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Il Foglio Rassegna Stampa
09.03.2007 La forza dell'economia israeliana
merito di riforme economiche e innovazione

Testata: Il Foglio
Data: 09 marzo 2007
Pagina: 1
Autore: Pietro Romano
Titolo: «Kibbutz economy»
Dal FOGLIO del 9 marzo 2007 (a pagina 1 dell'inserto):

Roma. La crisi innescata dal crollo della Borsa di Shanghai ha lambito anche il mercato azionario israeliano. Ma si tratta di inezie rispetto all’incremento del 180 per cento messo a segno negli ultimi quattro anni, merito insieme delle riforme economiche, una serie di liberalizzazioni e di privatizzazioni, varate a cavallo tra 2003 e 2004 dall’allora ministro dell’Industria Ehud Olmert (oggi premier) nel governo guidato da Ariel Sharon e della morte del leader palestinese Yasser Arafat, che aveva lasciato sperare in nuovi assetti geopolitici in medio oriente. Il boom di Tel Aviv è stato reso possibile prima di tutto dal buon momento economico del paese, trainato soprattutto da alte tecnologie e industria farmaceutica, ma anche agroalimentare, costruzioni, cosmetici e giocattoli. L’economia ha il suo punto di forza nell’innovazione, grazie ai massicci investimenti in ricerca e sviluppo: Israele produce un numero di brevetti inferiore solo a quello del Giappone. A sostenere le alte tecnologie sono le sinergie tra il settore pubblico della difesa, l’iniziativa privata e il venture capital. Il 2006 si è chiuso così con una crescita del prodotto interno lordo di poco inferiore al sei per cento, nonostante lo 0,5 per cento di decremento attribuito alla guerra in Libano. Le prospettive di solvibilità israeliane per l’agenzia Standard & Poor’s sono passate di conseguenza da stabili a positive. L’inflazione a cavallo tra la fine dello scorso anno e l’inizio del 2007 ha subito un brusco stop (a gennaio è calata dello 0,1 per cento) permettendo al governatore della Banca centrale di ridurre il tasso di sconto per la quinta volta consecutiva, portandolo al 5,5 per cento. A gennaio le offerte di impiego sono tornate ad aumentare: il 20 per cento in più rispetto al mese precedente grazie anche a quasi un miliardo e mezzo di dollari americani investiti da operatori stranieri sulla scia di Warren Buffett, il cui fondo Berkshire Hathaway lo scorso anno ha comprato la società hi-tech Iscar per quattro miliardi di dollari. La bilancia dei pagamenti ha registrato un saldo positivo pari a 2,2 miliardi di dollari americani e quest’anno dovrebbe salire a 3,3 miliardi. “Un dato spesso ignorato è che il 90 per cento del fatturato delle principali aziende israeliane e sicuramente di quelle nel listino di Tel Aviv è realizzato all’estero”, ha spiegato recentemente Shlomo Elpboim, gestore del fondo comune americano Blue & White, specializzato in titoli israeliani. Il mercato cooperativo Molte società quotate a Tel Aviv sono presenti anche in piazze estere: Nasdaq e Nyse a New York, City e Aim a Londra. Investitori come Elpboim stanno allora bilanciando la loro esposizione sulle medesime società nei diversi mercati. Timori di volatilità politica e anche economica, non condivisi da diversi operatori. In Israele – spiegano – si è di fronte a due fenomeni in grado di giustificare l’ottimismo. Per i settori trainanti il boom borsistico è solo in parte un fenomeno finanziario. Una delle stelle di Tel Aviv è Teva, che produce medicinali generici: lo scorso anno le sue vendite sono cresciute del 60 per cento. Inoltre, la nozione di mercato borsistico come leva di sviluppo si è fatta largo nella società israeliana e nella vasta diaspora. “Il pubblico ha cominciato ad adottare una politica di attivismo finanziario”, assicura Naftali Mendelovicz, direttore del dipartimento consacrato agli studi sul mercato presso la Consob israeliana. Il governo ha deciso di privatizzare parzialmente il monopolio elettrico con molte probabilità attraverso la quotazione in Borsa. E dal listino sono attratti perfino kibbutz e sindacati. Indecisa se quotarsi a Tel Aviv o a Londra (ma gli osservatori ritengono che sceglierà entrambi i listini) è la società Ahava, che fabbrica cosmetici dai minerali del Mar Morto, il cui capitale è detenuto al 59 per cento appunto da alcuni kibbutz, simbolo del cooperativismo se non del collettivismo. Un ruolo attivo sul listino di Tel Aviv è intenzionato a giocarlo anche Histadrout, la principale centrale sindacale del paese con i suoi 700 mila iscritti. Il suo leader Ofer Eini ha appena annunciato la creazione di un fondo che gestirà l’equivalente di nove miliardi di euro per investire in Borsa.

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