"Paranoia antisciita" a Washington e Ryad l'Iran, come noto, è invece un paese pacifico
Testata: Europa Data: 27 febbraio 2007 Pagina: 6 Autore: Siavush Randjabar Daemi Titolo: «La guerra fredda tra wahabiti e sciiti e le manovre degli Usa con i sauditi»
Basandosi sugli articoli del giornalista americano di estrema sinistra Seymour Hersh, noto per avere teorizzato la liceità di sostenere tesi non verificate sulla politica americana ( e israeliana) per favorire obiettivi politici (tesi che negli ultimi anni includevano quella, smentita dai processi, per cui le sevizie di Abu Ghraib sarebbe state inflitte per ordine di Rumsfeld) Siavush Randjabar Daemi sostiene su EUROPA del 27 febbraio che gli americani avrebbero di fatto concesso all'Arabia Saudita di appoggiare gruppi qaedisti in Iraq. E' importante riportare la precisa espressione usata da Daemi: "Hersh fa notare che, pur di fermare la diffusa ascesa sciita, Washington avrebbe di fatto dato il via libera". Il via libera "di fatto" di Washington è semplicemente un via libera che, per quanto se ne sa, non è mai stato scritto nè pronunciato.
Degna di nota è anche l'espressione "piscosi anti-sciita", riferita ai timori di Washington e Ryad per l'aggressiva politica iraniana. A Hersh viene riservato l'aggettivo "indomito". L' "avventurismo" di Nasrallah, leader di Hezbollah , finisce tra virgolette dubitative.
Quello di Daemi è insomma l'ennesimo articolo apologetico del regime degli ayatollah e del terrorismo che esso promuove.
Ecco il testo:
Mentre le grandi potenze stanno tentando di raggiungere un’intesa per affrontare l’ennesimo capitolo della saga nucleare iraniana, un confronto ben più aspro si sta già svolgendo in tutto il Medio Oriente. Da tempo è infatti in atto una vera e propria “guerra fredda” che vede anteposti i due rami principali dell’Islam. Il settarismo che ha caratterizzato il mondo musulmano sin dalla morte del quarto, ed ultimo, Califfo Legittimo, Ali, fa oggi da sfondo a una sfi- da senza quartiere tra l’Iran, portabandiera di un’interpretazione radicale dello sciismo, e l’Arabia Saudita, strenuo pilastro dell’ortodossia sunnita. I rapporti tra i due paesi cardine del Medio Oriente – che non sono mai stati particolarmente caldi – si sono deteriorati notevolmente in seguito alla vittoria della Rivoluzione islamica nel 1979. L’opposizione dogmatica dell’ayatollah Khomeini all’istituzione della monarchia in generale e le sue frequenti filippiche contro «l’estremismo wahabita» propugnato dalla casa reale saudita, convinsero Riyadh a elargire svariati miliardi di dollari a favore di Saddam Hussein e della sua guerra contro l’Iran. Le relazioni tra i due toccarono il fondo nel luglio del 1987, quando le forze dell’ordine saudite ebbero l’ordine di sparare su un corteo di pellegrini iraniani che aveva organizzato una manifestazione khomeinista alla Mecca. Almeno 275 di loro morirono nella seguente ressa. Resosi conto dell’impossibilità di contrastare apertamente l’Arabia Saudita, l’ex presidente Rafsanjani tentò, nel nome del pragmatismo che esibì nei suoi otto anni al potere, di riallacciare i rapporti con Riyadh. Il suo successore, il moderato Khatami, portò a termine l’opera con il raggiungimento di un patto per la «sicurezza reciproca» che fu a tutti gli effetti un patto di non aggressione. L’ascesa al potere della fazione capeggiata dall’imprevedibile Mahmoud Ahmadinejad e il mancato annientamento di Hezbollah da parte di Israele nella Guerra di Luglio dell’estate scorsa ha però nuovamente acceso la miccia tra i due antagonisti. Dopo aver stigmatizzato «l’avventurismo» di Hassan Nasrallah, i regnanti sauditi dovettero subire l’onta delle ormai famigerate immagini dei cortei al Cairo o ad Amman, dove l’effigie del segretario generale di Hezbollah veniva posta accanto a quella del mai tramontato padre del panarabismo, Gamal Abdel Nasser. L’ultimo reportage dell’indomito Seymour Hersh, apparso sulle pagine del New Yorker di questa settimana, parla chiaro. Da tempo l’amministrazione Bush si è di fatto allineata alla psicosi anti- sciita dei governanti di Riyadh. Oltre a raccogliere attorno a sé vecchi rivali come gli Hashemiti giordani o fedeli vassalli come gli emiri del Golfo Persico in una inedita alleanza dal stampo confessionale, Hersh afferma che Riyadh avrebbe aperto un canale del dialogo pure con Israele, in virtù della comune avversione al regime islamico di Teheran. Le iniziative saudite non sono però limitate al campo diplomatico. Secondo il rapporto emesso un paio di mesi fa dall’Iraq Study Group, gli insorti sunniti dell’Iraq, a cui vengono accreditate gran parte delle morti americane, riceverebbero ingenti aiuti fi- nanziari da fonti “private” saudite. Di pari passo con gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita nutre il sospetto che elementi dell’esercito iraniano si siano infiltrati da tempo nel paese vicino, allo scopo di dare man forte ai militanti sciiti iracheni. Hersh fa notare che, pur di fermare la diffusa ascesa sciita, Washington avrebbe di fatto dato il via libera al sostegno da parte di Riyadh, di movimenti di chiara ispirazione qaedista, animati dallo stesso odio antisciita degli ulema wahabiti. Questi gruppi si sarebbero insediati pure in Libano, allo scopo di limitare Hezbollah, unico tra i gruppi armati libanesi a non aver ancora smontato il proprio arsenale. Nonostante le cortesie diplomatiche ostentate dai due paesi, come testimoniato dalla recente ripresa dei contatti ai massimi livelli, l’obiettivo principale di Riyadh sarebbe quello di spezzare l’asse tra Teheran e Damasco. Secondo alcuni analisti iraniani, il consigliere per la sicurezza saudita, principe Bandar Bin Sultan, avrebbe offerto al suo omologo Ali Larijani l’ingresso di Hezbollah nel governo di Fuad Siniora – assai vicino alla casa Saud – in cambio dell’assenso alla creazione del Tribunale internazionale per l’omicidio di Rafik Hariri, ex primo ministro libanese nonché delfino prediletto dei regnanti sauditi. L’Iran si è mostrato però poco ricettivo all’idea di abbandonare la dinastia di fede alawita – derivante dallo sciismo – degli Assad e interrompere così la catena di approvvigionamento di cui gode il Partito di Dio libanese. La crescente rivalità tra i due ceppi musulmani si è manifestata pure nel summit islamico tenuto a Islamabad nel fine settimana, dove tra i paesi invitati non figuravano Iran, Siria ma alleati americani come i padroni di casa, l’Arabia Saudita, la Turchia e la Giordania. Sebbene la riunione avesse come tema principale all’ordine del giorno i vari problemi del Medio Oriente, l’assenza dei convitati di pietra non ha fatto che evidenziare il confronto tutto interno all’Ummah islamica tra il fronte trainato dall’Iran e i fragili regimi conservatori sunniti.
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