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La Stampa Rassegna Stampa
16.02.2007 Intanto in America
il terrorismo islamico e chi lo combatte

Testata: La Stampa
Data: 16 febbraio 2007
Pagina: 16
Autore: Maurizio Molinari - Paolo Mastrolilli
Titolo: «Bush: in primavera offensiva a Kabul - “George W. traditore della sua dottrina"»
Dalla STAMPA del 16 febbraio 2007, la cronaca di Maurizio Molinari sul discorso di George W. Bush all'America Enterprise Institute:

La democrazia a Kabul resta in bilico, in primavera la Nato lancerà un’offensiva contro i talebani in una zona dell’Afghanistan «più selvaggia del Far West» ed i comandi militari hanno bisogno di più truppe e mezzi come anche di «poter disporre liberamente dei contingenti in campo». È questo il messaggio che il presidente americano, George W. Bush, recapita a chiare lettere agli alleati parlando per trenta minuti a Washington di fronte alla platea del centro studi neoconservatore «American Enterprise Institute».
«Gli alleati della Nato devono dare ai comandanti militari in Afghanistan le truppe di cui hanno bisogno e devono togliere le restrizioni all’impiego dei propri soldati», dice l’inquilino della Casa Bianca, richiamandosi alle fondamenta dell’Alleanza perché «la Nato fu creata sulla base del principio che chi attacca un alleato li attacca tutti». E ciò vale, incalza Bush con un richiamo al Trattato atlantico, «se l’attacco avviene sul suolo di una nazione della Nato e anche se avviene contro forze impiegate in una missione all’estero».
L’accento sulle «restrizioni da togliere all’impiego delle truppe» è un riferimento esplicito ai “caveat” che alcuni Paesi Nato - inclusi Italia, Germania, Francia e Spagna - ancora impongono ai propri contingenti, impedendone l’impiego in operazioni nelle zone più calde, nel Sud e nell’Est, dove invece a combattere ed essere uccisi sono i soldati di Canada, Gran Bretagna, Olanda e Stati Uniti.
Se finora la richiesta di abolire i "caveat" era stata affidata alle feluche del Dipartimento di Stato - come avvenuto in gennaio a Bruxelles - o al capo del Pentagono Robert Gates - la scorsa settimana a Siviglia - adesso è il presidente a farsi sentire per far capire che le scelte sull’Afghanistan peseranno nei rapporti bilaterali. «Affinché la missione abbia successo quando i comandanti sul campo chiedono aiuto le nazioni Nato devono assicurarlo» sottolinea Bush, evitando di enumerare i Paesi dei "caveat" per citare invece uno ad uno quelli che già hanno accettato di fornire ulteriori aiuti: Norvegia, Lituania, Repubblica Ceca forniranno truppe speciali; Gran Bretagna, Polonia, Turchia e Bulgaria rafforzeranno i contingenti già schierati; l’Italia manderà degli aerei; la Romania contribuirà alla missione di polizia Ue; Danimarca, Grecia, Norvegia e Slovacchia forniranno fondi per le forze afghane; l’Islanda metterà a disposizione i cargo per il ponte-aereo.
L’elenco è minuzioso perché ha un valore politico: poiché la missione in Afghanistan è con 50 mila uomini la più importante operazione militare svolta, la Casa Bianca giudica il sostegno all’Alleanza sulla base del contributo che viene fornito. Un contributo che serve anche sul fronte della ricostruzione: dalla lotta alla coltivazione di oppio fino alle opere civili.
Mettere l’accento sull’Afghanistan serve a Bush anche nella partita con il Congresso. Ai leader democratici che valutano l’ipotesi di opporsi alla richieste del Pentagono di ulteriori 100 miliardi di dollari per la guerra al terrorismo, Bush ricorda che «si parla molto di Iraq, ma c’è anche l’Afghanistan». Come dire: se i democratici dovessero restringere i cordoni della borsa potrebbero indebolire la Nato contro i talebani ed Al Qaeda. In effetti se sull’Iraq Bush e democratici appaiono in rotta, sull’Afghanistan la situazione è differente.
Non a caso il californiano Tom Lantos, presidente della commissione esteri della Camera, striglia i "caveat" al pari della Casa Bianca: «E’ inaccettabile che i comandanti Nato debbano elemosinare truppe da Stati come Germania, Francia, Italia e Spagna, è una vergogna che solamente soldati americani, canadesi, olandesi, danesi e britannici vengano schierati nelle zone pericolose, non bisogna restare passivi quando questi cosiddetti alleati si approfittano di generosità e coraggio altrui».

