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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
18.02.2007 Amos Oz è pronto ad un'altra guerra per salvare Israele
l'intervista di Paolo Lepri

Testata: Corriere della Sera
Data: 18 febbraio 2007
Pagina: 1
Autore: Paolo Lepri
Titolo: «Amos Oz: pronto a un'altra guerra per salvare Israele»

Sul CORRIERE della SERA di oggi, a pag.1-17, l'intervista di Paolo Lepri ad Amos Oz.

TEL AVIV — Oz in ebraico vuol dire «forza». La forza di un uomo che molti anni fa ha deciso di scegliere questo nome — in un kibbutz dove guidava il trattore e faceva il cameriere un giorno alla settimana — e che oggi parla a voce bassa, stanco di molte parole, continuando a scrivere romanzi che invece urlano la loro bellezza. Parla a voce bassa, si muove con attenzione. Le rughe fitte e sottili ai lati degli occhi azzurri (come lui stesso descrive l'ex agente del Mossad protagonista di Conoscere una donna) «fanno pensare a un sorriso ironico, leggero e continuo, anche se le labbra fini non esprimono nessun sorriso».
Ma proprio da lui può venire un po' di forza per continuare a credere. Per non abituarsi a perdere tutte le cause, in questo estenuante e famelico Dopostoria che stiamo vivendo. Sono stati anni di febbrili attentati suicidi, per compiere i quali ci si è addirittura travestiti, come in un carnevale all'inferno, indossando l'abito del nemico. Sono stati anni segnati dalla crescita infame dell'odio, dallo spargersi del fanatismo religioso e dei bacilli epidemici della guerra civile. Mi chiedo se Amos Oz, sionista liberale, continui a pensare che quello tra israeliani e palestinesi sia un conflitto tra «ragione e ragione».
Nel salotto del suo appartamento di Tel Aviv risponde guardando davanti a sé e strizzando gli occhi, come se stesse misurando l'orizzonte: «Forse sarebbe meglio parlare, adesso, di uno scontro tra torto e torto». «Ma oggi non è tanto importante stabilire i torti e le ragioni. Nel reparto del pronto soccorso dell'ospedale, i medici non si chiedono di chi sia stata la colpa ma decidono quello che c'è da fare. Dobbiamo dividere questa terra: né noi né loro abbiamo un altro posto dove andare». Migliaia di uomini e donne come i genitori di Amos, Yehuda Arieh Klausner e Fania (il cui suicidio verrà raccontato in Una storia di amore e di tenebra), arrivati a Gerusalemme negli anni trenta dall'Europa orientale, questo posto lo hanno trovato, tra sofferenze, umiliazioni, eroismi. In una delle sale del museo dell'Olocausto, lo Yad Vashem, si ricorda di quando alla fine degli anni trenta, mentre il nazismo scatenava la sua follia, «il mondo sembrava diviso in due parti: i luoghi in cui gli ebrei non potevano vivere e quelli in cui non potevano entrare».
Amos Oz crede fermamente nella soluzione dei due Stati, due Stati chiusi nei confini precedenti alla guerra del 1967. Sa meglio di chiunque altro che la nuova Palestina potrebbe diventare una realtà molto lontana dalle speranze di chi, nella sinistra, in Europa, ha sostenuto per anni la causa nazionale di questo popolo senza patria. «Sì. È una questione aperta. Ma anche se quello palestinese diventerà un Paese terribile, non esiste un'alternativa. Dipende dall'America, dall'Europa, da Israele e dal mondo arabo. Nessuno vuole che i palestinesi diventino un satellite dell' Iran. Dobbiamo aiutarli, i profughi devono avere lavoro e case. Possono tornare, ma non qui da noi». E i sentimenti personali vanno dimenticati: non sono parte della soluzione. Ma se gli si chiede, con insistenza, di ricordare questo percorso amaro di disillusioni e di tradimenti, ammette di provare «rabbia e frustrazione». «La storia dei palestinesi — dice senza cambiare tono della voce, dopo essere andato a spengere il lettore di cd — è la storia di una tragedia dopo l'altra. Una delle tante tragedie, per esempio, è stata quella di aver rifiutato qualsiasi accordo per non prendere posizioni senza compromessi. Ma, alla fine, i due Stati nasceranno. I leader non sono pronti, ma la gente sì. E' un'operazione chirurgica della quale i dottori hanno paura ma che il paziente è disposto ad affrontare».
