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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Amos Oz Non dire notte 26/02/2007

Pubblichiamo un articolo di Amos Oz intitolato “ Noi ebrei erranti senza papa”, pubblicato nell’inserto Tutto Libri de La Stampa di sabato 24 febbraio e preceduto da un’introduzione di Elena Loewnthal.

 

 

 

 

“L’opera di Oz ha una certa quale intimità con il misterioso, un certo contatto visivo con l’invisibile, se volete; riesce a dare un aspetto verosimile al surreale”, disse Arthur Miller in occasione di un incontro con lo scrittore israeliano. Quest’ultimo il tre marzo sarà a Pordenone per il festival che, giunto alla tredicesima edizione, la città, insieme all’associazione Thesis, “Dedica” quest’anno proprio a lui. Due settimane che prendono le mosse dall’incontro con l’autore, sabato 3 marzo alle 16.30, al teatro comunale. Non mancherà certo di rinnovarsi, in quell’occasione, quell’impagabile incontro fra verosimile e surreale, fra mistero e solarità, che si legge in filigrana in tutta l’opera di Amos Oz ed specchio fedele, compassionevole ma anche impietoso, della natura umana. E’ così anche nell’ultimo suo romanzo in uscita in Italia, “Non dire notte” (sempre per Feltrinelli), è così anche quella fantasiosa  divagazione sul mestiere di scrivere e quello d’inventare storie, che sta nel libro cui sta lavorando, ancora inedito in Israele ma già dotato di un titolo “forte”: “Rhyming Life and Death”.

 

 

E’ sempre così che lo scrittore incanta il suo pubblico: musicando la vita, e con essa la morte. Merito della sua arte ma fors’anche di quella tradizione ebraica aperta, flessibile, che egli delinea in questo saggio inedito in italiano e contenuto nel volume biografico preparato per il festival “Dedica”.

 

 

 

 

 

 

Amos Oz

 

 

 

 

“ Democrazia e tolleranza implicano umanesimo, umanesimo implica pluralismo – in altre parole il riconoscimento del diritto comune a tutti gli uomini ad essere diversi l’uno dall’altro. La diversità fra gli uomini non è un male passeggero, piuttosto una fonte di benedizione: siamo diversi l’uno dall’altro non perché alcuni fra noi ancora non vedono la luce, bensì perché al mondo di luci ce ne sono tante e non una sola; tante fedi e opinioni e non una fede e una opinione.

 

 

Gli ebrei non hanno un papa. Se facesse tanto di presentarsi un papa ebreo, ogni correligionario andrebbe a dargli una bella pacca sulla spalla, dicendogli: senti un po’, tu non mi conosci e io nemmeno conosco te, ma tuo nonno e mio zio in passato hanno fatto affari insieme, a Zithomir, o a Marrakesh….Perciò, dammi due minuti che ti spiego una volta per tutte che cosa esattamente vuole Dio da noi.

 

 

Certamente, si sono visti cialtroni d’ogni sorta e c’è stato chi li ha seguiti ad occhi chiusi. Ma lungo la sua storia il popolo d’Israele non ama ubbidire. Chiedete a Mosè, chiedete ai profeti. Dio stesso si lamenta continuamente del fatto che il popolo d’Israele non ubbidisce e invece discute su tutto; il popolo discute con Mosè. Mosè discute con Dio, gli presenta pure le dimissioni e alla fine le ritira – ma solo dopo una trattativa e solo dopo che Dio si è piegato ad accogliere la sostanza delle sue rivendicazioni (Esodo 32,33). Abramo contratta con il Signore a proposito di Sodomia come un commerciante di auto usate: cinquanta giusti, quaranta, trenta….E osa persino rinfacciare a Dio una colpa non da poco, “Il giudice di tutta la terra non giudica secondo giustizia” (Genesi 18, 25-32); peraltro non vediamo calare un fuoco dal cielo che divora all’istante il nostro patriarca, per queste sue parole così eretiche. Il popolo litiga con i profeti, i profeti litigano con Dio, i re litigano con il popolo e con i profeti, Giobbe protesta rivolto al cielo.Che per parte sua si rifiuta di confessare di aver fatto un torto a Giobbe e tuttavia gli elargisce dei risarcimenti personali. Anche nelle ultime generazioni ci sono stati molti uomini pii che hanno condotto Dio di fronte al giudizio della Torah.

