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La Stampa Rassegna Stampa
05.03.2007 Ahmadinejad gioca coi petardi, con Rafsanjani si potrebbe parlare "di tutto"
Igor Man e Farian Sabahi raccontano storie sull'Iran

Testata: La Stampa
Data: 05 marzo 2007
Pagina: 1
Autore: Igor Man - Farian Sabahi
Titolo: «GLI AYATOLLAH fermino Ahmadinejad - Bavaglio alle donne in piazza a Teheran»

Minimizzazione e ridicolizzazione della minaccia dell'Iran "bombastico" che maneggia "petardi"  e presentazione di Israele, attraverso una concatenazione di citazioni e interpretazioni come "nemico dell'islam", che pratica l' "avventurismo politico" e minaccia la pace del Medio Oriente.

Ecco il testo:

Il blitz del presidente iraniano Ahmadinejad a Riad si è esaurito in meno di ventiquattr’ore. E se è vero che puntava a saldare la «casa sunnita» (l’Arabia Saudita, il paese che custodisce la Medina e la Mecca, i luoghi santi dell’islàm) alla «casa sciita» (l’Iran che apertamente aspira all’egemonia nell’arco della crisi: dal Golfo al Mediterraneo), s’è risolto in un fallimento. Vediamo.
Nessuno vuol sentir parlare di guerra civile in Iraq. Si preferisce la locuzione «crisi», chiaramente per esorcizzare una realtà terribile, foriera d’un possibile disastro non più regionale ma globale. Per sconfiggere il caos e dunque la «crisi» gli americani sembrano oscillare fra due opzioni. Quella militare, per snidare, combattendo casa dopo casa, gli insorti e infine cancellarli. E quella, diremo, pragmatica. Grazie al segretario di Stato americano, quel grosso animale politico ch’è la signora Condy Rice, sembra stia facendosi strada l’opzione pragmatica. Nel segno della carota. Una carota chiamata petrolio. A breve il Parlamento iracheno dovrebbe approvare una sorta di distribuzione della ricchezza, cioè del petrolio. Si pensa a un provvedimento in forza del quale i ricavi della vendita dell’oro nero (l’Iraq è il terzo produttore nel mondo) verranno ripartiti fra le province in base al numero degli abitanti. Di più: le varie regioni potranno sottoscrivere accordi con società straniere. Si tratta d’una legge non priva di sostanza, invero pragmatica. Non garantisce la fine della guerra civile però potrebbe spuntarne gli artigli, lentamente svuotandola di intenti e argomenti. Ora la domanda è questa: basterà la redistribuzione del pane-nero a riportare nell’ovile iracheno la maggioranza sciita? Una maggioranza che apertamente pretende di affermarsi come idea-nazione, come leadership?

E che ha già in corso una non pubblicizzata conferenza di intenti con i fratelli sciiti dell’Iran bombastico di Ahmadinejad?
Fino a ieri i rapporti fra la «chiesa» sciita dell’Iran e quella irachena sono stati soltanto formali. Le due «chiese» non si amano ma oggi sembrano ipotizzare un Califfato postmoderno con un braccio a Teheran e l’altro a Beirut, a Damasco.
A detta dei «guru» di Zamalek, siamo in pieno libro dei sogni ma a Riad qualcuno che conta osserva che a volte, nella Storia, qualche «sogno» prende corpo. Si veda Khomeini. Nessuno pensò mai che un vecchio santone in turbante avrebbe detronizzato il potentissimo Scià, padrone arrogante dell’Iran indoeuropeo; senza sparare un colpo, a mani nude.
Il breve incontro fra il preoccupato e realista Abdullah, sovrano attento dell’Arabia Saudita, e il masticator di petardi Mahmud Ahmadinejad, una sua valenza politica ce l’ha comunque. Ha dato modo, l’incontro, al re saudita di ribadire la ferma intenzione di uscire dalla annosa e rovinosa crisi meridionale adoperando un vecchio grimaldello: la famosa risoluzione 242 dell’Onu. Al tempo stesso, ribadendo «l’unità del mondo islamico», il suo stare in guardia per disossare «complotti irresponsabili», re Abdullah ha inteso mettere in allarme gli Stati Uniti e la stessa Europa. Viva, «palpabile» per usare la definizione del libanese Hariri, è la preoccupazione «in ordine al pericolo d’un conflitto generalizzato, conseguenza dell’avventurismo politico dei nemici dell’islàm». Dove al posto di «nemici dell’islàm» dovrebbe leggersi: Israele. A Beirut, in Hamra, si accettano scommesse: «di qui a tre mesi Israele effettuerà una operazione chirurgica per enucleare, e distruggere, i siti atomici dell’Iran».
Tre mesi sono un lasso di tempo assai breve ma qualche volta nella Storia (del Medio Oriente) grandi accadimenti si sono avuti proprio nel giro di sei giorni (vedere la guerra omonima).
Il fallimento del blitz di Ahmadinejad a Riad dovrebbe allarmare i cosiddetti «arabi moderati» spingendoli a fare della prossima conferenza della Lega araba un momento politico nel segno del pragmatismo. Tutto si tiene: la questione palestinese, la valanga sciita, il Libano, le farneticazioni di Ahmadinejad. Ed esiste, oramai, nel mondo islamico, la consapevolezza che l’odioso verbalismo di colui che in ogni caso è il Presidente di un paese membro dell’Onu, porta dritti dritti a una guerra che farebbe piangere tutti. Nessuno escluso. Sempreché a Teheran il Bazar (vale a dire gli ayatollah che conoscono il mondo per averlo viaggiato) non si decida a dare il benservito al Presidente nucleare. A quel famelico omino che afferma di parlare col Madhi (il Messia).