Di seguito, l'intervista a Paolo Mastrolilli  all'ex ambasciatore americano all'Onu John Bolton:

John Bolton non è cambiato. Diceva quello che pensava quando lavorava per l’amministrazione Bush, prima come sottosegretario di Stato e poi come ambasciatore di Washington alle Nazioni Unite, e continua a farlo adesso, come privato cittadino libero di criticare chiunque: «Il governo americano sta sbagliando politica in Iran e Corea del Nord, mentre in Iraq siamo all’ultima chance, per vedere se la popolazione vuole vivere in pace».
Bolton è stato uno dei leader più noti e controversi dell’amministrazione di George W. Bush, per i suoi modi molto diretti. Campione dei neocon, la sua nomina ad ambasciatore all’Onu era stata contrastata anche dall’ex segretario di Stato Colin Powell. I democratici erano riusciti ad impedire che il Senato votasse la sua scelta, e quindi Bush aveva dovuto approffitare di una pausa nei lavori del Congresso per inviarlo temporaneamente al Palazzo di Vetro. Dopo la sconfitta dei repubblicani nelle elezioni di novembre scorso la conferma era diventata ancora più improbabile, e quindi a fine anno si è dimesso. Ora Bolton è tornato all’American Entrerprise Institute, cioé la think tank dove ieri il presidente Bush è andato a tenere il suo discorso sull’Afghanistan.
Cominciamo da qui, ambasciatore. Il capo della Casa Bianca ha ringraziato l’Italia per il suo contributo in Afghanistan, ma l’ha pure sollecitata a togliere i limiti all’impiego dei suoi militari nelle zone di combattimento. Diversi Paesi europei frenano e le opinioni pubbliche sono divise sull’intervento in Afghanistan. Lei come giudica il discorso di Bush?
«Questo è il giusto genere di segnale da parte del presidente, che dimostra la nostra determinazione a prevalere contro i talebani e i terroristi in tutto il mondo».
Pochi giorni fa, però, lei ha bocciato l’accordo raggiunto con la Corea del Nord sul suo programma nucleare. Perché non lo condivide?
«E’ una decisione sbagliata perché ricompensa chi partecipa alla proliferazione delle armi nucleari. Quindi manda un segnale errato anche a Paesi come l’Iran, incoraggiandoli a perseguire le armi atomiche nella speranza di trarne benefici economici».
Bush le ha risposto direttamente durante la conferenza stampa di mercoledì scorso, in cui ha detto che lei ha torto, perché l’accordo è un primo passo verso la denuclearizzazione della penisola coreana. L’ha deluso?
«E’ un peccato che il presidente abbia scelto di seguire le politiche di Bill Clinton, già fallite negli anni Novanta».
Lei accusa il capo della Casa Bianca di aver tradito la «dottrina Bush», sostenuta dai neoconservatori, che favoriva la diffusione di libertà e democrazia nel mondo?
«A me dispiace che stiamo sostenendo Kim Jong Il. Gli aiuti economici e il petrolio che manderemo a Pyongyang non andranno ai nordcoreani affamati e infreddoliti, ma serviranno a tenere in piedi un regime dittatoriale».
Anche il segretario di Stato Condoleezza Rice ha reagito alle sue critiche, sostenendo che l’intesa con Kim Jong Il può rappresentare un modello anche per l’'Iran. Sbaglia?
«Se è un modello, il risultato che produce è la proliferazione. L’Iran, poi, non ha mai dato l’indicazione strategica di essere pronto a rinunciare alla bomba atomica, neppure durante i negoziati con i Paesi europei».
Allora cosa bisognerebbe fare?
«Trattare ormai è una perdita di tempo. Dobbiamo aumentrare la pressione internazionale, isolando Teheran sul piano ecnomico e politico, in modo da favorire la caduta del regime. In Corea del Nord bisogna fare altrettanto, promuovendo una politica che punti alla riunificazione della penisola, passando attraverso la destituzione di Kim Jong Il».
Come si rovescia il regime iraniano?
«Appoggiando i dissidenti interni, che sono molti e hanno ottenuto anche dei buoni risultati elettorali, e lavorando con i gruppi della diaspora che hanno ancora forti agganci nel loro Paese d’origine».
Si potrebbe obiettare che gli oppositori interni ed esterni non avevano avuto grande successo in Iraq, mentre da più parti si parla di un intervento anche in Iran. Lei lo appoggerebbe?
«L’opzione militare è una possibilità che deve sempre restare sul tavolo».
Bush ha accusato recentemente gli iraniani di armare gli insorti in Iraq, senza però puntare il dito direttamente contro la leadership di Teheran. Troppo morbido?
«Ha detto che le armi sono state trovate, e quindi si tratta di un problema serio, tanto se Teheran aveva ordinato la consegna, quanto se la ignorava. Spero che tratteremo la questione come una vicenda grave».
Come giudica la nuova strategia militare in Iraq del presidente Bush?
«E’ la migliore tra una serie di cattive opzioni. La situazione è molto difficile, ma noi dobbiamo cercare di ristabilire le condizioni di sicurezza, per permettere alla società civile locale di decidere se vuole vivere in pace. E’ l’ultima chance: se gli iracheni non la colgono, la colpa è loro. Noi non abbiamo un interesse strategico a tenere l’Iraq unito: basta che non diventi una culla per i terroristi».
Pensa ancora che invadere l’Iraq militarmente nel 2003 sia stata la decisione giusta?
«Sì. Però abbiamo sbagliato a non dare prima maggiori responsabilità politiche agli iracheni».
Alcuni analisti hanno interpretato le sue critiche come una rottura con Bush. E’ vero?
«In generale sostengo ancora l’amministrazione, ma sta sbagliando».

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