Maurizio Debanne, scrivendo per EUROPA del 9 febbraio 2007 un articolo sui lavori nei pressi del Monte del Tempio, avversati dal mondo islamico, perde l'occasione di chiarire i termini della questione.
Poiché la campagna contro il lavori è pretestuosa e infondata, una corretta informazione non può presentare in modo equidistante la posizione israeliana e quella islamica. Non può presentare come una provocazione nei confronti del mondo islamico lavori di manutenzione che non danneggiano miniminamente il Monte del Tempio o le Moschee della Spianata e che non modificano lo status quo del controllo dei luoghi santi ebraici e islamici.
Debanne avrebbe per esempio potuto spiegare, con il giornale israeliano progressista Haaretez dell' 8.02, che
Vale la pena ricordare, a coloro che hanno dimenticato e a coloro che vorrebbero far dimenticare, che la situazione in atto sul Monte del Tempio e alla spianata del Muro Occidentale si fonda su uno status quo assai stabile che è in vigore da quarant’anni. Tale situazione venne perfettamente descritta da David Ben-Gurion nel giugno 1967 (all’indomani della riunificazione di Gerusalemme con la guerra dei sei giorni): “Il Muro Occidentale per il momento tocca agli ebrei, il Monte del Tempio per il momento tocca ai musulmani, e questo è lo stato di fatto che dobbiamo accettare”.
Contemporaneamente Moshe Dayan stabiliva che la Porta Mughrabi sarebbe rimasta sotto esclusivo controllo israeliano per evitare che le autorità islamiche avessero la possibilità di chiudere unilateralmente tutti gli accessi al Monte del Tempio. Dunque la costruzione della nuova passatoia che sale dal Muro Occidentale alla Porta Mughrabi fa parte dello status quo accettato e costituisce un fatto di importanza cruciale, cosa che non negano nemmeno le autorità del Wakf islamico.
(fonte israele.net)
Avrebbe anche potuto riportare questa denuncia di un'archeologa israeliana:
“Il Wakf si è comportato in modo terribile – denuncia la dottoressa Eilat Mazor, dell’Università di Gerusalemme – quando ha gettato in discarica, insieme a tonnellate di detriti, migliaia di manufatti dell’epoca del Primo e del Secondo Tempio, e dell’epoca islamica. Vogliono trasformare l’intera area del Monte del Tempio in una moschea ad esclusivo uso musulmano. A costoro non importa nulla dei reperti archeologici e del patrimonio storico del sito”.
Mazor aggiunge che esiste un nesso preciso fra l’abitudine degli esponenti dell’Autorità Palestinese di negare che sia mai esistito un tempio ebraico a Gerusalemme, e il modo in cui il Wakf ha trattato i reperti del sito. “C’è totale ignoranza della storia e dell’archeologia, e c’è la volontà di nascondere i reperti che testimoniano il passato storico”.
(fonte israele.net, da Ynet news del 7/02)
E' il Waqf a danneggiare il Monte del Tempio, non Israele. E' il legame degli ebrei con il Monte del Tempio ad essere negato e minacciato, non quello dell'islam con la Spianata delle Moschee.
Ecco il testo di Debanne:
Il controllo dei Luoghi Santi si conferma il nodo più intricato del conflitto israelo-palestinese-arabo. La collinetta di terriccio che, accanto alla porta sud occidentale dei Mugrabi, collega il Muro del Pianto con la Spianata delle Moschee, è per gli israeliani inaffidabile per via delle intemperie e del terremoto di tre anni fa. La soluzione, per loro, è la costruzione di un ponte in acciaio lungo 200metri.
Se l’Accordo di Ginevra fosse entrato in vigore, le ruspe israeliane prima di entrare in azione avrebbero dovuto ottenere l’avallo anche della controparte. Il contesto è però (tristemente) un altro. Ma la sfiducia fra le due parti sembra essere totale. Gli israeliani accusano il Waqf di aver condotto lavori clandestini nella Spianata e di aver distrutto importanti reperti ebraici. Il Waqf accusa Israele di «ebraicizzare a forza » Gerusalemme e di scavare di continuo sotto la Spianata, cosa che a suo parere rischia di destabilizzare la Moschea al- Aqsa. Quello che per gli uni sarà un ponte comodo concepito per favorire il passaggio degli invalidi è visto dagli altri come una rampa minacciosa costruita in acciaio per consentire in futuro l’ingresso nella Spianata «di forze di polizia e di coloni». In tempi andati per evitare malintesi un canale discreto di comunicazione collegava il Waqf col municipio di Gerusalemme.
Con l’inasprirsi del conflitto il canale si è ostruito, e ormai alle due parti non resta che scambiarsi messaggi attraverso i mezzi di comunicazione di massa.
Intanto il mondo islamico è insorto, temendo che i lavori possano arrecare danni alla Spianata delle Moschee.
