"Pace delle mele" sul Golan: Israele punterebbe solo ai soldi Onu e Croce Rossa avrebbero tutto il merito
Testata: La Stampa Data: 04 marzo 2007 Pagina: 15 Autore: Benjamin Barthe Titolo: «La pace delle mele nel Golan»
Commercio di mele tra il Golan israeliano e la Siria. Merito di Onu e Croce Rossa ? Le due organizzazioni, è ovvio, non potrebbero promuovere il commercio senza l'assenso dei due stati coinvolti. E, del resto, l'una e l'altra si sono rivelate impotenti ( e del resto non si sono molto impegnate) di fronte alla condotta non certo pacifica della Siria che continua a sostenere il terrorismo di Hezbollah e di Hamas o all'impossibilità di avere informazioni sui soldati israeliani rapiti. Se la Siria ha un interesse politico a permettere il commercio, vale a dire " non mettere alla prova la lealtà dei drusi del Golan", se per questi ultimi interviene la necessità economica (non diremmo quella umanitaria: non stanno morendo di fame), andrebbe riconosciuto a Israele il merito di aver acconsentito ad aprire le sue frontiere con un paese che continua ad esserle ostile Il commercio tra Israele e Siria ci sembra dunque soprattutto un merito d Israele.
Ma Benjamin Barthe, giornalista di Le Monde che pubblica il suo reportage anche sulla STAMPA del 4 marzo, non vuole accettare una simile ipotesi. E fornisce allora una spiegazione esclusivamente economica della scelta compiuta: " l’arrivo di migliaia di tonnellate di mele nei mercati del vicino arabo garantisce ai produttori un’immediato aumento dei prezzi".
Ci permettiamo di dubitare che nei rapporti con la Siria, che è tuttora un pericoloso nemico dello Stato ebraico, le scelte politiche di Israele siano determinate dagli interessi corporativi dei produttori di mele.
Ecco il testo:
Sulle desolate alture del Golan scende la foschia. Una fila di camion carichi di mele fino al bordo sobbalzano sulla strada battuta dal vento. Dopo pochi minuti, il convoglio si ferma in aperta campagna, davanti a decrepite garritte militari sopra le quali sventola la bandiera con la stella di Davide. E’ il valico di frontiera di Kuneitra, tra la Siria e la pianura del Golan, occupata da Israele nel 1967 e annessa nel 1981. E’ un corridoio lungo 300 metri, a cavallo della linea della tregua fissata dopo la guerra del Kippur nel 1973. Bassam Zeidan, contadino druso del Golan, scende dalla cabina, guardando con orgoglio la bandiera siriana che scorge in lontananza, tra gli alberi: «E’ un grande giorno, un giorno di festa. Non avrei mai sperato di poter vendere le cose che produco nel mio Paese. Oggi faccio passare le mie mele. Domani, se Dio vuole, passeremo anche noi». Questa operazione viene gestita per il terzo inverno consecutivo dalle truppe dell’Onu (Fnuod) e dal Comitato internazionale della Croce Rossa. Della durata prevista di due mesi, permette agli agricoltori del Golan occupato di vendere 10 mila tonnellate di mele, circa un quarto della loro produzione annuale, sul mercato siriano. Nonostante l’ostilità storica, e le tensioni recenti, i due Paesi hanno dato luce verde a questo trasporto commerciale quasi unico. «Tutte le parti si sono mostrate interessate», dice Paul Conneally, della delegazione della Croce Rossa in Israele. Per i 20 mila siriani del Golan occupato, tutti di religione drusa (una setta nata da un ramo dell’Islam sciita) si tratta di un regalo insperato. La chiusura del territori palestinesi dopo l’Intifada del 2000 li ha tolto metà del mercato. «E’ stato un disastro», ricorda Nabih Eweidat, responsabile del sito di Majdal Shams, capitale del Golan: «La mela per noi è l’equivalente delle olive per i palestinesi, è la spina dorsale della nostra