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La Stampa Rassegna Stampa
11.02.2007 Il tentato rapimento di Elie Wiesel
non fa notizia in TV, sui giornali si

Testata: La Stampa
Data: 11 febbraio 2007
Pagina: 44
Autore: Elena Loewenthal
Titolo: «Sequestra Wiesel e gli intima " Nega la Shoah ! "»

La notizia è stata diffusa da un GR radio già nel pomeriggio di ieri, 10/02/2007. Ma sui TG della sera, tutti compresi, non ha avuto nessuno spazio. Solo sul TG2 delle 20,30, usciva con quattro parole nella striscia mobile  che compare sullo schermo in basso. Tutti qui. Che la notizia riguardasse il tentato rapimento a San Francisco di Elie Wiesel contava dunque poco. Sui media di oggi, invece, viene riportata e commentata. Riprendiamo quello di Elena Loewenthal dalla STAMPA di oggi, 11/02/2007, a pag.44:

Come un sogno tremendo che ci si deve scrollare via di dosso prima di articolare con le parole, Elie Wiesel - sopravvissuto alla Shoah, scrittore e studioso, premio Nobel per la pace - ha aspettato qualche giorno per riuscire a raccontare quel che gli era successo. Il primo febbraio, in un albergo di San Francisco in cui l'intellettuale si trovava in occasione di un incontro interreligioso, un uomo ha chiesto di poter parlare con lui. Poi l'ha trascinato verso l'ascensore, con l'intenzione di sequestrarlo dentro una stanza e estorcergli l'ammissione che il suo libro La Notte - e con esso tutta l'esperienza concentrazione - sarebbe una fandonia. Ma Wiesel ha gridato come soltanto chi è stato ad Auschwitz ha imparato a gridare, mettendo in fuga l'aggressore. Di lui si sono perse le tracce. Non proprio tutte: nel parcheggio dell'albergo è stata tovata un'automobile con dentro una patente di guida intestata a Harry Hunt, noto come membro di un gruppo di negazionisti. Questo stesso nome è comparso il giorno dopo su un sito virulentemente antisemita registrato in Australia da un tal Andrew Winkler, per rivendicare l'aggressione ai danni di Elie Wiesel.
Questa è la cronaca degli eventi, nella quale va altresì registrato lo sgomento del quasi ottantenne scrittore. Certo, il tempo vissuto porta alla vita una fragilità che, combinata con la saggezza regalata dagli anni, diventa paura smarrita. Ma il trauma di Wiesel a seguito di questa aggressione non si giustifica con l'età. È qualcosa di più profondo. Viene di laggiù, dai campi della morte.
Laggiù, anche i sogni non erano più sogni. Mangiare, racconta Primo Levi, si diceva in tedesco con il verbo usato per le bestie feroci: non essen ma fressen - divorare, dilaniare. Nemmeno i sogni esistevano più: s'amalgamavano tutti in un incubo ricorrente, di giorno così come di notte, racconta ancora Primo Levi. L'incubo era quello di sopravvivere all'inimmaginabile, tornare a casa, ritrovare tutto come prima. E raccontare, senza essere creduti. Raccontare, suscitando beffa invece di sgomento. Incredulità invece di paura. Era questo che ripetevano con una risata trionfale i nazisti ai prigionieri del campo: non vale la pena che vi teniate aggrappati a questa specie di vita, non vale la pena sperare che tutto finisca, perché una volta usciti di qui nessuno crederà alle vostre parole. Anche se sopravviverete, vi abbiamo annientati comunque: questo dicevano i nazisti ad Auschwitz.
Elie Wiesel, che nel campo della morte trova Dio soltanto in un bambino penzoloni sulla forca - solo lì ormai, e non più nella fede con cui era arrivato nel lager -, racconta in fondo quello stesso incubo. Quando tutto finì, quando i sopravvissuti tornarono a casa, quell'incubo non si avverò propriamente. Rimase latente, si trasformò nella cupa consapevolezza che quel laggiù non lo si sarebbe mai lasciato del tutto. Esso tornava. Ad ora incerta. Ma tornava: come quella mattina d'aprile di vent'anni fa esatti in cui Primo Levi non poté far altro che gettarsi nella tromba delle scale.
Il terrore di non essere creduti e prima ancora di non ricevere ascolto al proprio ritorno dai campi della morte accomuna tutte le esperienze concentrazionarie: «non vorrei mettere in dubbio la vostra sincerità, ma non posso prestar fede al vostro racconto» dice un giornalista svizzero a un sopravvissuto. Queste parole sono comprese nel vasto repertorio «non ascoltati/non creduti» del saggio che Pier Vincenzo Mengaldo ha dedicato di recente alla questione del linguaggio - o meglio dell'afasia - nella Shoah, La vendetta è il racconto (Bollati Boringhieri).
Harry Hunt, negazionista dilettante che ha cercato di sequestrare Elie Wiesel per fargli ammettere che la Shoah non è mai esistita e che lo scrittore s'è inventato tutto, è il fantasma di quell'incubo ricorrente. E' la figura aggressiva e insolente dell'incredulità: nega e non vuol che sia stato perché non ha occhi per vedere, non ha orecchie per udire. E' un fantasma eppure è concreto come degli spintoni verso un ascensore d'albergo. Quel fantasma e non la faccia ottusa di un uomo qualunque, si è ritrovato davanti Wiesel qualche giorno fa in un albergo di San Francisco.


lettere@lastampa.it

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