Dopo la Shoah, gli ebrei devono difendersi una lettera di Albert Einstein sulla nascita di Israele
Testata: Il Giornale Data: 20 febbraio 2007 Pagina: 28 Autore: Emanula Scarpellini - Albert Einstein Titolo: «EINSTEIN «Oggi un ebreo non può essere pacifista» - Caro signor Reves, quando si è minacciati»
Pacifista, ostile al nazionalismo e sostenitore di un governo mondiale, dopo la Shoah Albert Einstein riconobbe le buone ragioni del sionismo e la necessità di uno Stato degli Ebrei.
Dal GIORNALE del 20 febbraio 2007, un interessante articolo di Emanula Scarpellini:
Che cosa giustifica il primato di Albert Einstein, ritenuto dagli scienziati il primo fra i dieci maggiori studiosi del secondo millennio, davanti a Newton? Sicuramente il suo straordinario lavoro scientifico. La sua teoria della relatività ha spiegato che lo spazio e il tempo non sono immutabili; la celebre equazione e=mc2 ha chiarito il rapporto che lega energia e massa. Ma Einstein è stato anche un’importante figura pubblica; in numerose interviste e appelli ha svolto un ruolo «politico» di primissimo piano e ha fatto riflettere sul ruolo della scienza nella società odierna e sulle responsabilità degli scienziati. Il professore di Ulm aveva vissuto questi problemi sulla propria pelle. Fuggito negli Stati Uniti per la persecuzione antisemita nella Germania nazista, Einstein si confrontò drammaticamente con il precipitare degli avvenimenti internazionali, fino a prendere la decisione di scrivere una famosa lettera al presidente americano Roosevelt nell’agosto 1939, invitandolo a sviluppare un armamento atomico prima che lo facessero i nazisti. Come si sa, Roosevelt prese in parola lo scienziato e, dopo una breve inchiesta, creò il progetto Manhattan, guidato da Robert Oppenheimer, che avrebbe realizzato di lì a poco la bomba atomica. Quando la bomba fu effettivamente lanciata a Hiroshima, Einstein rimase però profondamente turbato, sentendo il peso della responsabilità morale. Iniziò quindi un forte impegno a favore del disarmo e della pace mondiale, rilasciando interviste e dichiarazioni a radio e giornali. Una mano in questo senso gli venne da un vecchio amico, il giornalista di origine ungherese Emery Reves, anch’egli un ebreo espatriato negli Usa. Editore e scrittore, Reves aveva messo in piedi un’efficientissima agenzia giornalistica internazionale. La sua fama è dovuta a un libro pubblicato nel 1945, Anatomia della pace, dove sostiene che tutti i disastri e le guerre storicamente hanno avuto un’unica causa: l’inevitabile conflittualità fra gli stati-nazione. E se questa situazione aveva drammaticamente segnato il passato, ora, con la disponibilità di armi distruttive come quelle atomiche, poteva portare alla distruzione dell’umanità. Era quindi necessaria una soluzione radicale: l’unificazione politica mondiale guidata da un’agenzia super partes, un ente dotato di grande potere e grande prestigio che gradualmente assumesse il carattere di governo federale mondiale (qualcosa di ben diverso, dunque, dall’organizzazione delle Nazioni Unite che si stava profilando). Era certo un disegno utopico; ma nel clima del dopoguerra sembrò a molti una via d’uscita praticabile. Reves nell’agosto del ’45 mandò una copia del suo libro a Einstein che ne fu entusiasta e si offrì di sottoscrivere una lettera aperta agli americani per sostenere la creazione della nuova organizzazione. Non solo. Lo scienziato iniziò un’attiva opera di propaganda; scrisse a Oppenheimer per sensibilizzarlo sul problema e rilasciò varie interviste in cui raccomandò apertamente il libro di Reves perché «intelligente, chiaro, breve, e, se posso usare un termine abusato, dinamico riguardo al tema della guerra e della necessità di un governo mondiale» (Atlantic Monthly, novembre 1945). Dopo le dichiarazioni di Einstein, il libro divenne un best seller. Ampi stralci furono pubblicati dal diffusissimo Reader’s digest e venne tradotto in 25 lingue. Ma nel volgere di pochissimo tempo l’atmosfera mutò e anche il sostegno di Einstein alle tesi di Reves si fece blando. La spiegazione data finora è che il mutare della scena internazionale suggerì un maggiore realismo: le aspirazioni nazionali riprendevano vigore e, dopo il momento di affratellamento seguito alle sofferenze della guerra, si profilavano le avvisaglie della guerra fredda. Lo scienziato, dunque, non aveva fatto altro che prendere atto di questa evoluzione. Ma ora dall’Archivio Albert Einstein, che ha sede presso la biblioteca dell’Università ebraica di Gerusalemme, emergono documenti inediti che gettano una luce particolare