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Luciano Tas
Le storie raccontate
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A domanda confessa - quarta parte 14/02/2007

Il terzo Grande Processo

Bucharin, imputato di lusso


La mattina del 2 marzo 1938 si apre, ancora a Mosca, il terzo e ultimo dei grandi processi politici tesi a spianare al dittatore la strada del potere personale assoluto. Dalla parte del potere i personaggi di quest’ultima sceneggiata sono gli stessi. Il presidente del Tribunale militare della Corte suprema dell’URSS è ancora Ulrich, il procuratore generale è sempre Visinskij. Gli imputati questa volta sono ventuno. Il più illustre di loro è Nikolaij Bucharin, ma figure di grande rilievo del regime sono Ghenrich Jagoda, ex capo dell’Enkavedé, che era l’erede della Cekà, che era erede della Ghepeù e antesignana del Kaghebé (KGB), tutte sigle di una sinistra polizia politica. E tra gli imputati ecco Christian Rakovskij, veterano bulgaro fondatore del movimento comunista nei Balcàni, e Alexej Rikov, e Arcadi Rosengoltz, e Nicolaij Krestinski. E poi ancora: Vladimir Ivanov, Michail Cernov, Grigorij Gringo, Isaac Zelenskij, Serghiej Bessonov, Akmal Ikramov, Faizulla Khodajev, Vassili Charangovic, Prokopi Zubarev, Pavel Bulanov, Lev Levin, Dmitri Pletnev, Ignati Kazakov, Veniamin Maksimov-Dikovskij, Piotr Kriuchkov. In tutto ventuno. Solo tredici di loro, Bucharin in testa, sono però, ritenuti dalla pubblica accusa (il Procuratore Generale è il solito Vysinskij) “nemici irriducibili del potere sovietico” colpevoli di avere “organizzato nel 1932-1933, su istruzioni dei servizi di spionaggio di Stati esteri ostili all’URSS, un gruppo di cospiratori sotto il nome di , che ha unito i gruppi antisovietici clandestini dei trotzkisti, della destra, degli zinovievisti, dei menscevichi, dei socialisti rivoluzionari, dei nazionalisti borghesi dell’Ucraina, della Bielorussia, della Georgia, della Armenia, dell’Azerbaigian, delle Repubbliche dell’Asia Centrale. Il si proponeva lo scopo di rovesciare il regime socialista della società e lo Stato socialista esistente in URSS, di restaurarvi il capitalismo e il potere borghese, mediante un’attività di eversione e di sabotaggio, di terrorismo, di spionaggio e di tradimento, tendente a sabotare la potenza economica e la capacità di difesa dell’Unione Sovietica e ad aiutare aggressori stranieri a vincere e smembrare l’URSS”. E gli altri otto? Ce ne sarà anche per loro. Sulla scena i medici In questo processo appaiono per la prima volta dei medici, alcuni come testimoni (beninteso d’accusa perché quelli a difesa non sono ammessi) e altri come imputati. Gli stessi medici-testimoni a loro volta molti anni dopo verranno arrestati, accusati anche loro di aver pensato di uccidere Stalin, e mandati a un passo dai plotoni d’esecuzione, fermati solo dalla morte di Stalin nel 1953. Per ora siamo qui, a Mosca, dove ventuno personaggi del partito comunista sono accusati, come si legge dal verbale, di “tradimento della patria, spionaggio, eversione, terrorismo, sabotaggio, di aver cercato di minare la potenza militare dell’URSS e di provocare un’aggressione di Stati stranieri contro l’URSS". Come si vede, è una escalation rispetto ai primi due processi. Dall’assassinio di Kirov e dai progettati omicidi di altri dirigenti sovietici, dal sabotaggio e da vaghe collusioni con potenze straniere (primo processo), nel secondo si fa riferimento preciso a Germania e Giappone come potenze di riferimento per i traditori. Ora si aggiungono Polonia e Inghilterra. Sempre però, al centro della tela di ragno, l’onnipresente e onnipotente Lev Trotzkij, che qui diventa per l’occasione un agente dell’Intelligence Service. Il copione del processo è quasi uguale a quelli precedenti. Dal verbale: …

l’imputato Krestinskij, su ordine espresso del nemico del popolo Trotzkij, ha allacciato rapporti di tradimento con il servizio segreto tedesco dal 1921… l’imputato Rosengoltz ha iniziato il suo lavoro di spionaggio per lo Stato Maggiore tedesco nel 1923 e per il servizio di spionaggio inglese nel 1926… l’imputato Rakovskij, uno dei collaboratori di Trotzkij a lui più vicini e suo uomo di fiducia, era agente dell’Intelligence Service fino dal 1924 e del servizio segreto giapponese dal 1934…l’imputato Cernov ha iniziato il suo lavoro di spionaggio a favore della Germania nel 1928… l’imputato Charangovic è stato arruolato nel servizio segreto polacco e inviato in URSS nel 1921 per esercitarvi attività di spionaggio… l’imputato Gringo è diventato agente dei servizi segreti tedesco e polacco nel 1932

Queste accuse appaiono lanciate a caso, senza nemmeno cercare di salvare un minimo di credibilità. Come si poteva infatti nel ’35, ’36 e ’37 essere contemporaneamente spie per la Germania, la Polonia, il Giappone e l’Inghilterra? Non basta. Il tradimento non può essere maturato solo in tempi recenti. No, deve essere più antico, partire da lontano, partire dalla Russia zarista, dall’oppressivo sistema poliziesco dell’Okrana. La collusione con i servizi segreti stranieri, si legge nel verbale, era facilitata dal fatto che alcuni dei cospiratori accusati in questo processo erano stati provocatori e agenti dell’Okrana zarista…

L’imputato Zelenskij dal 1911 era un agente della polizia di Samara, informava sistematicamente la direzione della polizia sull’attività dell’organizzazione bolscevica di Samara, e per questa attività percepiva regolarmente una remunerazione mensile in denaro… L’imputato Ivanov iniziò la sua attività di provocatore nel 1911, quando venne arruolato dall’Okrana di Tula… L’imputato Zubarev era stato arruolato dalla polizia zarista nel 1908…