In quel kibbutz a sud della strada per Gerusalemme, dove nel 1986 Oz ha scritto
Michael mio di notte, nel bagno, c'era anche Lily, sua moglie. La loro casa oggi è ad Arad, nel deserto del Neghev, dove si sono trasferiti nel 1986. A Tel Aviv vengono ogni fine settimana per stare vicino ai nipotini. Lily si unisce alla conversazione e si offre di sbucciare uno strano frutto che sembra un gonfio pallone da rugby giallastro, il pomelo. E' come un pompelmo, ma più grande, più asciutto, più dolce. Asciutto e dolce come questa donna serena che si muove silenziosa con le sue scarpe di corda. In Israele, spiega, è il momento di questi incroci, degli esperimenti da laboratorio nel campo della frutta e della verdura. «Sono come i matrimoni, a volte riescono bene», dico io. Lily sorride e guarda il marito.
Per i mariti, gli altri mariti, non è invece un momento felice in Israele. Il presidente Moshe Katsav si è autosospeso dopo essere stato accusato di stupro. «Prima o poi — osserva — andrà in galera. Non potrà impedirlo». L'ex ministro della giustizia Haim Ramon è stato condannato per aver estorto un bacio ad una soldatessa. «Questo carnevale nazionale può trasformare Israele finalmente in un Paese normale» . Ma non c'è nessuna ombra di divertimento nelle sue parole: evidentemente il sogno di tutti i riformisti, italiani compresi, è diventata ormai la normalità. Guardando alla situazione politica — quella politica che sembra dominare, come una ossessione logorroica, la vita di ogni israeliano — Oz ritiene che il primo ministro Ehud Olmert, fondatore con Ariel Sharon del partito di centro Kadima, rimarrà al suo posto, nonostante la brusca perdita di popolarità. «Nessuno, né da una parte né dall'altra, vuole nuove elezioni». Lo interessa, più del premier, il ministro degli Esteri Tzipi Livni, una donna forte, dalla voce sonora e profonda. «E' intelligente, coraggiosa».
Siamo all'ultimo piano di un grande palazzo bianco nel quartiere residenziale di Neveh Avivim. Tanti libri alle pareti, tra gli scaffali un piccolo acquario di pesci colorati. La vista è lunga, in questa splendida mattina di febbraio: a sinistra un pezzo di mare, di fronte a noi si intuisce il nord del Paese. Quest'uomo che mi indica il panorama ha sempre lottato per la pace, ma è disposto a «combattere un'altra guerra», dopo quella del 1967 e quella del Kippur, se dovesse essere necessario difendere la libertà del suo Stato (come mi ha detto, peraltro, anche un altro scrittore, Meir Shalev). Sarà per questo, sarà perché non è vero che a Tel Aviv «c'è qualcosa nell'aria che cancella i ricordi» (come scrive Rico a Dita in una pagina di Lo stesso mare), ma sembra quasi che dalla finestra di Amos Oz si vedano anche quelle colline ai confini del Libano dove nuovo sangue è stato versato la scorsa estate, dove un'altra guerra si è aggiunta ai calcoli tristi dell'ultimo mezzo secolo. Sembra di vedere la curva nascosta da una vegetazione fittissima, non lontano dal villaggio fantasma di Zar'it, dove con una spietata imboscata gli Hezbollah hanno sequestrato il 12 luglio i due soldati israeliani Udi Goldwasser e Eldad Regev. «Non sappiamo niente di loro, perfino le organizzazioni umanitarie internazionali non hanno potuto fare il loro lavoro: un comportamento barbaro, in totale spregio delle leggi internazionali», dice il vice ministro della difesa Ephraim Sneh, laburista, figlio di Moshe Sneh, il leader negli anni sessanta del partito comunista israeliano. Al di là del confine, oggi, un blindato bianco dell'Unifil, la forza di pace dell'Onu che tenta di impedire altre infiltrazioni, altre violenze. Sulla strada, ogni tanto, la corsa rapida di qualche sciacallo.
