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La Repubblica Rassegna Stampa
17.02.2007 Cambio di regime in Iran, possibile se la minaccia di attacco è reale
inchiesta di Bernard Guetta

Testata: La Repubblica
Data: 17 febbraio 2007
Pagina: 1
Autore: Bernard Guetta
Titolo: «A Teheran che teme le bombe»

Non vogliono la guerra, e la Guida sa bene che se ci si arrivasse, il regime dovrebbe scegliere tra due alternative: arrendersi, o affrontare un vero conflitto senza averne i mezzi».

Abbiamo scelto questa frase dall'articolo che segue, di Bernard Guetta, pubblicato su REPUBBLICA di oggi, 17/02/2007, a pag.1-21, dal titolo: " A Teheran che teme le bombe". Appunto, le bombe. Solo se l'Iran, e con lui Ahmadinejad, capisce bene che un attacco è possibile, allora potrà esserci un cambio di regime e quindi di politica. Non sono i tavoli della pace a far cambiare opinione ai dittatori, ma una buona manicure, possibilemente di tipo radicale. Gheddafi insegna. Ecco l'articolo:

PERCHÉ scendere dall´aereo? Dopo cinque ore di volo, al momento di atterrare a Teheran, l´inchiesta era bell´e fatta. La cabina business al completo, affollata di uomini d´affari iraniani coi loro bagagli di marca non lasciava dubbi sulla consistenza dei patrimoni in questo paese, la prosperità della sua borghesia, la profondità dei suoi legami con l´Occidente. L´eleganza italiana, la civetteria delle donne dalle scollature ben modellate e dai sorrisi assassini tradiva tutto ciò che si nasconde sotto i veli estratti dalle borse al momento dell´atterraggio, in un improvviso silenzio.
C´era poi quel giovane internauta, che ancor prima del decollo aveva avviato la conversazione, inesauribile sui meriti dell´America, il «marxismo» dell´Europa e la vergogna che provava per non essere andato a votare alle presidenziali. «La mia generazione non crede più nella politica», aveva detto, «ma è stato il nostro astensionismo a far eleggere Ahmadinejad».
A lei non piace?
Mi ha risposto andando direttamente al nodo della questione: «Crede che gli americani ci attaccheranno? Che Teheran sarà evacuata?». Allarmatissimo per le provocazioni del suo presidente, di cui detesta l´integralismo, ha però aggiunto senza riprender fiato: «Sono d´accordo con lui solo su un punto: sul nucleare non dobbiamo cedere». Loquace, frivolo, continuamente occupato a spogliare le hostess con lo sguardo, si è fatto grave all´improvviso quando ha spiegato che «da qui a quindici anni» l´Iran non avrà più petrolio, e che senza energia nucleare gli iraniani «tornerebbero ad essere schiavi agli ordini delle grandi potenze».S´era già detto tutto. Sotto la cappa del regime islamico, l´Iran è altrove, da qualche parte tra l´American dream e la voglia di emergere in fretta, come la Cina o l´India. Questa Repubblica islamica sta vomitando la sua teocrazia, la sua corruzione e le sue ipocrisie puritane, ma l´Iran, tutto l´Iran, è cementato da un desiderio di affermazione nazionale, da un´indomita volontà di non ricadere mai più sotto il dominio di quegli stranieri, arabi, russi, inglesi, americani, che per tanto tempo ne avevano fatto una terra di conquista o un giocattolo strategico.
In cinque ore s´era detto tutto di questo paese le cui ambizioni nucleari fanno tanta paura al mondo, e su cui plana ormai l´ombra dei bombardieri americani. Rimaneva però da scoprire una cosa di grande importanza. L´Iran è oggi un campo di battaglia politico. Il suo presidente, contestato all´interno stesso del regime, è indebolito e in declino, minacciato di un´emarginazione che potrebbe cambiare tutto il panorama iraniano.
C´è in Iran una vita politica. «Non è una novità. E´ sempre stata vivace - mi dice un professore universitario - ma sta diventando particolarmente intensa perché l´esaltazione rivoluzionaria si è oramai esaurita. Sono passati quasi trent´anni dalla caduta dello Scià, e come tutte le rivoluzioni, anche la nostra esita tra due vie: il ritorno alle origini, la normalizzazione e l´inserimento nel mondo reale, o una rivoluzione culturale alla Mao, che sarebbe il sogno di Ahmadinejad».