Confessare non basta

E così via. Tutti gli imputati confessano, ma non basta confessare. Bisogna che imparino a memoria, una per una, le risposte da dare alle domande del pubblico ministero. Tutti gli imputati? No, tutti meno uno, che con il suo atteggiamento apre una grande falla nella sceneggiatura e persuaderà Stalin a farla finita con i processi. Non con le esecuzioni e le deportazioni, ma con i processi. Chi apre la falla è Nikolaj Nikolajevic Krestinskij, vecchio bolscevico, membro del primo Politburo, la stanza comunista dei bottoni, e primo Segretario anziano del Comitato Centrale. La cosa va così. Secondo quanto riferisce il verbale, il presidente Ulrich chiama uno per uno gli imputati e rivolge loro la domanda d’uso. Imputato Rikov, vi dichiarate colpevole dei fatti che vi sono stati attribuiti? Rikov – Sì, mi dichiaro colpevole E così via, a tutti la stessa domanda e da tutti la stessa risposta. Ma poi,

Ulrich – Imputato Krestinskij, vi dichiarate colpevole dei fatti che vi sono stati attribuiti? Krestinskij – Non mi dichiaro colpevole. Non sono trotzkista. Non ho mai fatto parte del “blocco della destra e dei trotzkisti”, di cui ignoravo perfino l’esistenza. Non ho mai commesso uno solo dei crimini che mi sono stati attribuiti. In particolare non mi dichiaro colpevole di avere avuto rapporti col servizio segreto tedesco. Ulrich – Confermate le confessioni rese nel corso dell’istruttoria? Krestinzkij – Nel corso dell’istruttoria preliminare ho ammesso la mia colpevolezza, ma non sono mai stato trotzkista. Ulrich – Ripeto la domanda: vi dichiarate colpevole? Krestinskij – Prima del mio arresto ero membro del partito comunista bolscevico e lo sono tuttora. Ulrich – Vi dichiarate colpevole di avere partecipato ad atti di spionaggio e all’azione terroristica? Krestinskij – Non sono mai stato trotzkista, non ho mai fatto parte del “blocco della destra e dei trotzkisti” e non ho mai commesso alcun reato.

Il meccanismo s’inceppa

La sorpresa in aula è comprensibilmente enorme. La costruzione di Visinskij e del suo padrone, Stalin, rischia di crollare. Persino i giornalisti occidentali ammessi in aula cominciano ad avere qualche dubbio sul processo. Qualcuno di loro alla fine potrebbe persino chiedersi, cosa che nessuno finora ha fatto, se le confessioni degli imputati siano proprio spontanee o se vi sia stata qualche pressione non precisamente umanitaria per indurli a coprirsi d’infamia. Tuttavia l’idea che siano innocenti, almeno per quanto riguarda le accuse mosse durante questo ed altri processi, non pare ancora sfiorarli. Ma se il pubblico, ancorché accuratamente selezionato, è più che sorpreso, il pubblico ministero, il presidente del tribunale, i giudici a latere, sono presi dal panico. Sanno che ora è la loro testa ad essere in pericolo. E in effetti qualcuna di queste teste più tardi cadrà, anche se non quella di Visinskij. Ma ora che il copione è saltato bisogna inventarsi qualcosa. E qualcosa Visinskij s’inventa. Prima mettendo Krestinskij a confronto con gli altri imputati. Ma Krestinskij è un osso duro. Uno dei confronti è con l’imputato Bessonov, che nel 1933 era consigliere nell’ambasciata sovietica a Berlino. Ecco di nuovo il verbale.

Visinskij – Imputato Krestinskij, vi siete recato a Kissingen nell’agosto o nel settembre 1933? Krestinskij – All’inizio di settembre. Visinskij - Confermate questa circostanza? Avete incontrato Bessonov? Krestinskij – Lo confermo. Visinskij – Di che avete parlato? Del tempo che faceva? Krestinskij – Bessonov era consigliere all’ambasciata a Berlino, e in quel momento aveva le funzioni d’incaricato d’affari. M’informò della situazione politica in Germania, dello stato d’animo del partito fascista che in quel momento era già al potere, del suo programma e del suo atteggiamento nei confronti dell’URSS. Visinskij – E a proposito dei trotzkisti? Krestinskij – Non ne abbiamo parlato. Io non ero un trotzkista. Visinskij - Non ne avete mai parlato? Krestinskij – Mai. Vyshnskij – Questo significa che Bessonov non sta dicendo la verità e voi sì. Voi dite sempre la verità? Krestinskij – No. Io non ho sempre detto la verità durante l’istruttoria. Visinskij – Ma le altre volte dite sempre la verità? Krestinskij – Dico la verità. Visinskij – Perché questa mancanza di rispetto per l’istruttoria? Perché non avete detto la verità durante l’istruttoria? Spiegatelo.

Ma a questa domanda Krestinskij non risponde, E’ un silenzio drammatico quanto eloquente. Poi Krestinskij continua nel suo diniego, nella sua proclamazione d’innocenza, e spiega di avere firmato il verbale d’istruttoria perché, dice, “non parlavo liberamente”. Se questa mattina del 2 marzo 1938 è drammatica, il pomeriggio del giorno dopo volge in tragedia.

Ventiquattro ore dopo

Ventiquattro ore sono state sufficienti agli inquisitori per stroncare anche la fortissima fibra fisica e morale di Krestinskij, che finalmente si piega e confessa. Il verbale che illumina la scena è agghiacciante perché fa intravedere Visinskij che va all’attacco di un uomo ridotto allo stato di larva. Ma ecco ancora il verbale.

Visinskij – Volete ancora continuare a ingannare la Corte e a negare l’esattezza delle dichiarazioni che avete reso in istruttoria? Krestinskij – Confermo interamente le dichiarazioni che ho reso in istruttoria. Visinskij – Che cosa significa allora la vostra dichiarazione di ieri, che evidentemente non può essere considerata altro che una provocazione trotzkista in questo processo? Krestinskij – Ieri, sotto l’influenza di un acuto ma momentaneo sentimento di falsa vergogna, dovuto all’atmosfera del banco degli accusati e alla penosa impressione che ho provato per la pubblica lettura dell’atto d’accusa, aggravato dal mio cattivo stato di salute, non ho potuto dire la verità, non ho potuto dire che ero colpevole. E invece di dire “sì, sono colpevole”, ho risposto quasi macchinalmente “no, non sono colpevole”. Visinskij – Macchinalmente? Krestinskij – Di fronte all’opinione pubblica mondiale non ho avuto la forza di dire la verità, di dire che avevo sempre condotto una lotta trotzkista. Chiedo alla Corte di prendere nota di questa mia dichiarazione: io ammetto pienamente e completamente di essere colpevole di tutte le accuse formulate contro di me e assumo la piena responsabilità della mia fellonia e del mio tradimento.