Farian Sabahi spiega che l'Occidente potrebbe trattare su tutto con il "pragmatico" Rafanjani. Anche sulla sua estradizione in Argentina, dove è incriminato per strage?


L'8 marzo si avvicina e le autorità iraniane temono che, come ogni anno, le donne scendano in piazza a chiedere maggiori diritti, poiché nel sistema giuridico ereditano il 50% rispetto ai fratelli, la loro testimonianza vale la metà e le famiglie ottengono un risarcimento inferiore in caso di morte violenta. La legge consente la poligamia, anche se formalmente con il permesso della prima moglie. Ottenere il divorzio non è facile e la custodia dei figli non è automatica.
Per intimidire gli attivisti, ieri trentadue donne sono state arrestate davanti alla Corte rivoluzionaria di Teheran. Si erano radunate, in segno di solidarietà, all'apertura del processo per una manifestazione svoltasi nel giugno scorso nella Piazza Haft-e Tir. In quell'occasione uomini e donne erano stati dispersi dalla polizia che aveva arrestato una settantina di persone.
In attesa del processo, gli arrestati erano stati rilasciati su cauzione. Tra loro un ex deputato riformista, Ali Akbar Mousavi Khoini, tornato in libertà dopo quattro mesi di dura detenzione. Ieri, all'uscita dal tribunale, le cinque donne a capo del movimento femminista sono state nuovamente arrestate e la stessa sorte è toccata alla loro avvocata Parvin Adalan che, come i colleghi, non ha potuto prendere visione degli atti prima dell'udienza ma era stata interrogata più volte dai servizi segreti.
Del collegio di difesa fanno parte Mohammad Sharif e Mohammad Ali Dadkha, membri del Centro per i diritti umani del Nobel per la pace Shirin Ebadi. Hanno dichiarato che, in un momento di grave crisi internazionale, le loro assistite sono accusate di «iniziative contro la sicurezza del Paese». Si tratta del solito pretesto che i falchi di Teheran usano per reprimere il dissenso.
L’unico interlocutore dell’Occidente sul discorso dei diritti potrebbe essere il pragmatico Rafsanjani che, sconfitto nel ballottaggio del 2005 da Ahmadinejad, è tornato alla ribalta vincendo nelle elezioni del 15 dicembre la presidenza dell'Assemblea degli esperti. Pur di guadagnarsi il consenso della popolazione, Rafsanjani sarebbe disposto a tutto: ad accantonare il programma nucleare, come ha già dichiarato. Anche maggiori diritti, per le donne ma non solo, se l'Occidente glielo chiedesse in cambio del tanto desiderato sdoganamento dell'Iran.
Dopotutto, il 3 dicembre il parlamento iraniano ha votato una legge per accorciare di un anno e mezzo il mandato di Ahmadinejad, che potrebbe terminare il prossimo febbraio. Il presidente non ha mantenuto le promesse elettorali - creare occupazione e distribuire la ricchezza petrolifera - e i suoi slogan hanno isolato il Paese. Errori che gli iraniani non perdonano. E Rafsanjani, più esperto e dalla retorica meno aggressiva, si prepara. A lui occorre tendere la mano. Chiedendogli di dimostrare di essere veramente moderato.

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