Pragmatismo e teiera di porcellana, pasticcini e cortesia d´altri tempi: tutto in lui è britannico, ma chi mi parla è un nazionalista. All´inizio, come tanti intellettuali iraniani, si era identificato con la rivoluzione, un momento d´orgoglio ritrovato, di unità nazionale contro un palazzo legato a doppio filo agli interessi degli Stati Uniti e delle compagnie petrolifere. La confisca della rivoluzione da parte dei mullah lo ha risospinto all´opposizione, ma «una rivoluzione non può perpetuarsi». «Lo sanno tutte le nostre forze politiche - prosegue - tranne i sostenitori di Ahmadinejad. Tutti oggi vorrebbero trovare un terreno d´intesa con gli Stati Uniti, dato che è questa la condizione del nostro decollo economico e sociale; ma il fatto è che chi sogna una rivoluzione ha bisogno di una crisi e di un nemico per perpetuare il suo potere».
C´è una vita politica in Iran. Quando Mahmud Ahmadinejad incita a «cancellare Israele dalla carta geografica» e nega l´Olocausto, questo sciita vuole farsi campione dell´islam e sedurre le popolazioni dei paesi sunniti per destabilizzare i loro regimi e rilanciare in tutto il Medio Oriente la rivoluzione islamista, della quale l´Iran fu la culla. Quando va fino in Venezuela a corteggiare Hugo Chavez, vuole fare della Repubblica islamica la locomotiva di un nuovo fronte antiamericano, cavalcando l´ostilità suscitata da George W. Bush. E quando sfida tutte le grandi potenze con la sua intransigenza sul programma nucleare iraniano, spera di compattare l´Iran al suo seguito. L´uomo che ha lasciato di stucco i ministri degli esteri europei dichiarando, nel settembre 2005, tre mesi dopo essere stato eletto, che occorreva «assolutamente augurarsi il caos, perché dopo il caos ci sarà Dio» non è solo un esaltato. E´ innanzitutto un cinico, ma i suoi calcoli oggi si rivoltano contro di lui, sia tra la popolazione che in seno al regime.
Nel bar - torrefazione al centro della città il cameriere porta i capelli lunghi legati da una fascia sulla nuca. Gli avventori, uomini e donne, hanno un´aria meno islamica possibile, e persino i veli, leggerissimi e sciolti, sembrano portati più che altro per sedurre. A parte l´assenza di alcool, si potrebbe pensare di trovarsi ad Amsterdam o a San Francisco. Un giovane ingegnere sulla quarantina mi chiede: «Voi, in Europa, credete che gli americani ci bombarderanno? - A questo punto non è impossibile. - «E´ probabile», mi risponde. «Ahmadinejad ha allarmato i regimi sunniti a un punto tale che ormai sono loro a spingere Bush contro di noi; e dato che l´America ha bisogno di loro in Iraq. . - E allora? - «Ricordiamoci dei colonnelli greci dopo Cipro, o dei generali argentini dopo le Malvine. Credevano che il riflesso nazionalista avrebbe consolidato le loro dittature, e invece la sconfitta li ha spazzati via. E´ quello che capiterà a questo regime, se Ahmadinejad continuerà a provocare l´America». Non lo ha detto, ma si percepiva chiaramente che per lui un´operazione americana avrebbe potuto essere il temporale che ci voleva. Un sentimento diffuso? Sicuramente no. Nessuno desidera veder bombardare il proprio paese. Ma quel paragone con l´Argentina e la Grecia, che ricorre spesso negli ambienti intellettuali, riflette un clima.
In questi ultimi dieci anni e fino a ieri, la teocrazia era strutturata in tre correnti violentemente contrapposte: gli integralisti, i riformatori e i conservatori moderati. Dall´autunno scorso riformatori e conservatori moderati si sono ravvicinati per fare fronte comune contro gli integralisti. In dicembre hanno sconfitto insieme i sostenitori di Ahmadinejad non solo alle elezioni locali, ma soprattutto nella designazione da parte del clero dell´Assemblea degli esperti. Quest´assemblea è la più alta istanza delle istituzioni religiose, cioè dell´apparato clericale che sovrasta lo stato e i suoi eletti, come faceva l´apparato del partito nei regimi comunisti. Quel voto ha segnato un momento di svolta; da allora tutto è cambiato. Le cime nevose incombono ancora su Teheran. Non c´è disgelo in Iran, ma la popolazione osserva gli integralisti passare alla difensiva. Accade ormai a giorni alterni che un deputato o un grande giornale se la prenda con Ahmadinejad, indebolito anche dall´inflazione galoppante che vanifica le promesse di giustizia sociale che avevano sedotto gli elettori più poveri.
