La crisi diplomatica nella coalizione guidata dalla Nato in Afghanistan l'analisi di Maurizio Molinari
Testata: La Stampa Data: 07 febbraio 2007 Pagina: 1 Autore: Maurizio Molinari Titolo: «Io combatto e tu no»
Dalla STAMPA del 7 febbraio 2007:
La crisi diplomatica innescata dalla lettera dei sei ambasciatori rivela i due disaccordi nella coalizione guidata dalla Nato in Afghanistan. Su quali soldati devono battersi contro taleban e Al Qaeda e su quanto sostegno politico-economico bisogna dare alla giovane e traballante democrazia di Kabul. Il primo disaccordo è militare. Se i comandi della Nato dispongono di circa 35 mila uomini non tutti possono essere adoperati per le operazioni combattenti nel Sud e nell’Est perché alcune nazioni con significativi contingenti - Germania, Italia e Spagna - rifiutano di mandare uomini all’assalto delle roccaforti di taleban e miliziani di Al Qaeda. I «caveat» imposti da queste nazioni sono all’origine delle dure proteste sollevate dagli ambasciatori del Canada a Washington, Michael Wilson, ed alla Nato, Jean-Pierre Juneau, per il fatto che Ottawa ha perso negli ultimi mesi 36 uomini nelle battaglie attorno a Kandahar, sostenendo il 20% delle perdite della coalizione, mentre i reparti tedeschi erano a Kabul e quelli italiani ad Herat, in zone meno pericolose. Usa, Gran Bretagna, Olanda, Australia e Romania hanno schierato soldati a fianco dei canadesi, hanno subito perdite e condividono le critiche agli «altri alleati» sollevate senza troppe remore ed in più occasioni dal premier di Ottawa, Harper. Il summit della Nato a Riga in novembre identificò il compromesso nella possibilità per Italia, Spagna e Germania di spostare i soldati a Sud «in situazioni di emergenza con l’avallo dei governi nazionali» ma la timidezza della formulazione non ha fatto che aumentare le incomprensoni. Sono tensioni militari tanto più pericolose quanto avvengono nel bel mezzo della maggiore operazione bellica mai intrapresa dall’Alleanza atlantica, iniziata dopo l’11 settembre 2001 invocando per la prima volta l’articolo 5 sull’autodifesa contro il regime dei taleban che aveva consentito ad Al Qaeda di organizzare l’attacco terroristico all’America. Se il presidente Bush e il Segretario generale dell’Alleanza Jaap de Hoop Scheffer ripetono che «il futuro della Nato è in gioco in Afghanistan» è perché un fallimento militare contro i taleban potrebbe pregiudicare il futuro del Patto del 1949. La tendenza delle feluche a nascondere il problema militare non fa che renderlo più dirompente ogni volta che si manifesta: come avverrà domani a Sivilia quando i ministri della Difesa discuteranno la richiesta di inviare altri 4000 soldati nelle zone dell’Ovest, dove si trovano anche i nostri contingenti. Senza contare che il generale americano Dan McNeill ha appena assunto il comando del fronte Sud con la missione di preparare l’offensiva di primavera contro i taleban che operano lungo i confini con il Pakistan, in prossimità delle aree tribali dove potrebbero ancora oggi nascondersi Osama bin Laben ed il mullah Omar. Il disaccordo militare è la cartina tornasole di quello politico: con il summit di Riga la Nato si è assunta la responsabilità dell’intero Afghanistan. L’Alleanza non manda solo soldati ma anche tecnici, ingegneri, giudici e medici in un’operazione di ricostruzione nazionale di lungo termine che richiede ingenti fondi ed un costante sostegno internazionale. Costruire strade e ponti in Afghanistan aiuta il governo di Karzai a rafforzarsi mentre una carenza di impegno economico consente ai taleban di sognare la rivincita. Pochi sanno che un militare afghano riceve 200 dollari al mese di stipendio mentre ad un guerrigliero taleban ne arrivano 300. Da qui le pressioni di Washington e Londra sugli alleati affinché continuino a tenere gli aiuti all’Afghanistan in cima all’agenda. Non a caso nel quartier generale della Nato a Bruxelles si legge la lettera agli italiani firmata dagli ambasciatori di sei nazioni convinte della priorità strategica dell’Afghanistan - Usa, Gran Bretagna, Canada, Australia, Olanda e Romania - con il crescente timore che Roma iniziando a smarcarsi dalla coalizione militare possa portare anche ad un serio indebolimento di quella politica.
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