sulla vicenda e mostrano un risvolto del tutto personale. Un solo altro evento aveva turbato Einstein quanto lo scoppio della bomba atomica: lo sterminio degli ebrei in Europa. Le rivelazioni sull’entità dell’Olocausto avevano scosso lo scienziato che aveva moltiplicato il suo sostegno non soltanto ai singoli ebrei espatriati, ma anche alla costituzione di uno Stato d’Israele. Tuttavia l’ipotesi di un federalismo mondiale che superasse le sovranità nazionali andava logicamente nella direzione opposta rispetto alla creazione di un nuovo stato. Reves nel suo libro era stato esplicito e aveva condannato il nazionalismo ebraico: anch’esso mirava alla creazione di uno stato-nazione e quindi tradiva l’ideale universalistico che era alla base della religione ebraica. Sollecitato in proposito da un conoscente, Einstein sostenne invece che il nazionalismo ebraico era diverso dagli altri, perché non nasceva da motivazioni politiche ma per «difesa». La contraddizione era tuttavia evidente. Come mettere insieme il sostegno alla creazione di uno Stato d’Israele, patria e protezione degli ebrei perseguitati in tutto il mondo, e il federalismo mondiale sostenuto dall’amico Reves? La risposta a questo dilemma è in una lettera che Einstein scrisse a Reves nel gennaio ’46. Lo scienziato è consapevole della contraddizione. Per una volta, lascia da parte la logica e risponde in termini storici e umani. Scrive dunque a Reves (ricorrendo significativamente alla lingua materna tedesca) che non è giusto considerare il sionismo una forma di nazionalismo, proprio nel momento storico in cui è stato perpetrato lo sterminio degli ebrei: «Quando uno è minacciato in questo modo, come lo siamo noi, allora deve fare del suo meglio per mettersi in una posizione di difesa fisica e morale». Prosegue dicendo che non vuole entrare in discussione con il fine schermidore che ha di fronte; si limita a chiedergli di comprendere le ragioni profonde del suo atteggiamento, invitandolo a non rispondere. Le parole della ragione non possono competere con quelle del cuore. Reves capisce, anche se non è d’accordo, e rinuncia a ribadire le sue ragioni, riponendo la sua «spada» polemica. Lo scambio di lettere, oltre a raffreddare i rapporti tra i due vecchi amici, segna l’inizio di un atteggiamento più cauto di Einstein verso le tesi del governo mondiale, anche se il suo impegno a favore del pacifismo rimase immutato. Come immutata restò la sua presenza sulla scena pubblica e il sostegno, anche critico, al nuovo Stato d’Israele (del quale rifiutò la presidenza). Il suo attivismo gli avrebbe però causato non poche amarezze, a cominciare dal maccartismo e dalle indagini del Fbi. E alla fine allo scienziato non sarebbe rimasto che constatare: «Le equazioni sono più importanti per me, perché la politica è per il presente, mentre un’equazione è qualcosa per l’eternità».
Il GIORNALE pubblica anche la lettera di Einstein a Reves:
Lettera di Albert Einstein a Emery Reves 2 gennaio 1946 Caro signor Reves, ho qui davanti a me un ottimo schermidore, e la sua posizione è l’unica del tutto ragionevole. Credo che il nazionalismo sia sempre una pessima cosa, anche quando imperversa fra noi ebrei. Quello che però secondo me è ingiusto, è che lei bolli il sionismo semplicemente come nazionalismo, e questo in un’epoca in cui la maggioranza degli ebrei europei è stata trucidata. Forse il suo giudizio sarebbe stato diverso se si fosse trattato degli armeni anziché degli ebrei. Quando uno è minacciato in questo modo, come lo siamo noi, allora deve fare del suo meglio per mettersi in una posizione di difesa fisica e morale, anche se è ancora pienamente pervaso dall’Ideale dei nostri antichi profeti. Lei sa cosa come è andata al nostro fratello cosmopolita Theodor Herzl (anch’egli un giornalista di Budapest) durante il processo Dreyfus a Parigi, allorché stava imponendo la sua missione? Egli non si trasformò per questo in un nazionalista. Ma vide chiaramente il pericolo fisico e morale per noi e agì di conseguenza. Quando una persona, oltre all’aspirazione alle mete più alte, dimentica il dovere della solidarietà verso i suoi fratelli perseguitati e in pericolo, allora assomiglia a uno che lascia morire di fame la sua famiglia per non pregiudicare la sua attività di artista o di uomo d’affari. Legga questa con calma ed è meglio che non mi risponda, perché l’arte della scherma non rovini ogni cosa. Con i migliori saluti Suo Albert Einstein (Pubblicata su licenza dell’archivio Albert Einstein, Università ebraica di Gerusalemme)
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