|
|
||
Victoria Sami Michael
Traduzione Antonio Di Gesù
Giuntina Euro 17
La sua Baghdad non la vede da quasi sessant'anni, ma è un fiume, il Tigri, a rapire la sua nostalgia. "Mi manca. Mi manca quando esondava. O quando, al contrario, era in secca e si vedeva il fango sugli argini", dice Sami Michael, scrittore israeliano considerato tra i grandi del Paese, nato 80 anni fa a Baghdad. Seduto nel salotto della sua casa di Haifa, in uno di quei palazzi che dal Carmelo si aprono sul Mediterraneo, guarda un'altra acqua, quella del mare grigio per la pioggia. Nascere vicino a un fiume però è diverso. "E' nel tigri che facevo il bagno, ed è su di un ponte sul tigri che ho dato il primo bacio". Non è un caso che quel ponte e quel fiume, dunque, siano sulla pagina che apre il suo romanzo forse più bello, "Victoria", uscito in Italia per i tipi della Giuntina. Su di un ponte scosso dalla folla e dal fiume in piena passa la protagonista che dà il titolo al romanzo, ragazza ebrea di Baghdad. Nascosta in un ampio velo nero in ossequio ai costumi sociali, e chiusa in un dolore indicibile per l'altro personaggio centrale del racconto, Rafael, l'uomo che, nel cortile della casa che fa da palcoscenico a un'epopea familiare, cambia le usanze, porta la rivoluzione, segna l'apertura al nuovo. Victoria avrebbe voluto suicidarsi, nel Tigri, e dimenticare l'amore, la gelosia e perfino l'odio che l'avrebbe tenuta legata a Rafael, da Baghdad, da quella casa in cui, cugini, erano nati e vissuti, sino alla casa di riposo in Israele, sessant'anni dopo. Dal Tigri fino a Ramat Gan, Michael ripercorre in questo romanzo, che ha decretato il suo successo nel mondo anglosassone come una sorta di Buddenbrok dell'ebraismo iracheno, non solo la saga di una famiglia. Mostra anche un amore moderno, il passaggio da una sessualità umiliante per le donne, alla gioia infinita di quando si fa l'amore insieme. Che Michael dovette spiegare, per esempio, a suo nonno, convinto che le donne non provassero piacere e che fossero come Najiyah, la madre di Victoria, una donna cattiva, pronta a sfornare figli e a maledire il mondo, per le botte prese da suo marito, che la penetrava come fosse un asino. Ironia della sorte, i sessant'anni della storia di Victoria e Rafael, e della loro grande famiglia, ricorrono anche nella vita di Michael. Che in questi giorni, a quasi sessant'anni dalla sua fuga, torna a Baghdad, virtualmente. Perché "Victoria", tradotto in arabo, viene venduto per le strade della capitale irachena. La sola idea lo commuove, mentre guarda la copia in arabo del suo romanzo poggiata sul tavolino del salotto. Una foto d'epoca in copertina, e i ricordi di Michael risalgono la corrente. Prima "bambino vagabondo" che con le scarpe in borsa se ne andava in giro per i quartieri musulmani della città, poi perseguitato politico, e infine scrittore e personaggio scomodo in Israele. Michael rivendica come la più grande ricchezza le tante identità che ha in sé. "Arabo ebreo", "patriota iracheno", laico del Medio Oriente, arrivato nel 1949 in Israele per sfuggire alle retate contro i militanti del Partito comunista iracheno di cui era uno dei giovani leader. Poi scrittore autodidatta in ebraico e combattente per i diritti civili di israeliani, palestinesi, gay. "Certe volte penso di essere un uccello che vola da una parte all'altra senza identità. O forse sono solo un'emigrante. E' nella mia casa di Baghdad che ho cominciato ad essere un emigrante. Quando ho portato Jack London e Lev Tolstoj in un ambiente così tradizionale come la mia famiglia. Lo stesso, che descrivo in "Victoria". Io sono stato come Rafael, che si presenta un giorno nel cortile con abiti di foggia europea, e indica il punto di passaggio per la comunità ebraica locale: da una comunità chiusa a una aperta alle influenze esterne, anche quelle europee". Rafael come Sami leggeva libri, il suo strumento verso la modernità. Paola Caridi
L’Espresso
|
Condividi sui social network: |
|
Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui |