Al quotidiano della Margherita piace Gheddafi un articolo elogiativo del regime
Testata: Europa Data: 01 marzo 2007 Pagina: 5 Autore: Antonio Barillari - Marilisa Palumbo Titolo: «Il regime è verde ma ha già trent’anni - Mansour el Kikhia: «È un illusionista. Un cambiamento vero lo travolgerebbe»»
Un saggio capo di Stato che ha inventato una forma di democrazia partecipata e distribuisce ricchezza ai suoi sudditi. Elogio di Gheddafi e del suo regime xenofobo, deditto all'organizzazione di processi farsa, e antisemita. Sul quotidiano della Margherita.
Ecco il testo:
«La rappresentanza è un’impostura. Il partito è uno strumento di governo dittatoriale. Il potere spetta al popolo. Democrazia diretta. Il lavoro dipendente è la schiavitù dell’uomo. I neri governeranno il mondo». Non si tratta di slogan scritti sui muri di un’università occupata nel tanto discusso ‘77 italiano bensì di frasi tratte dal Libro verde con cui nello stesso anno il leader libico Moammar Gheddafilanciò il suo sistema di democrazia diretta. Proprio venerdì ricorre il trentesimo anniversario dell’inizio di un esperimento che cerca di unire aspetti presi dal socialismo, dall’islam e dal pan-arabismo di stampo nasseriano. Da allora la Libia è diventata una Jamahiriyah, neologismo coniato dallo stesso Gheddafi che signi fica “stato delle masse”. Il parlamento è stato sostituito dal congresso generale del popolo i cui membri provengono dai vari comitati popolari che si occupano ciascuno di un settore specifico (istruzione, sanità, agricoltura, sicurezza…). A loro volta i componenti dei comitati popolari vengono scelti dai congressi popolari di base, una sorta di assemblee locali di quartiere o di villaggio che nelle aree desertiche si svolgono sotto tende beduine e ricordano le tradizionali riunioni tribali. La televisione libica trasmette gli incontri dei congressi popolari di base dove si discute di tutto, a volte alla presenza dello stesso Gheddafi con cui la gente pare interloquire in maniera del tutto informale. Secondo i critici, è un sistema che serve a non fare niente, quasi un passatempo per una popolazione abituata a ricevere ricchi stipendi che assomigliano più a un sussidio di stato che a un salario per un lavoro effettivamente svolto. Del resto la Libia se lo può permettere; gli abitanti sono appena cinque milioni mentre sono ingenti gli introiti derivanti dall’esportazione di gas e petrolio. Anche i più scettici riconoscono che, da quando Gheddafinel 1969 ha detronizzato il vecchio re Idris, in Libia non esistono più i poveri, l’analfabetismo è stato quasi del tutto sconfitto e l’aspettativa di vita ha raggiunto i 74 anni, fra le più alte di tutto il continente africano. Da quasi un anno sono state risolte le tensioni con gli Stati Uniti in cui il regime aveva coinvolto il paese per motivi più ideologici che reali. È notizia di questi giorni che una delegazione del ministero degli esteri libico –il cui vero nome è comitato popolare per le comunicazioni estere e la cooperazione internazionale – ha compiuto una missione ufficiale a Washington incontrando funzionari dello staff di Condoleezza Rice; gli americani hanno promesso che entro l’anno la Rice andrà in visita ufficiale a Tripoli. I due paesi avevano ristabilito normali relazioni diplomatiche lo scorso giugno dopo che gli Stati Uniti avevano ritirato il loro ambasciatore a Tripoli nel lontano 1972. La Libia allora sosteneva l’Olp di Arafat – in quegli anni per Washington ciò significava schierarsi dalla parte del terrorismo – e aveva stretti legami economici e militari con l’Unione Sovietica, oltre a finanziare quasi tutti i movimenti di liberazione dell’Africa e dell’Asia. La crisi aveva raggiunto il suo apice nell’aprile 1986 con il bombardamento americano di Tripoli e Bengasi; Gheddafi si era miracolosamente salvato ma i morti erano stati oltre cento fra cui una figlia adottiva del leader. Motivo del raid aereo l’attentato a una discoteca di Berlino in cui era morto un militare americano; in seguito parve invece emergere la responsabilità della Siria o dell’Iran. Nell’occasione il governo italiano non aveva consentito agli aerei Usa di partire dalle basi della penisola, vietando anche il sorvolo e costringendo così i jet militari a partire dalla lontana Gran Bretagna. Per rappresaglia la Libia, utilizzando le