comunità». I coltivatori drusi patiscono anche la concorrenza dei 15 mila coloni ebrei che si sono stabiliti nel Golan. «Ne sono arrivati parecchi negli anni ‘80», dice Nabih. «Avevano un forte sostegno del loro governo, e poco a poco, hanno cominciato a produrre quanto noi». A corto di clienti, i contadini del Golan hanno guardato verso Damasco. Nell’autunno 2004 sono stati allacciati contatti discreti. I siriani non volevano mettere alla prova la lealtà di questa popolazione sotto occupazione, hanno dato rapidamente il loro assenso. Israele, dal lato suo, non si è fatto pregare. L’arrivo di migliaia di tonnellate di mele nei mercati del vicino arabo garantisce ai produttori un’immediato aumento dei prezzi. «Per i siriani i motivi erano politici, per gli israeliani economici, e per i drusi umanitari», riassume Conneally. La Croce Rossa ha svolto un ruolo di agevolazione: è a bordo dei suoi camion che partono le cassette con le mele druse. E’ l’unico trasportatore che Siria e Israele accettano nell’ultrasensibile corridoio di Kuneitra. Per garantire la neutralità totale, dal centro della Croce Rossa a Nairobi sono stati inviati autisti kenyoti. Una volta carichi, i camion superano la porta Alpha, sotto controllo israeliano, poi la porta Charlie, il posto di controllo della Fnuod, e quache secondo dopo la porta Bravo, il terminale siriano. Tra 8-10 i dirigenti delle cooperative druse torneranno a Kuneitra per ritirare l’incasso. «Le mele vengono acquistate direttamente dallo Stato siriano», spiega Abu Salah. «Ci concede un prezzo leggermente più alto del mercato israeliano. Per noi comunque non è una questione di profitto. L’importante è poter coltivare e conservare le terre ereditate dai nostri genitori». Fa una pausa, osserva il primo camion partire, e aggiunge con un sorriso astuto: «E’ un giorno di liberazione, ma zitti, non diciamolo più, i soldati israeliani sono dappertutto». Più che una ciambella di salvataggio economica, l’operazione viene vista dalla gente del Golan come un’evidente dimostrazione di fedeltà a Damasco. I drusi in maggioranza restano fedeli alle origini. Quasi nessuno ha accettato la cittadinanza dello Stato ebraico, offerta dopo l’annessione nel 1981. Alla voce «nazionalità», nella loro carta d’identità rilasciata da Israele, c’è scritto un sibillino «drusa». «Non ho mai vissuto sotto i siriani», dice Nabih Ewedait, 39 anni. «Non sono nemmeno mai andato in Siria. Ma i miei genitori mi hanno dato un’educazione nazionalista araba. E ho subito di persona l’occupazione. Sono stato licenziato dal posto di professore d’informatica perché “parlavo troppo”. Lo Shin Beth, i servizi israeliani, sono ovunque». A Majdal Shams, la giovane generazione è ormai influenzata dal modello di vita israeliano, ed è meno categorica. Nel cappannone della cooperativa delle mele, la 25enne Rose Abu Saleh tiene i conti e spiega come le sono stati utili gli studi al collegio in Galilea: «E’ vero che il Golan è occupato. Ma non significa che soffriamo ogni giorno. Se verrà conclusa la pace, spero che si farà a buone condizioni, così potrò mantenere amici e relazioni professionali in Israele». Amal Khater, capo reparto, ha un tono prudentemente critico: «Vorrei vivere in Siria, ma il regime non mi piace tanto. Detto questo, non c’è fretta. La comunità internazionale non farà pressioni su Israele per il Golan. La pace non arriverà domani». Esce un camion carico. Pronto per l’esportazione? «No», corregge Amal, sotto lo sguardo d’approvazione di Rose: «Non diciamo “esportare”. Il Golan è in Siria. Mandiamo mele a Damasco. E’ diverso». Copyright Le Monde
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