Si conclude qui uno tra i più drammatici interrogatori di questo terzo grande processo politico sovietico. Non ci vuole molta fantasia (quella però che generalmente manca agli osservatori stranieri al processo) per immaginare quello che può avere subito Krestinskij tra il 2 marzo, quando nega sdegnosamente le cervellotiche accuse che gli sono mosse, proclamando ad alta voce la sua totale innocenza, e il 3 marzo, quando si dichiara “pienamente e completamente colpevole”. Ma a nessuno, in nessun paese d’Europa e d’America, e nemmeno agli oppositori di altre dittature, sorge almeno il dubbio che la “spontanea volontà” di Krestinskij in questo pomeriggio del 3 marzo, forse tanto spontanea non sia.

Il pane azzimo del compagno Rosengoltz

Prima che Bucharin vada alla sbarra, avvengono altre cose sorprendenti nel corso del processo. Una di queste è il caso di Arkadij Rosengoltz, che era stato governatore del Donbas, il bacino del Donez, nei primi anni Venti, poi ambasciatore a Londra e infine ministro (ma a quel tempo si diceva ancora “Commissario del Popolo”) per il Commercio estero. E in ognuna di queste funzioni aveva dimostrato eccellenti doti amministrative e diplomatiche, malgrado la sua ortodossia bolscevica. Rosengoltz era nato in una famiglia ebrea e aveva sposato un’ebrea osservante. La sua però era una famiglia di rivoluzionari e lui stesso a dieci anni aveva cominciato a distribuire volantini comunisti. A sedici anni era stato arrestato per la prima volta dalla polizia zarista e a diciassette era già delegato al Congresso del partito bolscevico. Durante la guerra civile aveva combattuto con valore. Ha avuto, è vero, qualche fugace simpatia per Trotzkij, ma niente di più. Quanto basta però per cadere in disgrazia. Viene arrestato nel 1937. Tutti questi arresti avvengono con un rituale codificato e il caso Rosengoltz lo esemplifica. Il 15 giugno del 1937 i suoi due principali assistenti al Dicastero del Commercio estero, Eliava e Loganovskij semplicemente spariscono. Di loro si perdono le tracce. Qualche giorno dopo il “compagno Rosengoltz” (ancora è chiamato “compagno”) viene esonerato dall’incarico, senza spiegazioni ma anche senza ulteriori fastidi. Arkadij Rosengoltz però non si fa illusioni e comincia a tremare perché già conosce la procedura staliniana (che del resto lui aveva in molte occasioni fedelmente seguito). Passano diverse settimane. Rosengoltz tenta di mettersi in contatto con Stalin, ma invano. E’ una situazione di cui Franz Kafka era stato prodigioso profeta ne “Il Processo”. Alba dopo alba, l’ora detta “del lattaio” quando ancora si usava ricevere la bottiglia del latte fuori della porta di casa, e adesso l’ora fatale nell’URSS di Stalin, Rosengoltz aspetta. Non conosce i capi d’accusa né gli accusatori, ma aspetta. Alle fine d’agosto viene finalmente arrestato. La moglie, una graziosa signora dai capelli rossi, molto religiosa, ripete con ingenuità un gesto che gli ebrei compiono alla fine della cena pasquale. Non è un rituale religioso, ma una tradizione. Gli mette nella giacca un pezzetto di pane azzimo, che dovrebbe essere portato come portafortuna fino alla Pasqua successiva. E insieme al pezzetto di pane azzimo un foglietto nel quale trascrive due Salmi di Davide, il 68 e il 91. Rosengoltz, che ha confessato tutto quello che volevano gli inquisitori, al termine di una udienza viene richiamato a deporre dal procuratore Visinskij. Riferisce il verbale che dice:

Sono stati trovati, nascosti nei vostri vestiti, alcuni strani oggetti. In che modo vi è venuto in tasca tutto questo? Rosengoltz – Ce li mise un giorno mia moglie prima che andassi a lavorare. Disse che portava fortuna. Visinskij – E voi teneste questo portafortuna nella tasca dei pantaloni per molti mesi? Rosengoltz – Non ci feci neppure caso. Visinskij – Però vedeste quello che faceva vostra moglie? Rosengoltz – Avevo fretta. Visinskij – Ma vi fu detto che questo era un talismano di famiglia che portava fortuna?

Dio è assente in aula

Visinskij si rivolge al pubblico in aula (un pubblico accuratamente selezionato, salvo alcuni corrispondenti stranieri) con un cenno. E il verbale registra: Ilarità in sala.

Visinskij – E’ stato trovato nei vostri vestiti anche un foglietto. Vediamo un po’ cosa c’è scritto: “Quando il Signore si alza, si disperdono i suoi nemici e coloro che lo odiano fuggono dalla sua presenza…”. E poi c’è un altro scritto: “O tu che ti sei messo sotto la protezione dell’Altissimo e che ti ripari all’ombra dell’Onnipotente, ascolta, io sono solito dire al Signore: Egli è il mio riparo e la mia fortezza, il mio Dio in cui confido…”

Altro ammiccamento al pubblico in aula e altra risata ironica collettiva. Evidentemente non è in quest’aula che Dio ha diritto d’ingresso. Il destino di Rosengoltz si chiama Stalin, e Rosengoltz finisce ucciso come gli altri.

Ultimo atto: tutti i riflettori per Bucharin

Nell’udienza pomeridiana del 5 marzo entra finalmente in scena per l’interrogatorio Nikolaij Bucharin. Visinskij se lo è tenuto per ultimo perché Bucharin è la figura più rappresentativa di tutti gli imputati, il più noto teorico sovietico del marxismo, l’uomo che Lenin aveva designato per la successione. Dunque Bucharin dovrebbe rappresentare un po’ la scena madre e la consacrazione del processo. Ma a questo processo del ’38 non c’è solo l’incidente di Krestinskij. Qualcosa non funzione anche con Bucharin. Nicolaj Bucharin capisce che non è il caso di agire come Krestinskij, e azzarda una sottigliezza. Riconosce sì la sua colpevolezza, ma solo quella “oggettiva”. Vale a dire: sì, sono stato e sono all’opposizione e contesto Stalin, e quindi, siccome oggi Stalin è il partito, essere contro Stalin significa essere contro il partito. Questa la mia colpa “oggettiva”, ma non parliamo di spionaggio, tradimenti, sabotaggi e omicidi. Bucharin esordisce così:

Ho due richieste da presentare alla Corte. In primo luogo chiedo che mi si dia la possibilità di fare la mia esposizione alla Corte a mio modo. In secondo luogo chiedo di essere autorizzato a dilungarmi alquanto, all’inizio del mio racconto e tempo permettendo, sull’analisi degli obiettivi ideologici e politici del criminale “blocco della destra e dei trotzkisti”, e ciò per i seguenti motivi: prima di tutto perché se ne è parlato piuttosto poco, poi perché questo argomento presenta un certo interesse, e infine perché il cittadino Procuratore ha posto questa domanda nel corso dell’istruttoria.

