Combattere il terorrismo sacrificando Israele l'idea di Sergio Romano è illusoria
Testata: Corriere della Sera Data: 05 febbraio 2007 Pagina: 27 Autore: Sergio Romano Titolo: «Come combattere i terroristi senza crearne altri»
Pensare che terrorismo e fondamentalismo abbiano radici profonde nell'islam è razzismo. Risolvere il conflitto israelo-palestinese è la cosa più urgente da fare per sconfiggere il terrorismo islamista... Lo sostiene Sergio Romano rispondendo a un lettore sul CORRIERE della SERA del 5 gennaio 2007.
Torna dunque l'idea, illusoria, di sacrificare Israele (con una falsa pace che sarebbe solo un premio e un incoraggiamento al terorrismo) per salvare l'Occidente.
Idea illusoria, perché per il fondamentalismo Israele è soltanto la prima linea del fronte. L'obiettivo è distruggere tutte le società libere.
Ecco il testo:
Nella risposta «Somalia: ragioni vecchie e nuove di crisi» lei avanza ragionevoli dubbi su quanto esposto dal lettore. Non ho trovato, tuttavia, una risposta ai quesiti che egli pone: «Quale soluzione resterebbe? Dobbiamo concludere che il pericolo non esiste, e se esiste è meglio far finta di nulla, lasciando che il problema sia risolto dalle nazioni anglosassoni?». Poiché riguardano il nodo centrale del problema mi permetto di richiamarli alla sua attenzione, sperando in una cortese risposta. Marcello Morelli
Caro Morelli, altri lettori mi hanno posto la stessa domanda. Proverò a riprendere l'argomento e a darle una risposta. Credo che il fanatismo religioso e il terrorismo islamico siano fenomeni minoritari, limitati a qualche frangia del mondo musulmano. Certo è possibile sostenere (molti hanno adottato questa posizione negli ultimi anni) che il fenomeno esprima alcune tendenze di fondo, radicate da sempre nella natura dell'Islam, e che abbia un enorme retroterra culturale. Ma queste convinzioni sono implicitamente razziste e presuppongono una totale incompatibilità fra «noi» e «loro». Se questo fosse il suo pensiero, caro Morelli, rinunci a leggere il seguito della mia lettera. Non riuscirei mai a convincerla. Un fenomeno radicale, estremista e pronto a un uso spregiudicato della violenza, ma strettamente minoritario, può recare grande danno alla nostra vita civile, insidiare la nostra esistenza, approfittare delle nostre libertà per colpirci. Ma può sopravvivere e continuare a colpire soltanto se riesce a reclutare seguaci e a suscitare, nel mondo da cui proviene, sentimenti di simpatia. Deve adottare, per certi aspetti, una tattica simile a quella del terrorismo sociale degli anni Settanta e Ottanta, quando alcuni gruppi relativamente piccoli (Brigate Rosse, Prima Linea, Rote Armee Fraktion), riuscirono per qualche anno a nuotare, come avrebbe detto Mao, in un consenso più vasto. Anche a costo di qualche contaminazione, il terrorismo islamico, per raggiungere il suo scopo, deve sfruttare le ingiustizie, vere o presunte, di cui una parte del mondo musulmano si considera vittima. Questo è esattamente ciò che i maggiori esponenti del fanatismo religioso hanno fatto nel corso degli ultimi trent'anni anni spostandosi con le loro cellule e con la loro pedagogia rivoluzionaria là dove avevano maggiori possibilità di conquistare l'animo di nuovi adepti. Lo hanno fatto in Libano e nei territori occupati da Israele, in Afghanistan all'epoca della lotta contro i sovietici, in Algeria dopo il putsch con cui i militari soppressero il risultato delle elezioni nel 1992, in Bosnia durante il conflitto dei musulmani bosniaci contro i serbi e i croati, in Cecenia contro i russi, in Iraq contro gli Stati Uniti e i loro alleati, in Somalia contro i signori della guerra. La strategia, in ciascuno di questi casi, è la stessa. Il fondamentalismo religioso si presenta come il paladino degli oppressi, il restauratore della virtù e dell'integrità morale, il custode della tradizione e del sentimento nazionale, il difensore del popolo contro i soprusi e l'arbitrio degli stranieri e dei loro alleati. Che cosa dovrebbero fare l'Europa e gli Stati Uniti in tale situazione? Dovrebbero ricordare anzitutto che esiste una fondamentale differenza fra la strategia dei gruppi terroristici e il seguito di cui essi possono godere in un particolare Paese. E dovrebbero tenere presente che la soluzione di una specifica ingiustizia (la questione palestinese ad esempio) può servire, più della guerra, a rompere le alleanze che Al Qaeda è riuscito a stringere con alcuni gruppi nazionali. Non abbiamo ricette universali e vi sono circostanze in cui intervenire dall'esterno è spaventosamente difficile. Ma potremmo almeno evitare di fornire qualche alibi ai terroristi dando al mondo musulmano la sensazione (come è accaduto in Iraq, in Libano e in Somalia) che le loro vittime civili sono per noi un danno collaterale, un rischio accettabile, un incidente di percorso.
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