Chi critica D'Alema combatte ancora la guerra fredda o non sarà per caso, al contrario, proprio il titolare della Farnesina a coltivare vecchi pregiudizi antiamericani ?
Testata: Europa Data: 08 febbraio 2007 Pagina: 1 Autore: Guido Moltedo Titolo: «Condi, Max e gli echi della guerra fredda»
Pregiudizi da guerra fredda dietro le critiche americane a D'Alema? A noi sembra il contrario. Gli echi della guerra fredda stanno tutti nella politica antiamericana del titolare della Farnesina. Guido Moltedo, nel suo editoriale, ribalta la realtà.
Da EUROPA dell'8 febbraio 2007: Si è romanzato più del dovuto sulla cordialità del rapporto tra Condoleezza Rice e Massimo D’Alema. Il tu esibito, il «Condi» e il «Massimo», i sorrisi, l’affabilità, la frequenza degli incontri e dei contatti. Contano molto questi aspetti, ovviamente, specie nella diplomazia d’oggi, un mondo dove ancora vigono tradizioni e regole consolidate, ma in cui la relazione personale tra colleghi ministri può fare la differenza. Però, proprio perché il piano personale ha un peso, si è trascurato un piccolo dettaglio: la segretario di stato non ha cambiato idea sul suo interlocutore italiano: «He’s a communist ». Condi Rice avrà anche corretto la sua linea di condotta, rispetto al primo mandato di Bush e rispetto alla fase della dottrina unilateralista di cui è stata lei stessa, da consigliere per la sicurezza nazionale, uno dei principali artefici e registi, con Don Rumsfeld e Dick Cheney. Avrà pure mutato linea, ma non la testa. Che è quella di una convinta neoconservatrice. Dal suo punto di vista, alla Farnesina c’è un ex-comunista – ma l’ex poco importa – e dunque un avversario dell’America. Peter Secchia, che rappresentò Bush padre in Italia negli anni 90 e che oggi parla senza i vincoli del diplomatico, ha detto ieri al Corriere che «se lo [D’Alema] avessimo ascoltato negli anni in cui ero ambasciatore a Roma forse oggi ci sarebbe ancora l’Urss». Ecco, è questo il giudizio stereotipato su protagonisti della politica italiana, come l’attuale ministro degli esteri, che gira ancora oggi in certi ambienti repubblicani americani, compresi i piani alti dello State Department. Anche a dispetto del fatto che proprio il governo guidato da Massimo D’Alema sia stato in prima linea nella guerra del Kosovo a fianco dell’amministrazione Clinton. La crisi che si è aperta in questi giorni nelle relazioni transatlantiche trae in parte origine, ed è resa più complicata, proprio da questo substrato ideologico, che di tanto in tanto affiora, e che è del tutto speculare al vetero antiamericanismo che appesantisce la politica internazionale del governo Prodi. Non si tratta, tuttavia, semplicemente di una coda, per certi versi grottesca, dell’epoca della guerra fredda. Da parte americana, l’inusitata e “irrituale” pressione sull’Italia sembra anche il sintomo di uno stato di nervosismo che va oltre il merito dei temi in questione, la missione in Afghanistan e la base di Vicenza. In un quadro internazionale oggi così complicato, e perfino drammatico, la sola idea di non potere più fare ciecamente affidamento su un alleato come l’Italia è una notizia negativa in sé per sé per Washington, ma ha anche un significato più ampio. Implica che non funziona più la politica seguita soprattutto nella fase nascente della crisi irachena, ma mai abbandonata, tesa a dividere l’Europa in buoni e cattivi e a sottrarsi a un rapporto complessivo con l’Unione Europea. Ma soprattutto è un’altra conferma della sindrome che oggi inquieta l’America, non solo l’America di Bush. È la sindrome della perdita dello status di unica superpotenza mondiale, dopo la caduta del Muro, a vantaggio di un asse strategico che si sposta inesorabilmente in Estremo Oriente. Al recente Forum economico mondiale di Davos, «per la prima volta, che io ricordi, l’America era in qualche modo periferica», ha scritto su Newsweek Fareed Zakaria. «C’erano poche domande, lamentele o invettive» nei confronti dell’America e si aveva l’impressione di gente che «sta andando oltre l’America» e «oltre George Bush». Intrappolati in Iraq e ancora troppo impegnati in Afghanistan, gli Stati Uniti fanno fatica a ridisegnare una politica internazionale che tenga conto dei nuovi rapporti di forza che nel prossimo decennio condizioneranno il mondo. Ma questa difficoltà, che è già essa stessa il sintomo evidente di un declino in atto, può fare felici solo gli antiamericani dell’archeologia politica o quei circoli europei che pensano di fare fortuna sulle disgrazie dell’America. La ridefinizione dello scacchiere mondiale interessa evidentemente tutto l’Occidente, non solo gli Stati Uniti. E se è miope un’America conservatrice che si ostini a pensare di farcela senza o contro l’Europa, è cieca un’Europa che contempli la fi- ne del bushismo – ancora due anni, un periodo lunghissimo in politica – immaginando che dopo tutto sarà più semplice. In quest’ottica più ampia va vista la crisi scatenata dalla lettera dei sei ambasciatori guidati da Ron Spogli. Potrà pure essere presto archiviata – «tra qualche giorno non se ne ricorderà più nessuno», sostiene Andreotti – e sarebbe un bene per le relazioni transatlantiche. Non in nome di un quieto tirare avanti, ma se l’incidente sarà uno stimolo per l’America e per l’Italia – specie nelle sue vesti di membro autorevole dell’Unione Europea – ad andare oltre la contemplazione ideologica di una guerra fredda finita da un pezzo, ma per prepararsi ad affrontare insieme la nuova grande sfida planetaria.
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