A questo punto Vysginskij si allarma. Le cose non vanno secondo i suoi piani e secondo copione. Non ha alcuna intenzione di consentire un confronto politico con Bucharin e men che meno di permettergli un comizio. Visinskij è astuto, ma Bucharin lo sovrasta per intelligenza e cultura. Se lo lascia parlare davvero il processo va fuori binario. E Visinskij sa di non giocarsi solo la carriera.

Visinskij – Se l’imputato Bucharin vuole così limitare, in qualsiasi modo, il diritto del procuratore di fare domande durante le sue dichiarazioni, ritengo che il compagno Presidente debba spiegargli che il mio diritto di fare domande mi deriva dalla legge. Per questo chiedo che la richiesta sia respinta, ai sensi del Codice di procedura Penale.

Il Presidente della Corte, Ulrich, taglia corto e chiede a Bucharin se conferma le dichiarazioni rese nel corso dell’istruttoria. Gli chiede insomma se è colpevole o no.

Bucharin – Confermo le mie dichiarazioni interamente e senza riserve.

Visinskij sembra così avere via libera per il suo interrogatorio. Ma le cose non andranno precisamente così.

Visinskij – Consentitemi di procedere all’interrogatorio dell’imputato Bucharin. Chiarite esattamente: di che cosa vi riconoscete colpevole? Bucharin – In primo luogo di avere fatto parte del “blocco della destra e dei trotzkisti”. Visinskij – A partire da quale anno? Bucharin – Dal 1928 circa. Mi dichiaro colpevole di essere stato uno dei principali leader di questo “blocco della destra e dei trotzkisti”. Quindi mi dichiaro colpevole di tutte le conseguenze dirette e di tutto il complesso dei crimini compiuti da questa organizzazione controrivoluzionaria, indipendentemente dal fatto che conoscessi o ignorassi questa o quella singola azione, dal fatto che prendessi parte, direttamente o meno, a questa o a quella azione, perché rispondo come uno dei leader di questa organizzazione controrivoluzionaria, e non come gregario.

Colpa oggettiva e colpa soggettiva

Si delinea così la linea difensiva di Bucharin. L’ex membro del Politburo accetta il linguaggio marxista della colpa “oggettiva”, ben separata però da quella “soggettiva”. Dice in sostanza; sì, sono stato un oppositore di Stalin e ho raccolto intorno a me un gruppetto di altri oppositori, di cui mi dichiaro il leader. In questo, dice, consiste la mia colpa, visto che chi vince, cioè Stalin, ha ragione, e chi perde, cioè io, ha torto. Bucharin però prende le distanze dai fatti concreti e respinge il criterio di responsabilità “oggettiva”. Io personalmente, sottintende sempre Bucharin, non ho sabotato, non ho ucciso. E’ alla figura di Bucharin e a questa sua linea difensiva che s’ispirerà Arthur Koestler nel suo “Buio a Mezzogiorno”. Ma è proprio questa linea difensiva che non piace a Visinskij. Al popolo, cui è dedicata questa sceneggiata, le sottigliezze sull’”oggettivo” e il “soggettivo” sfuggono. Bisogna che gli imputati confessino di avere tradito fino da quando erano bambini, di avere complottato già prima della Rivoluzione d’Ottobre, di aver venduto il paese, di avere sabotato e ucciso. Questa è la confessione che è scritta sul copione che del resto quasi tutti hanno recitato più o meno bene. E Visinskij non intende che Bucharin svicoli con sottigliezze politiche.

Visinskij – Quali erano gli scopi che si proponeva questa organizzazione controrivoluzionaria? Bucharin – Si poneva come scopo essenziale, forse addirittura senza rendersene conto completamente, la restaurazione dei rapporti capitalistici nell’URSS. Visinskij – E il rovesciamento del potere sovietico? Bucharin – Il rovesciamento del potere sovietico era il mezzo per raggiungere lo scopo. Visinskij – Attraverso un rovesciamento violento? Bucharin – Sì, attraverso un rovesciamento violento di questo potere, sfruttando tutte le difficoltà che s’incontrano sulla strada del potere sovietico, e in particolare utilizzando la guerra che si prevedeva imminente. Visinskij – Con l’aiuto… Bucharin – Con l’aiuto dei paesi stranieri. Visinskij – A quali condizioni? Bucharin – A condizioni che prevedevano numerose concessioni, comprese le concessioni territoriali. Visinskij – Cioè? Bucharin – Se vogliamo essere proprio precisi, lo smembramento dell’URSS. Visinskij – Il distacco dall’URSS di intere repubbliche e regioni? Bucharin – Sì. Visinskij – Per esempio? Bucharin – L’Ucraina, la Bielorussia…

Stalin non prevedeva…

Qui vale notare due cose. La prima è che l’Unione Sovietica non solo non prevedeva affatto una guerra nel ’35, ’36, ’37 e ’38, ma continuò a non prevederla fino al 20 giugno 1941, un giorno prima dell’attacco nazista, quando ancora lunghe teorie di treni-merce stavano viaggiando dalla Russia alla Germania per portarvi quei materiali strategici che l’accordo con Hitler del 1939 prevedevano. La seconda osservazione riguarda lo smembramento dell’URSS, che non era stato nemmeno pensato dagli imputati dei tre processi, ma che la rovinosa caduta del comunismo nel paese ha comportato, e non solo per quanto riguarda Ucraina e Bielorussia, ma per le tre repubbliche baltiche, la Georgia, l’Armenia, le repubbliche islamiche…