 

 

La cultura di Israele ha un nucleo anarchico: non vogliamo disciplina. Non si ubbidisce tanto per: si esige giustizia.

 

 

Un asinaio o pastore di gregge qualunque su cui si posa lo spirito santo ha diritto di regnare sul popolo di Israele o di comporre i salmi. Un raccoglitore di sicomori una mattina si sveglia e comincia a profetare. Un qualunque pastore originario di Calba Shavua, un calzolaio, un fabbro, chiunque di loro ha potuto insegnare la Torah e commentarla e con ciò lasciare un’impronta indelebile sulla vita quotidiana di tutto il popolo d’Israele. Ciononostante – la domanda aleggia sempre, o quasi sempre: che ci fai tu qui?

 

 

Come facciamo a sapere che sei proprio tu, quello? Sei veramente forte nella Torah, ma chi ci dice che nella via qui dietro non abiti un altro capace di smontarti e arrivare a una conclusione opposta? Non di rado, infatti, “tanto queste quanto queste altre sono parole del Dio vivente”.

 

 

Quasi sempre la domanda di autorità si vede costretta ad affermarsi in virtù di un consenso parziale, non unanime. La storia culturale di Israele negli ultimi millenni è una catena di aspre divisioni, alcune spregevoli e turbolente, altre fertili. In generale non ci fu mai alcun meccanismo costrittivo di autorità ufficiale; per lo più Tizio era più illustro del suo collega perché ritenuto tale, punto e basta.

 

 

La cultura ebraica al suo meglio è sempre stata una cultura della mediazione, della trattativa, degli aspetti per un verso e per l’altro, di aspra forza di convincimento, di obiezioni “in nome del cielo”, di litigi per “accrescere e onorare la Torah”, nonché di possente impulsività camuffata da dotta diatriba. Questo fondamento spirituale bene s’innesta nell’idea di democrazia come polifonia – un coro di voci diverse accordate da un sistema di regole da rispettare. Tante luci, non una soltanto. Tante fedi e tante opinioni, non una sola.

 

 

In effetti, c’erano e ci sono nella cultura di Israele delle “enclaves” di obbedienza cieca. Che sono, a mio parere, una forma di devianza dalla tradizione, anche quando pretendono di essere il riscatto della tradizione. L’obbedienza cieca non può essere tradizionale. “Faremo e ascolteremo” (Esodo 24,7) significa: faremo a condizione di poter ascoltare.

 

 

Ormai da migliaia di anni non è più successa una cosa che tutti gli ebrei come un sol uomo fossero d’accordo a considerare un miracolo, un prodigio.

 

 

Immancabilmente si sono scettici e diffidenti e negatori. Davanti a quasi ogni autorità ne compare un’ altra opposta. Sono ben pochi quelli che i contemporanei e coloro che sono venuti dopo hanno considerato autorevoli senza ricorsi.Alla fin fine, “la fonte dell’autorità” nella cultura d’Israele è la disponibilità del popolo – o di parte di esso – ad accettare quel maestro, quel giureconsulto, quel sant’uomo che ha dato prova di miracoli, o quella guida spirituale, come autorevole.

 

 

La gerarchia volontaria. In questo senso, la cultura ebraica ha un carattere democratico profondo e inequivocabile.

 

 

Userò qui la definizione che ho imparato da mia figlia Fania, il professor Fania Oz Salzberger dell’università di Haifa: “La democrazia liberale è l’organizzazione di una società o uno stato, il cui scopo dichiarato è stabilire un ordine logico fra i desideri dei singoli appartenenti, preservandone la libertà. Il sistema media così fra le volontà singole attraverso l’indicazione e la decisione della maggioranza”.

 

 

Aggiungerei: e la preservazione dei diritti della minoranza con un sistema di compromessi. Scrive ancora il dottor Fania Oz Salzberger che la seconda istanza nella discussione fra democratici è: “La libertà politica è sostanzialmente negativa – vivi e lascia vivere – o positiva: vivi nel modo giusto per essere libero veramente?”

 

 

Da mia figlia ho anche appreso che i democratici dichiarati dell’inizio dell’era moderna erano proprio  gli estremisti religiosi, gli ugonotti in Francia e i levellers in Gran Bretagna, che lottarono contro i tentativi del governo di costringerli ad accettare la religione della maggioranza”.

 

 

(Trad, Elena Loewenthal)

 

 


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