Nella luce di questa casa è difficile scoprire tutti i segreti di Oz: troppa vita, troppi dolori, troppi ricordi. E' un' energia cristallina, guardinga — più che una vera e propria «forza» — quella che gli ha permesso di terminare da poco il suo ultimo libro, iniziato nel 2004, finalmente pronto per arrivare nelle case dei lettori israeliani. E uno dei prossimi anni, con un po' di ritardo, per lui arriverà il premio Nobel. «In inglese — racconta — questo romanzo si intitolerà Rhyming Life and Death. Il protagonista è uno scrittore che va ad incontrare il suo pubblico a Tel Aviv e la vicenda si svolge nell'arco di otto ore». Lui non lo dice, ma sappiamo che questo scrittore vagabonderà nella città per immaginare e inventare le vite delle persone che incontra. Mi faccio suggestionare. Decido di camminare anch'io per un po', di perdermi nelle strade tranquille di Neveh Avivim. «E' bello smarrire la strada», dice Albert in Lo stesso mare. Un giovane ortodosso, con il suo soprabito nero e il suo cappellone nero, appare all'improvviso e sembra un marziano triste in questo quartiere a metà tra Stoccarda e Dubai. Ecco via Hans Christian Andersen. Poi via Pasternak, l'uomo che ha scritto, in una lingua che qui molti capiscono, «... quando ama un poeta,\è un Dio smanioso che si innamora.\E il caos di nuovo sbuca alla luce \come nei tempi dei fossili».
E' il momento di tornare a Gerusalemme, la città che, come dice Oz, «è drogata dal proprio passato». Uno dei suoi libri più forti, La scatola nera, si intitola così perché nelle lettere dei personaggi — un intellettuale emigrato negli Stati Uniti, l'ex moglie sposata con un ortodosso, il figlio ripudiato dal padre — si capiscono tutte le ragioni della loro personale catastrofe. Anche i curatori dello Yad Vashem hanno usato questa immagine, disseminando le sale del museo di scatole nere che contengono la foto e i dettagli personali dei nazisti che hanno diretto, gestito, amministrato — come implacabili burocrati del Male — lo sterminio di sei milioni di ebrei. Senza di loro l'Olocausto non ci sarebbe stato. Ma per lo Yad Vashem questi uomini non devono apparire mostri: piuttosto persone responsabili di cose mostruose che chiunque un giorno potrebbe ripetere. Poco lontano, il cimitero militare del monte Herzl. Tra tante tombe di soldati, quella di Uri, vent'anni, ucciso in Libano nell'agosto scorso, il «figlio e l'amico» di un altro grande scrittore, David Grossman. Mi fermo a lungo davanti alla lapide di pietra, nel silenzio totale del venerdì pomeriggio, poche ore prima dell'inizio dello Shabbat. Accanto alla lapide, molti sassi e una piccola scatola di plastica trasparente con il sigillo di stoffa dell'unità dell'esercito e una tessera usata dell'autobus. Sono solo, non sono mai stato così solo, davanti a questo Gramsci giovane con i capelli cortissimi, rossi come un fuoco leggero. Ma se davanti al cippo del suo fratello maggiore, tra Testaccio e la Piramide, sentivo solo i passi volanti di chi era con me, e a cui cercavo la mano, qui — mentre sulla collina sopra di noi Yitzhak Rabin non aspetta più il suo assassino — ho dietro le spalle i passi incerti di un popolo intero.
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