Da interrogatorio a confronto

L’interrogatorio di Bucharin si trasforma inesorabilmente, e non certo per volontà di Visinskij, in un vero e proprio confronto ideologico-politico. Ogni volta che interviene, Bucharin premette di assumersi ogni responsabilità, non coinvolge altre persone. Spiega, non confessa. E a un certo punto, come si legge sul verbale, dice:

In quel momento la nostra psicologia di cospiratori controrivoluzionari s’indirizzava sempre di più in questo senso: il kolkoz è la musica dell’avvenire. Bisogna moltiplicare i ricchi proprietari. Questa è la formidabile svolta che si era prodotta nel nostro punto di vista, nella nostra psicologia. Nel 1917 a nessuno dei membri del partito, me compreso, sarebbe venuto in mente di compiangere una delle guardie bianche giustiziate. Poi, nel periodo dei kulaki, nel 1929-30, commiseravamo i kulaki spossessati, per sedicenti ragioni umanitarie. A chi tra noi nel 1919 sarebbe venuta l’idea di attribuire la rovina della nostra economia ai bolscevichi invece che al sabotaggio? E tuttavia, già nel 1928, io stesso ho dato una forma al concetto di sfruttamento militare-feudale della classe contadina: attribuivo cioè il costo della lotta di classe, non alla classe ostile al proletariato, ma alla direzione dello stesso proletariato.

Visinskij non sta al gioco

E’ facile vedere in questa apparente ammissione di colpe dei duri attacchi al comunismo secondo Stalin. Sì ai kolkoz, le fattorie collettive, purché i contadini si arricchiscano, rimorso per le troppe guardie bianche uccise, rimorso per i lutti inflitti ai kulaki, rimorso per la politica comunista contro i piccoli contadini, E i disastri dell’economia sovietica non dipendono dai sabotatori, ma dalla dittatura stalinista. Anche a Visinskij (e forse al pubblico, pur selezionato) non sfugge il senso delle parole di Bucharin. Così il Procuratore lo richiama all’ordine:

Imputato Bucharin, ancora una volta non avete capito. In questo momento non state facendo la vostra dichiarazione finale. Siete stato invitato a illustrare la vostra attività controrivoluzionaria antisovietica, e voi ci fate una conferenza. Ve lo spiego per la terza volta… Bucharin – Non è la mia arringa difensiva, è la mia autorequisitoria. Non ho detto una sola parola in mia difesa. Se si vuole formulare in pratica la mia piattaforma programmatica, essa è la seguente. Per quanto riguarda l’economia: capitalismo di Stato, il mugiko agiato che gestisce i suoi beni, riduzione dei kolkoz, concessioni straniere, abbandono del monopolio del commercio con l’estero. Risultato: la restaurazione del capitalismo nel nostro paese.

Si trattava un po’ di quanto aveva tentato di fare Gorbaciov alla vigilia del disfacimento totale del regime comunista, vale a dire una sorta di sistema misto pubblico-privato, con il controllo sempre nelle mani dello Stato, ma con ampia libertà d’impresa per i privati. Visinskij però ha bisogno di ben altro che di enunciazioni teoriche, anche eretiche come quella di Bucharin. Il suo interrogatorio verte su argomenti più solidi, con meno teorie e maggiori elementi capaci da un lato di colpire l’immaginazione popolare e dall’altro di terrorizzarla.

Visinskij – Siete vissuto in Austria? Bucharin – Sì, dal 1912 al 1913. Visinskij – Eravate in rapporto con la polizia austriaca? Bucharin – No. Visinskij – Siete vissuto in America? Bucharin – Circa sette mesi. Visinskij – In America avevate rapporti con la polizia? Bucharin – Nessun rapporto. Visinskij – Dall’America siete andato in Russia passando per il Giappone. Vi siete rimasto a lungo? Bucharin – Una settimana. Visinskij – Nel corso di quella settimana non siete stato assoldato? Bucharin – Se vi fa piacere porre domande simili…

E qui Visinskij perde la calma. Perché se risulta che Bucharin la pensava diversamente da Stalin ma non ha tradito, non ha ucciso, non è stato assoldato, magari addirittura dal 1912, che processo si può fare? Ma Bucharin sfugge, e non è neanche possibile sottoporlo al trattamento usato per Krestinskij perché Bucharin ha confessato, anche se le sue parole hanno poi fatto a pezzi quella confessione. E Visinskij si deve accontentare, senza temere il grottesco.

Che terroristi! Anche chiodi nel burro…

Ora è il momento della requisitoria finale.

Visinskij - …quanto a Zelenskij, mi limiterò a ricordare qui la pratica odiosa che consiste nell’introdurre vetro e chiodi nelle derrate alimentari, in particolare nel burro… Vetri e chiodi nel burro! Non è forse questo un crimine mostruoso davanti al quale impallidiscono tutti gli altri crimini di questo genere? Charangovich provoca l’anemia dei cavalli e sviluppa sentimenti nazionalistici tra la popolazione della Bielorussia… Ivanov distrugge le officine, l’industria della cellulosa e della carta… Gringo confessa francamente la volontà di spargere il malcontento tra coloro che effettuano depositi nelle Casse di Risparmio… Cernov, che operava su istruzioni del servizio segreto tedesco, ha affermato francamente: “Il servizio segreto tedesco pose come condizione espressa l’organizzazione del sabotaggio nel settore dell’allevamento dei cavalli…