informazioni dei satelliti spia sovietici, lanciò un missile Scud sulla base Loran, un centro di trasmissioni Nato a Lampedusa. Gli attacchi terroristici dell’11 settembre hanno rappresentato l’occasione per riprendere il dialogo. La Libia è un paese laico che ha sempre combattuto il fondamentalismo di matrice islamista; lo stesso Gheddafi è rimasto seriamente ferito in un attentato e nel 2001 si è subito schierato contro il terrorismo offrendo agli Usa collaborazione di intelligence. In seguito, pur senza ammettere apertamente alcuna colpa, Tripoli ha deciso di risarcire i parenti delle vittime dell’aereo Pan Am esploso in volo a Loockerbie nel 1988 per cui l’Onu l’aveva messa sotto embargo. Un deciso cambiamento di rotta che ha fatto scuola, tanto che è nata l’espressione “soluzione libica” oggi ventilata a proposito del contenzioso in corso tra Stati Uniti e Corea del nord. Pochi lo sanno ma Gheddafi è nato cittadino italiano. Infatti nel 1942, quando ha visto la luce in una tenda beduina nel deserto della Sirte, la Libia faceva ancora parte del nostro impero. La storia del nostro colonialismo italiano è stata rimossa dietro il luogo comune “italiani brava gente” eppure in Libia l’esercito italiano ha fatto uso del letale gas iprite contro i civili e deportato migliaia di uomini in Italia per sottoporli ai lavori forzati; è una storia poco nota, raccontata qualche anno fa da un lungo documentario della Bbc in cui lo storico italiano Alberto Rochat parla di vero e proprio genocidio.
Un'intervista al politologo Mansour el Khikhia, sempre pubblicata da EUROPA smentisce le false idee sul regime di Gheddafi dell'articolo di Barillari:
Gheddafi è un illusionista, anche le sue aperture al libero mercato non sono altro che una strategia per restare ancorato al potere». Al colonnello non concede neanche il beneficio del dubbio Mansour el Kikhia, preside della facoltà di scienze politiche dell’Università del Texas a San Antonio e autore del libro “La Libia di Gheddafi”. Venerdì il leader libico celebrerà il trentesimo anniversario della Jamahiriyah con un dibattito pubblico in cui sarà accompagnato dal politologo americano Benjamin Barber e dal teorico della Terza Via Anthony Giddens. Qual è lo scopo di un dibattito simile? La spiegazione logica sarebbe che il colonnello è pronto a cedere potere sufficiente a permettere alla democrazia di attecchire, ma non è così. E siccome non è così, che senso ha tenere una dibattito? Quindi lei non vede nessuna apertura del regime? Non c’è nessun cambiamento politico all’orizzonte. Il sistema si regge ancora sulla stessa elite, il governo è nelle mani di Gheddafi, che controlla i comitati popolari. La cornice non è cambiata, la strategia sì, ma c’era da aspettarselo. Fa parte della sua politica delle contraddizioni. Rimescola le carte, ma non cede di una virgola. Sa che un cambiamento radicale del sistema significherebbe, almeno in potenza, la sua esclusione dal potere. Tuttavia, almeno sul versante economico, c’è qualche novità. Il mese scorso è stata annunciata la privatizzazione di una parte della Banca centrale e presto verrà privatizzata anche la compagnia telefonica mobile nazionale. È inevitabile che ci sia qualche apertura al mercato globale, ma il punto è che, siccome il sistema non è cambiato, Gheddafi può tornare sui suoi passi in qualsiasi momento. Un conto è cambiare il sistema per permettere alla globalizzazione di assumere il suo ruolo, un altro è consentire al sistema delle sperimentazioni. Se questi esperimenti non gli piacciono, può interromperli in qualsiasi momento. Può rinazionalizzare le banche. L’anno scorso il premier Ghanem fu sostituito perché aveva cominciato a privatizzare... Ghanem fu fatto fuori perché la vecchia guardia, i comitati rivoluzionari, non voleva cedere neanche un po’ del suo potere, era una lotta tra il premier e loro. E Ghanem perse. Ma c’è un altro gruppo, di cui fa parte il figlio maggiore di Gheddafi, Seif. Seif sta cercando di guadagnarsi legittimità perché aspira a seguire le orme del padre. Sta premendo con questi cambiamenti perché vuole vedere fin dove può arrivare prima che l’opposizione lo fermi. Ma questo mutamento di strategia resta un’illusione. Magari alla fine ne verrà fuori qualcosa di buono per il cittadino libico medio, ma la struttura della società, che è una società chiusa, una dittatura, non cambia. Seif potrebbe essere un leader diverso dal padre? Dipende fino a che punto farà compromessi con la vecchia guardia. E da quando assumerà il potere, se mai lo farà, e in che tipo di ruolo. Bisognerà vedere se il padre sarà ancora vivo o no. Ci potrebbe essere una purga della vecchia guardia, ma Gheddafi deve stare molto attento perché nel processo potrebbe purgare se stesso. È un gioco di equilibri. Quello che il colonnello sta cercando di fare in questo momento è mettere in difficoltà la vecchia guardia provando a fare delle aperture e a coinvolgere i cittadini comuni che per oltre trent’anni sono stati oggetto della sua repressione. Tutto questo serve a controbilanciare la vecchia guardia che si oppone a qualsiasi tipo di riforma radicale. In un certo senso Gheddafi è in una posizione fantastica perché può dire: “io prova a cambiare, ma c’è qualcuno che me lo impedisce”. Cerca di tenersi buone tutte le fazioni, ma alla fine è solo un modo per conservare il potere per sé. Basta guardare al panorama dei media: è forse nato qualche giornale o qualche stazione radio indipendente dal governo? No. L’Occidente dovrebbe fidarsi di Seif e appoggiarlo nella speranza che possa farsi portatore del cambiamento in Libia? Sì e no. Seif non è stupido. Ha visto cosa è successo al paese in oltre trent’anni di governo Ghedda- fi, si rende conto della mancanza di infrastrutture, del basso livello di istruzione, della povertà strisciante. Ma non può opporsi al padre, perché il colonnello non glielo lascerebbe fare, potrebbe isolarlo in qualsiasi momento. Non so se è il caso di fidarsi. Il secondo figlio di Gheddafi, Saadi, che ha giocato a calcio in Italia, è pazzo, e nonostante questo ha firmato un contratto di 28 miliardi di dollari con una compagnia degli Emirati arabi per la costruzione di una città turistica. Ma con quale autorità l’ha fatto, non ha nessuna posizione ufficiale nel governo! Come lui gli altri figli del colonnello. Bisogna stare attenti a prendere sul serio tutto quello che succede in Libia. Gheddafi sta cercando nuove strade per allungare la vita al suo regime. Se questo significa liberalizzare il mercato della telefonia, che sia. Ma il controllo è sempre e soltanto nelle sue mani. È con lui che bisogna confrontarsi. È di pochi giorni fa la prima visita ufficiale dopo 25 anni di un funzionario libico a Washington. Come sono oggi le relazioni Usa-Libia? Sono rapporti fondati sulla convenienza. Gli Usa hanno bisogno del petrolio libico. L’Africa è diventata una fonte importantissima di petrolio per Washington, e un nodo cruciale della politica estera statunitense, come si vede dalla prossima costituzione di un comando unificato per l’Africa. Forse pensano di poter usare Gheddafi nella lotta ai fondamentalisti islamici nella regione, ma credo che mantenendolo al potere andranno incontro a problemi ancora più grandi non tanto in Libia quanto fuori. Gheddafiè infatti responsabile di molti dei conflitti che lacerano l’Africa, ha le mani in Ciad, aveva delle responsabilità in Liberia. E io non escludo che vedremo gli Stati Uniti confrontarsi con Gheddafi in Africa tra quattro o cinque anni. Recentemente la Libia ha deciso di richiedere il visto anche agli stranieri provenienti dai paesi dell’Unione del Maghreb. Lo fa per evitare l’inflitrazione di terroristi? La paura maggiore viene dall’Algeria, ma quello che più preoccupa e infastidisce Gheddafi è il problema del movimento secessionista berbero in Algeria che cerca di influenzare la minoranza berbera che in Libia costituisce appena il 3 per cento della popolazione ma è fortemente anti-regime. Ma lei non teme che Gheddafipossa essere rimpiazzato da un regime guidato da fondamentalisti islamici? No, Gheddafi li ha sterminati. Un paio di anni fa ne ha uccisi e imprigionati a migliaia, non è una preoccupazione per lui. C’è una strategia concordata tra Stati Uniti, Egitto e Libia per l’eliminazione delle cellule fondamentaliste e finora ha funzionato, più in Libia che in Egitto. Come vede la Libia tra dieci o vent’anni? Spero che diventi un paese migliore, ma il problema sono gli essere umani. I libici in questi trent’anni non sono stati abituati al confronto di idee, sono stati indottrinati. Come questo si rifletterà sullo sviluppo futuro del paese è tutto da vedere.