Osserva Ariel Toaff nell'introduzione del suo libro che "a proposito delle torture è bene ricordare che, almeno dagli inizi del Duecento, nei comuni dell'Italia settentrionale il loro uso era disciplinato non solo dai trattati, ma anche dagli statuti.
Come strumento per l'accertamento della verità, la tortura era ammessa in presenza di indizi gravi e fondati e in casi considerati da podestà e giudici di reale necessità. Successivamente le confessioni estorte in questo modo per essere ritenute valide andavano confermate dall'inquisito in condizioni di normalità, cioè non sotto la costrizione del dolore o della minaccia dei tormenti". Capiamo che la scrupolosità formale sia cosa affascinante e ammirevole per le menti inclini all'ordine; ma l'idea che la tortura, se disciplinata da regole e trattati, diventi uno strumento legittimo e attendibile di formazione della prova è alquanto divertente. Tuttavia, sottolineare che le confessioni estorte con la tortura divenivano valide se e soltanto se confermate dall'inquisito in "condizioni di normalità", è davvero un capolavoro. Figuratevi voi in che condizioni di "normalità" sareste dopo che vi hanno cavato gli occhi, schiacchiato le dita e stirato la colonna vertebrale con la ruota e senza la minima garanzia che non ricomincino, salvo il fatto che, al momento non minacciano di farlo. A giudicare da quanto dice Toaff, rileggevi il verbale in braille e firmavi con le dita dei piedi dopo aver apportato alcune correzioni.
Ritrattare non era consigliabile. Anche questo non rientrava nella "normalità". Vista questa base concettuale solida come il marmo, c'è da immaginare quale sia il rigore e l'obbiettività con cui è stata riesaminata l'attendibilità dei verbali dei processi. Di che sorprendersi? È la storiografia postmoderna, bellezza. Siamo nel genere di quella signora "storica" inglese che ha "scoperto" che Dante si faceva le canne. Perché? Ma perchè anche ai suoi tempi l'erba esisteva, e quindi, vista la sua fantasia esuberante, non poteva non essersene fatta qualcuna