E veleno verde nel gorgonzola

Non sembrano proprio “crimini mostruosi” come li definisce l’accusa. Vetro nel burro, anemia dei cavalli, parlare male delle banche, non si direbbero proprio così mostruosi delitti. E al dunque, come si sabota l’allevamento dei cavalli? Il metro per misurare i delitti certo deve essere cambiato da settant’anni a questa parte. Negli anni Trenta nell’URSS i criteri sono quelli impersonati da Visinskij. Basterà ricordare il caso di un comunista italiano, Andrea Bertazzani, fuggito dall’Italia in URSS nel 1932. Qui viene mandato in un kolkoz, e siccome bene s’intende di prodotti caseari (era stato segretario di una cooperativa agricola nel mantovano negli anni Venti) si mette a produrre un formaggio nuovo e sconosciuto in Russia, il gorgonzola. Ma le striature verdastre caratteristiche di questo tipico formaggio italiano destano dei sospetti e Bertazzoni viene arrestato con l’accusa di essere un sabotatore e un avvelenatore del popolo. Altro che vetri e chiodi nel burro! E buon per Bertazzoni che si era nel ’32 e non nel ’36. Al processo la determinante testimonianza in suo favore di un esperto caseario sovietico (ancora erano consentiti i testimoni a discarico) lo fa scarcerare. E’ dunque punito in modo straordinariamente mite: viene mandato a lavorare in una fabbrica di sapone. Per prudenza lo si tiene lontano dai formaggi. 13 marzo 1938, il processo si chiude Ai tredici cui erano state motivate le imputazioni di sabotaggio, spionaggio, tradimento e così via, se aggiungono altri cinque nel corso del dibattimento. Così diciotto dei ventuno imputati sono condannati a morte. Tra loro naturalmente Bucharin. Ne restano tre, Pletnev, Rakovskij e Bessonov. Per quest’ultimo la pena appare più mite: 15 anni, perché lui e Rakovskij non avevano “preso parte diretta all’0rganizzazione degli atti di terrorismo, eversione e spionaggio”. Per Rakovskij, che pure non pareva più colpevole di Bessonov, gli anni di galera sono 20. Il medico Pletnev invece “non avendo preso direttamente parte attiva all’assassinio dei compagni V.V. Kujbishev e A.M. Gorki, pur avendo contributo al crimine”, l’indulgenza è un po’ minore: 20 anni. Ma dalla galera o dai lager nessuno di questi tre usciranno vivi. Si ignora dove, come e quando sono morti. Le condanne detentive vengono inflitte per gettare fumo negli occhi dell’Occidente, che così ha ragioni in più per credere alla limpidezza della procedura. Gli “ospiti” dell’Hotel Lux Comunque non ci saranno più processi “esemplari”. Il rischio è eccessivo. Ma le epurazioni e le eliminazioni di massa (non solo quindi tra i notabili comunisti) continueranno per un pezzo. Durante la guerra civile spagnola ci sarà la strage degli anarchici da parte dei comunisti irreggimentati dagli agenti della polizia politica sovietica. Poi, al loro ritorno in URSS, i combattenti sovietici antifascisti verranno a loro volta eliminati. E la caccia si estende agli antifascisti di molti paesi riparati in URSS che avevano creduto nella rivoluzione. La storia di questi antifascisti è narrata da un albergo, l’Hotel Lux, dove negli anni Trenta è raccolto il fior fiore del comunismo internazionale. Il destino di questi comunisti finisce per dividersi nettamente in due. Ci sono i “liquidati”, che sono maggioranza, e ci sono i “liquidatori”, le spie o i complici del regime. Altri vedono, sentono e tacciono. Tra li ospiti “liquidati” dell’Hotel Lux c’è la polacca Wera Kostreva che, insieme a Rosa Luxemburg (quest’ultima assassinata dai nazisti) era tra i maggiori esponenti del partito comunista polacco. Wera scompare letteralmente tra il 1936 e il 1938. E c’è Béla Kun, il capo per i cento giorni del 1919 della repubblica sovietica ungherese, fuggito in Russia e qui giustiziato senza processo. Ancora. Ospite del Lux è il mitico Ernest Thälmann, con il cui nome è chiamata una colonna delle Brigate Internazionali che combattono in Spagna contro Franco. Thälmann dall’URSS torna in Germania nel 1933 dove viene arrestato e portato in un lager. Nel 1944 verrà assassinato. Resta invece in URSS all’Hotel Lux il compagno di lotta di Thälmann, Heinz Neumann, anche lui dirigente comunista. Ma non gli andrà meglio. Neumann , arrestato nel 1937 a Mosca, scompare senza lasciare traccia. Tra gli ospiti del Lux a qualcuno le cose andranno diversamente. Walter Ulbricht, stalinista di ferro, verrà portato dalle armate sovietiche alla lunga guida della Germania orientale, l’ex Repubblica Democratica Tedesca. Ci sono anche i comunisti polacchi all’Hotel Lux. Boleslaw Bierut, dittatore della Polonia tra il 1947 e il 1956, ha una compagna, Margareta Fornalska, che gli ha dato una figlia. La Fornaska è arrestata proprio al Lux, torturata e uccisa. Bierut non batte ciglio (come del resto non lo batterà il ministro degli Esteri Molotov, la cui moglie ebrea, accusata di “sionismo”, finisce nel Gulag). Va meglio a un altro polacco, Joseph Berger, un ebreo ortodosso e sionista che nel 1922 va in Medio Oriente a fondare il partito comunista palestinese e che tra il ’32 e il ’34 è a capo della sezione orientale del Comintern. Berger se la cava meglio degli altri. Si prende solo 15 anni, ne fa invece venti, ma nel 1956 può essere liberato e “riabilitato”. Dal Lux passano un po’ tutti. Il cinese Ciu En Lai, il vietnamita Ho Chi Min, il bulgaro Dimitrov, il francese Maurice Thorez, lo jugoslavo Tito, il finlandese Mauno Heimo (anche lui arrestato a Mosca nel ’37 e scomparso senza lasciare traccia), lo spagnolo Jesus Hernandez. Hernandez è uno dei capi del partito comunista spagnolo. Viene mandato da Stalin in Messico a riorganizzare i comunisti spagnoli lì rifugiati, ma cade in disgrazia e assiste da lontano all’arresto della madre e della sorella, le cui sorti resteranno ignote. Ospite dell’Hotel Lux di Mosca è anche il cèco Arthur London, combattente nelle Brigate Internazionali in Spagna e poi nella Resistenza francese. Diventerà vice-ministro degli Esteri cecoslovacco nel 1949. London sarà protagonista, insieme a tutta la dirigenza comunista cèca e slovacca, dell’ultimo dei processi staliniani, quello di Praga del dicembre 1952.

Dicembre 1952, l’ultimo processo staliniano a Praga

Il “processo Slansky” (dal nome del Segretario del partito comunista cèco) vede alla sbarra praticamente tutti i ministri del governo, fatti arrestare dopo il colpo di Stato voluto da Stalin. Salvo London, tutti sono condannati a morte e uccisi. Le loro ceneri sono sparse in un bosco. La vicenda è narrata dallo stesso Arthur London, condannato all’ergastolo e poi liberato grazie agli sforzi della moglie francese, in un libro, “La confessione”, poi dventato un film per la regia di Costa Gavras e con Yves Montand nella parte di London.

