Debora Esther Kreitman Singer
Baldini Castaldi Dalai Euro 17,50
E’ uno shabbat d’inizio Novecento in un piccolo villaggio ebraico, al limitare delle pinete polacche. Tra le case sghembe come in un quadro di Chagall “perfino il vento e la neve si riposano”. Nella capanna più misera dello shtetl, una ragazza chiede al rabbino suo padre, che loda gli studi del fratello: “E io che cosa sarò un giorno?”. “Cosa sarai tu un giorno? Niente, è ovvio” risponde il pio rabbi. E’ l’inizio, poetico e amaro, del romanzo autobiografico Debora (Baldini Castaldi Dalai), di Esther Kreitman Singer. Una scena domestica non troppo bizzarra in una famiglia di ebrei ortodossi di un secolo fa, quando l’unico destino concepibile per una donna era il matrimonio. Se non fosse che la famiglia descritta è forse la più importante della letteratura yiddish del Novecento: l’autrice Esther Singer era infatti la sorella maggiore del premio Nobel 1978 per la Letteratura, Isaac Bashevis Singer (l’autore di Satana a Goray, Nemici, Shosha) e dell’Israel Joshua Singer de I fratelli Askenazi.
Una valente scrittrice, schiacciata dall’ambiente familiare mentre Israel e Isaac mietevano successi e ora, grazie a nuove traduzioni (la critica femminista la considera una sorta di Virginia Woolf ebrea) finalmente uscita dall’ombra.
A ricordare Esther Singer, accompagnandoci alla scoperta di Debora, il suo romanzo più importante (pubblicato in yiddish a Varsavia nel 1936, riedito in Inghilterra e negli USA, oggi tradotto per la prima volta nel nostro paese) è la nipote, la pittrice Hazel Karr.”I fratelli Singer erano dei folli geniali” commenta con voce argentina dal suo atelier di Parigi.
“Per quel che so dai racconti di famiglia, i rapporti tra loro non furono mai facili. L’unico che seguì le orme del padre, il rabbino Pinkhas Mendl, fu Moishe. Lui e la madre Bassheve morirono, si dice di stenti, alla vigilia della seconda guerra mondiale. Esther, Isaac e Israel invece si salvarono perché erano già emigrati all’estero. Tentarono di lasciarsi alle spalle l’ambiente in cui erano cresciuti, anche allontanandosi l’uno dall’altro. Ma continuarono a scrivere della loro infanzia, non riuscirono mai a liberarsene”.
Il mondo in cui crebbero i Singer era quello della Polonia dei primi decenni del XX secolo. Un universo di quartieri e villaggi “totalmente ebraici”, come scrive Esther Singer, che fu poi completamente cancellato dalla Shoah. Lo stesso ambiente intriso di misticismo, dominato da cabalisti e santoni (gli zaddik della tradizione chassidica) che Isaac Singer rievocò magistralmente nell’autobiografia “Alla corte di mio padre” e che trova in “Debora” un doloroso, ancor più claustrofobico contraltare.
Nato in una famiglia colta ma poverissima (il padre sosteneva di discendere addirittura dal re Davide) i fratelli Singer crebbero prima a Bilgoraj per poi spostarsi a Radzymin e infine a Varsavia, dove Pinkas Mendl si guadagnava da vivere risolvendo dispute matrimoniali. Mentre Isaac, Israel e Moishe studiavano nelle Yeshiva, le scuole religiose, e la madre Bassheve passava il tempo leggendo, a Esther toccavano le faccende domestiche. L’unica figlia, soprannominata Hindele, crebbe taciturna e timida, convinta che i genitori la disprezzassero. Come scrive nel suo alter ego in Debora (dove le figure dei tre fratelli si fondono in una sola, quella dell’ironico, pungente Michael) “non riusciva a venire a patti con il mondo che la circondava”.
Innamorata di un giovane ebreo di idee socialiste, finì per accettare un matrimonio combinato con un tagliatore di diamanti. Alla vigilia delle nozze fu la stessa Bassheve a convincere Esther dell’opportunità di distruggere tutti i quaderni in cui, fin da piccola, annotava racconti e aneddoti.
La giovane acconsentì, prima di trasferirsi con il marito ad Anversa. E se il racconto di Debora si chiude nella città belga, in pagine allucinate che sembrano annunciare lo sterminio nazista, l’esistenza di Esther Kreitman Singer proseguì, inquieta, attraverso l’Europa. Ebbe un figlio, Morris (che poi si farà chiamare Maurice Carr) e con lui rientrò a Varsavia prima dello scoppio della guerra.
Poi riparò a Londra, dove visse fino alla morte, nel 1954, a 63 anni. Israel e Isaac emigrarono negli Usa: il primo scomparve nel 1944, il secondo divenne il famoso scrittore che tutto il mondo conosce.
“Il matrimonio tra lei e Avrham Kreitman non fu mai felice” spiega Hazel.
“Maurice, mio padre, era l’unico al mondo da cui si sentiva amata. Quando lui sposò mia madre Lola, figlia di un conoscente, lo scrittore A.M. Fuchs, divenne gelosa. Lola glielo aveva rubato.”.
Anche con le nipoti, Hazel e la sorella, nonna Esther non fu capace di stabilire un rapporto sereno. “Quando ero piccola avevo paura di lei.Forse avrò visto casa sua in estate, ma la ricordo solo in inverno, come in un’interminabile giornata di pioggia. Fredda e povera”.
Maurice Carr, a lungo corrispondente per il Jerusalem Post, fu però molto devoto alla madre: negli anni Cinquanta la aiutò a tradurre Debora in inglese e pubblicarlo in Gran Bretagna. E difese sempre la sua memoria.
“Quando abitavamo a Tel Aviv, zio Isaac venne a trovarci” ricorda Hazel. “Durante una conversazione, ribadì quel che pensava. “Tua madre era pazza”, disse a mio padre.
Litigarono e non fecero più la pace”.
Un’opinione che il premio Nobel mitigò solo in vecchiaia.
“In Alla corte di mio padre Isaac scrisse che Esther soffriva di isteria e sembrava a tratti posseduta da un dibbuk,l’anima dannata di un defunto. Ma quando era anziano dichiarò che Hindele, anche se non aveva il talento del fratello Israel, era comunque la migliore scrittrice in Yiddish che conoscesse”.
E poi, aggiunge Hazel Karr con tenerezza, “Esther lottò con gli altri e con sé stessa per potersi esprimere scrivendo. Credo sarebbe felice di vedere che sono diventata ciò che volevo, un’artista, senza che nessuno decidesse per me”.
Lara Crinò
Il venerdì di Repubblica