di malati di mente che distorcono sistematicamente la realtà potrebbe condurre a ritenere malati di mente tutti coloro che credono in Dio, e dunque un credente deve pensare  che al mondo tutti siano sani di mente.

Ecco il testo:


Ma l'Inquisizione fu davvero un tribunale menzognero, composto da cristiani accecati dai pregiudizi, che mandavano al rogo vittime innocenti, dopo aver loro estorto con la tortura strampalate fantasie come gli omicidi rituali? È questa la domanda che sorge spontanea dopo la lettura di molte critiche, anche da parte cattolica, al libro di Ariel Toaff, "Pasque di sangue" (Il Mulino, 2007), ritirato dalle librerie dopo le pressioni e le minacce contro l'autore, che ha chiesto all'editore di sospendere la diffusione del suo saggio. Per rispondere, occorre di sgombrare il terreno dalla logica del "cui prodest", secondo cui trattare di questi argomenti significherebbe portare acqua al mulino dell'antisemitismo. Spiegare la pubblicazione del libro di Toaff come frutto di un "complotto" antisemita, di cui il docente della Bar-Ilan University sarebbe stata consapevole o ignara pedina, significa usare la stessa logica con cui alcuni dietrologi vorrebbero attribuire l'attentato alle Twin Towers dell'11 settembre al Mossad israeliano o al presidente americano Bush. Un problema di metodo

Il problema è invece e innanzitutto di carattere metodologico. Per lo storico le fonti giudiziarie sono un documento di primaria importanza. I processi più noti e più largamente utilizzati dagli studiosi sono le carte inquisitoriali, conservate in Italia in alcuni Archivi di Stato e in molti archivi storici diocesani. Oggetto primario di queste carte sono le confessioni e le testimonianze che contribuiscono a comprendere la mentalità e comportamenti di un'epoca. Le confessioni registrate dall'Inquisizione, comprese quelle estorte con la tortura, hanno valore testimoniale o no? Il sistema della tortura giudiziaria ammesso dai tribunali dell'Inquisizione ha il suo fondamento nel diritto romano. Autorizzato dal Papa Innocenzo IV, con la bolla "Ad extirpanda" (1252), venne correntemente applicato anche dalle leggi civili europee, dalle "Constitutiones regni Siciliae" di Federico II (1231) alla Ley de la siete partidas di Alfonso X di Castiglia (1265) e, fino al Settecento, fece parte integrante del sistema giuridico europeo. Si può rifiutare la concezione teologica che stava alle spalle dell'Inquisizione, ma non si può dimenticare che l'inquisitore, prima di essere un teologo o un canonista, resta un magistrato che deve accertare la verità. È lo storico Adriano Prosperi a ricordarlo: «L'inquisitore è uno che cerca, indaga, vuole scoprire la verità: i manuali non si stancano di ripeterlo» ("Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari", Einaudi 1996, pag. 203). L'inquisitore non è interessato a falsare le prove. Nei casi di utilizzo della tortura, essa è considerata un valido strumento di indagine, e tale convinzione si basa su una concezione dell'uomo (e delle sue debolezze) antitetica a quella illuministica, assertrice della bontà primigenia dell'uomo. Non pena ma strumento

La tortura non aveva dunque il carattere di pena fine a se stessa ma di strumento per ottenere la verità. Ciò spiega la cautela con cui essa venne generalmente praticata in Italia. Nel processo d'inquisizione, come ribadiscono le Regole generali conservate dal Sant'Uffizio, la tortura doveva essere sempre motivata da indizi consistenti di colpevolezza, «certi ed indubitati». Dunque poteva essere praticata «solo dopo che la difesa avesse esposto i suoi argomenti e solo quando le prove erano schiaccianti». Mentre la confessione spontanea era di per sé sufficiente alla condanna, la confessione estorta non aveva invece valore di prova se non era liberamente ratificata a distanza di tempo, in tribunale, lontano dai tormenti. Se l'imputato confermava quanto aveva ammesso, la sua confessione, sempre che non apparisse viziata per altri motivi, era considerata come spontanea. Solo la ratificazione infatti aveva l'effetto giuridico di far considerare come spontanea la confessione precedente. Nessuna sentenza di condanna o d'assoluzione si trovava in un rapporto rigidamente automatico con i risultati della tortura, venendo invece fondata anche su altri dati, come gli indizi, per esempio, che il giudice poteva valutare liberamente. Il dibattito in America

La tortura è stata abolita, ma non è mai stata diffusa come ai nostri giorni. Un rapporto del 2001 di Amnesty International illustra l'uso sistematico della tortura in Cina contro dissidenti politici, tibetani e membri della Falun Gong. Il Rapporto 2006 sulla Libertà Religiosa nel mondo dell'Aiuto alla Chiesa che Soffre conferma l'utilizzazione di questa pratica. La tortura poi è un metodo non ignoto ai servizi di sicurezza di varie nazioni occidentali per combattere il terrorismo, in una zona di penombra esterna al dominio della legge. È legittimo, ad esempio, l'uso della tortura contro il terrorista a conoscenza di un attentato imminente, se questo è l'unico modo per impedire che la bomba esploda? Studiosi "garantisti", come Alan Dershowitz, professore di diritto "liberal" dell'Università di Harvard, che ha dedicato un libro a questo tema ("Terrorismo", Carocci, 2003) lo ritengono possibile, auspicando che la pratica, anziché essere delegata a un personale poliziesco e militare che agisce senza il controllo legale, sia affidata a un magistrato che, nel pieno rispetto della legge, spicchi contro il presunto terrorista un "mandato di tortura". Senza contare che il mondo contemporaneo conosce peraltro forme di tortura morale a volte non meno drastiche della tortura fisica: l'esclusione di uno studioso dal mondo accademico, la messa al bando dalla "comunità etico-scientifica", la gogna mediatica, il linciaggio morale. Il giudizio degli storici

L'uso della tortura viene giustamente condannato in nome dei diritti umani, ma anche gli storici "laici", pur non condividendo filosofia e metodi dell'Inquisizione, ne ammettono l'importanza delle fonti testimoniali. Per esempio Luigi Firpo, non certo sospettabile di simpatia per l'Inquisizione, nei libri dedicati ai processi di Giordano Bruno e Tommaso Campanella, non contesta i risultati ottenuti da questi Tribunali, anche quando essi passano attraverso l'uso della tortura. Se le testimonianze raccolte sotto tortura devono essere considerate invalide, la larga parte degli eretici non sono mai esistiti e gli stessi studi sulle eresie, basati proprio sulla raccolta di queste confessioni, sono da buttare nel cestino. Ma soprattutto sono da buttare nel cestino non tanto i risultati del processo di Trento, di cui si è occupato Toaff, quanto tutta l'opera dei Tribunali dell'Inquisizione, basata, nello spazio di cinque secoli, su di un sistema giudiziario che considerava la pratica dell'estorsione della verità come giudiziariamente efficace. Ritenere che le testimonianze raccolte dagli inquisitori non fossero che la proiezione dei loro perversi desideri significa voler spiegare la storia in chiave psico-sociale. Con questi presupposti, però, la stessa idea di Dio potrebbe essere considerata come proiezione di inconfessati terrori o di inconsci desideri, dimenticando che le scienze psicologiche e sociali difficilmente ci aiutano a penetrare nelle profondità del cuore umano. Ciò che è in gioco, a questo punto, non è solo una metodologia, ma la stessa concezione dell'uomo e della storia.

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