I comunisti italiani in URSS

E gli italiani? Passano dal Lux Antonio Gramsci, che tornerà in Italia e sarà arrestato dalla polizia fascista, Luigi Longo, Palmiro Togliatti. E’ un lungo capitolo quello degli antifascisti italiani riparati nell’Unione Sovietica. Sono circa duecento i comunisti italiani vittime di Stalin. Non è più possibile ricostruire tutte le biografie, e comunque i loro nomi difficilmente troverebbero qualche posto, nemmeno sotto un filo di nota, nei libri di storia. Ricordiamone almeno qualcuno. Giuseppe Pirz, dalmata, antifascista, lascia l’Italia all’avvento del fascismo ed emigra negli Stati Uniti. Il richiamo della rivoluzione bolscevica però è grande, così la famiglia Pirz s’imbarca per l’Unione Sovietica. Quando arriva a Odessa la stampa locale pubblica una foto di gruppo. La notizia è ghiotta. Una famiglia di lavoratori che preferisce il paese del socialismo a quello del capitalismo è davvero una notizia. Non si sa perché nel luglio del 1937 il regime si scaglia contro la famiglia di Giuseppe Pirz. Arrestano lui, la moglie e i due figli più grandi. In agosto arrestano anche il terzo maschio, che ha sedici anni. A casa resta solo una bambina di tredici anni, l’ultima figlia, che viene presa e portata in un riformatorio. Scompaiono tutti. Di loro nessuno saprà mai più nulla. Tra gli italiani travolti dalla bufera c’è un giornalista dell’”Unità”, Edmondo Peluso, napoletano, riparato in URSS nel 1927 per sottrarsi a una condanna a dodici anni inflittagli in Italia dal Tribunale Speciale fascista. Invece della prigione lo aspetta in URSS la morte, avvenuta presumibilmente nel 1936 dopo essere stato arrestato per presunto trotzkismo. Con un messaggio fatto uscire rocambolescamente dalla prigione, nei cui sotterranei viene giornalmente interrogato e torturato, chiede aiuto ai suoi compagni italiani in libertà. Da qui si perdono le sue tracce da vivo. C’è il torinese Emilio Guarnaschelli, che arriva a Mosca dal Belgio nel 1933. Ma presto è deluso da quello che vede e si rivolge all’ambasciata italiana per farsi rimpatriare. E’ dicembre 1934. Il 2 gennaio 1935 Guarnaschelli è arrestato come “spia fascista”. Deportato oltre il circolo polare artico, è raggiunto dalla sua compagna, Nella Masutti, il cui padre, Costante, anche lui riparato a Mosca, è costretto a rinnegare pubblicamente la figlia, colpevole del reato di essersi innamorata di un nemico del popolo, una spia fascista. Emilio Guarnaschelli muore il 14 aprile 1939. Di Nella Masutti non si saprà più niente. Il vicentino Giuseppe Guerra, colpevole di avere famigliarizzato con alcuni operai italiani che lavorano in URSS nel quadro degli accordi economici italo-sovietici, è arrestato alla fine del 1937. Le sue ultime notizie risalgono all’estate del 1938. Cafiero Lucchesi di Prato scompare in URSS nel luglio del ’36. Luigi Fattori, udinese, che era stato aggredito e bastonato nel 1922 dalle squadracce fasciste, emigra prima in Francia e poi in URSS, dove scompare nella lunga notte del Terrore, 1936, 1937 o 1938. Ezio Biondini, appena scontata la condanna a tre anni inflittagli dal Tribunale Speciale fascista, nel 1931 raggiunge, via Francia, l’Unione Sovietica. Qui viene arrestato all’inizio del 1935. Di lui nessuna traccia. Carlo Costa, Gino De Marchi, Otello Gaggi, altri italiani inghiottiti dal Terrore staliniano. Di Francesco Grezzi scriverà più tardi uno degli italiani scampati a Stalin, Dante Corneli, che le sue ossa “riposano ora sotto la tundra gelate di Vorkuta”, oltre il Circolo polare artico, tomba di centinaia di migliaia di innocenti. Solo alcuni nomi, ma valgano per tutti gli altri. Vi erano in quegli anni in URSS anche comunisti italiani liberi che non osarono parlare. Ma il rischio era immenso e quel silenzio lo si può capire. Meno si può capire il silenzio dei comunisti italiani fuggiti in Francia o in Belgio. Loro avrebbero potuto denunciare quanto accadeva in URSS ai loro compagni perseguitati, arrestati, uccisi. Dell’Unione Sovietica, di Lenin, di Stalin e del comunismo reale è stato scritto moltissimo. Ma poco sugli italiani che fiduciosi si erano rifugiati nel paese del proletariato vittorioso per salvarsi dal fascismo, e che invece vi trovarono una ingiusta morte.

Il ruolo dei medici “avvelenatori”