Il clima è pesante. Già sono arrivate le prime minacce di attentati contro sinagoghe in tutto il territorio di Israele. Dopo le esperienze del 1996 (quando l'apertura al pubblico di un tunnel archeologico nella stessa zona provocò gravi tumulti armati palestinesi) e del 2000 (quando la visita del premier Ariel Sharon sulla contestata Spianata fu seguita da una insurrezione armata in Cisgiordania e a Gaza) la polizia israeliana sa benissimo che anche questi lavori possono innescare una fiammata politica e religiosa.
Le prime contromosse arabe sono già scattate.
La Lega Araba ha convocato per domani al Cairo una riunione straordinaria. «Questa aggressione rientra nei reiterati tentativi di Israele di imporre lo status quo a Gerusalemme», ha dichiarato il rappresentante palestinese nella Lega, Hussein Abdel Khaleq. Da parte sua l'Egitto ha convocato l'ambasciatore d’Israele al Cairo per protestare contro gli scavi e per far presente come questi possano danneggiare una ripresa del processo di pace da lungo in una situazione di stallo. Per oggi, giorno di festa e di preghiera nel mondo musulmano, i Fratelli musulmani hanno indetto una «giornata dell’ira» per protestare contro «l’aggressione» israeliana.
Non vi è alcun dubbio che questi lavori rischiano di trasformarsi in una nuova mina vagante per il governo israeliano di Ehud Olmert. L’esecutivo poi, ancora una volta, parla a più voci. Il ministro della difesa israeliano, Amir Peretz, in una lettera al premier, chiede l’interruzione dei lavori poiché potrebbero provocare pericolose reazioni nel mondo arabo.
Il vice ministro della difesa, Ephaim Sneh, ha puntualizzato che Peretz non ha chiesto che siano fermate le ruspe, ma di «aprire una riflessione» sul progetto. In breve il Partito laburista sostiene che la massicciata potrebbe restare al suo posto con dovuti lavori di rafforzamento. In ogni caso, secondo loro, è un errore andare ad un conflitto con il mondo islamico, in particolare con quei paesi che fanno opera di moderazione nella regione: una allusione non troppo velata alla Giordania, che ha reagito con particolare energia ai lavori. «Un esame dell'argomento in questione rivela che niente che riguarda i lavori in corso può danneggiare qualcuno e non ci sono motivazioni giuste nel contestarli», così Olmert ha respinto l’appello. Il premier si appoggia alle nuove tecnologie per sostenere le sue posizioni. L’ufficio di Olmert ha infatti annunciato che saranno installate alcune telecamere nella zona adiacente alla Porta dei Mugrabi, le cui immagini saranno trasmesse in diretta per consentire a chiunque al mondo di seguire via internet l'andamento dei lavori. Basterà a placare le ansie generate nel mondo islamico? Sembra proprio di no.
Le difficoltà per il premier israeliano non finiscono qui.
«Bush contro Olmert». Non usa giri di parole un editoriale del quotidiano israelianoHaaretz nel quale l’analista politico Aluf Benn sostiene come il problema più grosso per il premier israeliano sia il divieto di Bush a trattare con la Siria. «Davanti alla scelta tra il proseguimento di una guerra ideologica contro il terrorismo o una politica realistica, Bush ha scelto l’ideologia».
Olmert resta così schiacciato da questo schema, ma il paese non è con lui, spiega Benn. E dire che l’ex sindaco di Gerusalemme non avrebbe neanche la grana di convincere l’intero partito. A differenza dei neocon Kadima non ha un’ideologia, il collante è la volontà di governare e di arrivare ad una pace de- finitiva con i palestinesi. L’opinione pubblica ha accolto con favore le caratteristiche di questa nuova formazione centrista, apprezzandone in special modo la stabilità che avrebbe potuto offrire al paese. Di stabilità però neanche l’ombra, basti ricordare l’inconcludente conduzione della guerra in Libano. La lezione gli israeliani sembrano averla capita e vogliono anche metterla in atto: vediamo le carte di Damasco, non abbiamo nulla da perdere. Loro forse no, ma di sicuro l’amministrazione Bush sì perché sarebbe una vera e propria sconfessione della loro politica.
Olmert ha insomma le mani legate, troppo importante è il supporto americano per lo stato ebraico. E le ha ancor più strette in questo periodo nel quale Israele e Stati Uniti hanno avviato i colloqui per decidere l'ammontare degli aiuti economici che il governo israeliano chiederà a Washington nei prossimi anni.
È scaduto infatti l'accordo decennale siglato nel 1997 da Benjamin Netanyahu. Bush ha già chiesto al Congresso di stanziare 2,4 miliardi di dollari in aiuti finanziari per la sicurezza dello stato ebraico. Non bastano a Olmert per riconquistare la fiducia degli israeliani. Anche perché non è un questione di soldi.
Politicamente cresciuto fra i revisionisti sionisti di destra e nel Likud, per maturare poi una evoluzione pragmatica negli anni recenti, Ehud Olmert l’ha pur spuntata alle elezioni politiche di un anno fa ma la vera sfida della sua vita non l’ha ancora vinta. Dimostrare di essere un leader in Israele è difficilissimo, per lui sembra un’impresa.
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