Contro di lui, la fronda si fa sempre più ardimentosa. E quel che è peggio per un integralista del suo stampo, ormai la Guida suprema, Ali Khamenei, chiave di volta del potere religioso, manda a dire di essere «scontento del presidente» - di un uomo che gli si è sottratto dopo aver avuto il suo sostegno per sbarrare la strada ai conservatori e ai moderati. «Osservate bene ciò che accadrà nelle prossime settimane. E´ ormai in atto un colpo di stato silenzioso», ha detto ultimamente un alto responsabile iraniano a un capo di Stato sunnita che deplorava le provocazioni di Mahmud Ahmadinejad. Quella frase ha fatto il giro delle grandi capitali. E in un´intervista a Repubblica martedì scorso, ripresa da quattro quotidiani iraniani, il consigliere diplomatico della Guida ha smentito il presidente punto per punto.
Sospendere le operazioni di arricchimento dell´uranio? Non è più un tabù. Cancellare Israele dalla carta geografica? Non è la posizione della Guida. E dunque non è quella dell´Iran. Il genocidio degli ebrei? «Sì», è una realtà storica. «La Guida è un saggio, confidano i suoi più vicini collaboratori. - Vuole proteggere il paese. Da che cosa? - Dalle tensioni e dalle minacce», rispondono, con la dolcezza enigmatica dei mullah di corte. Intendono dire dalle tensioni sociali, dalle divisioni del regime e dal rimbombo degli stivali americani - cioè da tutto ciò che Ahmadinejad ha suscitato. Ma tutto questo significa che l´Iran è alla vigilia di una vera svolta?
«Non si tratta di chiedersi se ci sarà, ma quando, e quale sarà la sua portata, risponde un altro universitario, che da giovane aveva fatto la rivoluzione. Il potere, soggiunge, ha occhi per vedere e orecchie per sentire: non vuole più la fuga in avanti di Ahmadinejad, perché gli iraniani aspirano a vivere, a viaggiare, a guadagnare denaro. Non vogliono la guerra, e la Guida sa bene che se ci si arrivasse, il regime dovrebbe scegliere tra due alternative: arrendersi, o affrontare un vero conflitto senza averne i mezzi». Si sta facendo strada l´idea che si debba saper porre fine a una Rivoluzione. Un´idea che covava da tempo. Da tempo i riformatori lo avevano detto. Ed ecco che all´improvviso l´Iran si scopre per quello che è, diverso da come appare da lontano, non monolitico ma in ebollizione, composito, diviso, sorprendentemente pluralista.
A Teheran le donne sono velate, ma rappresentano il 60% delle matricole universitarie - una forza che si afferma, rivendica l´uguaglianza e rifiuta di essere bloccata dalla maternità - tanto che il tasso di natalità è crollato a meno di due figli per famiglia.
A Teheran, dove l´ascesa dei ceti medi è testimoniata dalla mostruosità degli ingorghi, la libertà dei costumi non è minore del rigorismo del regime. «Le faccio vedere dove si rimorchia?» propone il giovane internauta.
A Teheran, il potere si sveglia ogni mattina gridando «Abbasso Israele!», mette alla gogna gli Usa e professa la propria solidarietà col mondo sunnita, ma la popolazione ammira solo l´America, detesta gli arabi, da sempre percepiti come invasori e nemici storici, e guarda agli israeliani con un senso di ammirata connivenza. «Con i turchi e con noi - si sente dire spesso - sono i soli non arabi della regione». Bombardamenti o meno, la rivoluzione è finita. E´ questo il fatto principale, il messaggio che va ascoltato.

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