Nel terzo e ultimo dei grandi processi politici appariva un elemento diverso dai precedenti. Vi erano infatti coinvolti tre medici, accusati di avere commesso crimini a mezzo di medicamenti dannosi ad augusti pazienti. Era stata una “prima volta” giudiziaria in URSS. Queste accuse torneranno ad essere mosse quattordici anni dopo. Altri medici saranno accusati, ma la loro sorte sarà diversa. 1952. Tre medici, Kazakov, Levin e Pletnev sono accusati di avere assassinato il figlio di Gorkij e il dirigente comunista Menzinskij a mezzo di medicamenti letali (non meglio precisati lisati), su ordine dell’allora capo della polizia politica e attuale imputato Jagoda. Per preparare questa accusa la sceneggiatura parte dall’8 giugno 1937. Sulla “Pravda” di quel giorno appariva un lungo articolo di cronaca nera (un’eccezione per la stampa sovietica che, proprio come il fascismo in Italia, rifuggiva da questo genere di notizie capaci d’increspare la calma piatta dell’esistenza quotidiana), il cui titolo era: “Professore sadico usa violenza a una paziente”. Veramente la notizia non era delle più fresche, visto che i presunti fatti a cui si riferiva il pezzo erano accaduti tre anni prima, il 17 luglio del 1934. Secondo il giornalista della “Pravda” il professor Pletnev si sarebbe gettato addosso a una paziente, procurandole lesioni al petto che poi lui stesso aveva cercato di curare, benché, chiosava il giornale, non fosse esperto in malattie del petto. Mesi dopo, il 17 gennaio dell’anno successivo, la “Pravda” pubblicava una accorata lettera di quella paziente. Eccola. Che siate maledetto, criminale violatore del mio corpo! Siate maledetto, sadico che avete compiuto le vostre folli perversioni sul mio corpo! Vergogna e disgrazia ricadano su di voi, pianto e angoscia siano vostri come sono stati miei, da quando mi avete reso vittima, professore criminale, della vostra corruzione sessuale e delle vostre perversioni criminali. Vi maledico. Naturalmente era tutta un’invenzione, una macchinazione dell’Enkavedé, non nuova a cose del genere, usate anche dopo la morte di Stalin, per esempio negli anni Settanta contro un medico ucraino ebreo, Victor Stern. Il fatto che a occuparsi di un caso di criminalità comune, come sono lo stupro e la violenza, fosse stato proprio Visinskij, il Procuratore Capo che avrebbe accuratamente inscenato i grandi processi di Mosca, solleva qualche dubbio sulla veridicità dell’accusa. Dopo la lettera della presunta vittima, Pletnev si vedeva sommerso da insulti e da tutta una lunga serie di dichiarazioni di cosiddetti privati cittadini, che nella realtà sovietica si guardavano bene dallo scrivere ai giornali, fossero anche richieste di notizie sul tempo (così come i giornali non avrebbero pubblicato una riga che non fosse passata alla censura). Non mancavano di associarsi agli sdegni virtuosi anche le associazioni mediche, sportive e altro. Tra i medici che firmavano invettive contro Pletnev, benché fossero tutti convinti della sua innocenza, apparivano nomi di illustri clinici come Vovsi, Kogan, Zelenin, Serevesvskij e Vinogradov. Testimoniavano per l’accusa nel grande processo del marzo 1938. Ebbene, tutti questi medici chiamati a deporre nel ’38, nel 1952 saranno a loro volta arrestati, con le stesse accuse dei loro predecessori, torturati e scampati alla morte (salvo uno che non sopravvivrà alla tortura) solo perché la provvidenziale morte di Stalin nel marzo 1953 gli tolse il cappio dal collo. Torniamo per un momento al primo processo contro Pletnev che si era svolto il 17 e il 18 luglio 1937. La condanna però era stata eccezionalmente mite, almeno in rapporto a tutto il clamore sollevato. Due anni. Ma Pletnev non sarebbe mai più uscito dal carcere dove l’attendeva un destino peggiore. Alla luce di queste coincidenze, non è azzardato affermare che l’accusa, il processo e la condanna di Pletnev nel 1937, erano tutte in funzione della sua testimonianza e autoaccusa al grande processo politico del marzo 1938. Qui anche Pletnev tentava al principio di dichiararsi innocente del reato ascrittogli, cioè di avere avvelenato – o scientemente curato male – una serie di personaggi del regime, ma il peso di quella condanna per stupro non era fatto per migliorare la sua posizione. Ecco come erano andate le cose in aula. Di scena, come al solito, Visinskij.

Visinskij – Per quanti anni avere esercitato la vostra professione di medico? Pletnev – Per quarant’anni. Visinskij – Ritenete di averla esercitata in modo irreprensibile? Pletnev- Sì, penso di sì. Visinskij – Durante questi quaranta anni, non avete mai commesso alcun reato collegato alla vostra professione di medico? Pletnev – Voi siete a conoscenza di uno. Visinskij – Vi chiedo allora perché affermate che il vostro lavoro per quarant’anni è stato irreprensibile. Pletnev – Sì, ma dato che quella volta ho negato… Visinskij – Credete che la sentenza, nel caso che vi è perfettamente noto, il caso di una violenza che commetteste su una vostra paziente, sia una macchia nella vostra reputazione? Pletnev – La sentenza sì… Visinskij – Quella sentenza è una macchia nella vostra reputazione o no? Pletnev – Lo è. Visinskij – Sicché ci furono momenti di vergogna durante questi quarant’anni? Pletnev – Sì. Visinskij – Non vi siete riconosciuto colpevole di qualche cosa? Pletnev – Non posso dire di non essermi riconosciuto colpevole di nulla. Vyshisnskij – Sicché vi siete riconosciuto colpevole di qualche cosa? Pletnev – Sì.

L’interrogatorio che cosa metteva in evidenza? Primo, Pletnev non riconosceva la sua colpevolezza nella vicenda dello stupro. Ammetteva però che la sentenza era una macchia sulla sua reputazione e che al precedente processo aveva confessato la sua colpevolezza. Quindi non si riconosceva colpevole, ma solo di averlo confessato. Secondo, Visinskij non si curava che Pletnev fosse stato o no colpevole, ma solo che a suo tempo lo avesse confessato. Il suo scopo, quello d’infangare l’imputato, era dunque raggiunto. Qui i tre medici alla sbarra, Pletnev, Levin e Kazakov, erano accusati di avere volutamente somministrato ai loro illustri pazienti medicamenti (i famosi e non meglio precisati “lisati”) in sé non dannosi, ma dannosi nel caso specifico. La sfumatura era diabolica, ma autorevoli scienziati, come Vinogradov e Seresevskij, erano stati costretti ad avallare l’accusa. Poi sarebbe toccato a loro.

Bibliografia “A domanda confessa”
Stalin – Boris Souvarine – Adelphi
Stalin – Adam B. Ulam – Garzanti
Le mie memorie – Nadezda Mandelstam – Garzanti
Arcipelago Gulag - Aleksandr Solgenicyn – Mondadori
Viaggio nella vertigine – Eugenia Ginzburg - Mondadori
Il grande terrore – Robert Conquest – Rizzoli
I russi – Hedrick Smith – Bompiani
Siberia ’43 – Fidia Gambetti - Auteditroma
I figli del partito – Anita Galliussi – Vallecchi
Lo stalinismo – Roy Medvedev – Mondadori
I grandi processi di Mosca – a cura di Giuseppe Averardi – Rusconi
Le long retour – Esther Markish – Robert Laffont
Senza di me - Eduard Samuilovic Kuznezov - Longanesi
Nell’occhio del Cremlino – Coen e Tas – Panmilano
Il radioso avvenire – Aleksandr Zinov’ev – Spirali
Vita e Destino - Vasilij Grossman – Jaca Book
L’antisemitisme sans juifs – Paul Lendvai – Fayard
Hotel Lux – Ruth von Mayenburg – Editoriale Nuova
Les otages – Grigori Svirski – Seuil
Les Juifs en URSS – Gerard Israel – Robert Laffont
Le memorie di Dmitrij Sostakovic – a cura di Solomon Volkov – Mondadori
Buio a mezzogiorno – Arthur Koestler - Mondadori


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