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La Stampa Rassegna Stampa
03.02.2007 Orhan Pamuk, minacciato di morte, fugge dalla Turchia
e, anche lui, come tanti altri, cerca in Usa la libertà

Testata: La Stampa
Data: 03 febbraio 2007
Pagina: 9
Autore: Enzo Bettiza
Titolo: «In fuga dal nuovo Gulag del fanatismo»

Orhan Pamuk fugge negli Stati Uniti per salvarsi dalle continue minacce di morte.Abbandona il suo Paese,la Turchia, per salvare la propria vita e si rifugia in quel paese che già ospita una lunga schiera di persone in fuga dai paesi islamici. Ma non solo, anche dall'Europa, dove la presenza dei fondamentalisti islamici ormai la fa da padrone, è il caso di Ayaan Hirsi Ali, che ha dovuto lasciare l'Olanda. Anche lei ha trovato rifugio in Usa.

Sul caso Pamuk, pubblichiamo il commento di Enzo Bettiza, uscito sulla STAMPA oggi 03/02/2007 a pag.9:

Si può ben dire che il recente viaggio in Turchia di Prodi è stato altrettanto encomiabile nelle intenzioni quanto sfortunato sullo sfondo delle ultime e desolanti cronache turche. Prodi, nella sua duplice veste politica e simbolica, di Capo del governo italiano ed ex presidente della Commissione di Bruxelles, aveva ottimisticamente dichiarato ai suoi interlocutori di Ankara che il destino di una Turchia riformata «non potrà essere che europeo». Purtroppo, quel soggiorno anatolico di un alto rappresentante politico dell’Occidente si è svolto nel mezzo di un evento tragico e di un esilio drammatico: l’assassinio del giornalista turco di origini armene Hrant Dink, abbattuto da un giovane fondamentalista, e ora la precipitosa fuga da Istanbul del Nobel Orhan Pamuk, minacciato di morte per i suoi scritti e le idee critiche sul passato asiatico e il presente sempre meno europeo del suo Paese.
Che quella di Pamuk non sia una partenza ordinaria, ma una fuga dalla Turchia e dall’Europa minacciate dai terroristi islamici, lo testimoniano la sua rinuncia a recarsi a Berlino per una laurea honoris causa e l’improvvisa decisione d’invertire rotta su New York con mezzo milione di dollari nella valigia. Pochi giorni prima un ultranazionalista, Yasin Hayal, sospettato di essere il mandante dell’uccisione di Dink, aveva gridato: «Pamuk, stai attento!». Minaccia dura, sinistra, oltrechè attendibile, lanciata attraverso le tv di un Paese musulmano in crisi d’identità, simile per tanti aspetti alla fatwa che aveva già costretto Salman Rushdie a vivere in totale clandestinità per quasi due decenni. Coincidenze storiche, ambientali ed emblematiche che consentono di vedere nel fanatismo islamista, organizzato e determinato, l’erede dei persecutori comunisti di altri Nobel contestati. Solzhenicyn, Pasternak, Brodsky, Milosz, fino a Sacharov premiato per la pace. Ritroviamo, in un caso e nell’altro, la stessa volontà dispotica di tagliare la lingua e spezzare la schiena e la penna a coloro che dissentono e scavano nei sepolcri imbiancati.
Oggi non è certo il giorno adatto a evocare i notevoli pregi letterari di un romanziere che nei suoi libri, similmente al bosniaco Ivo Andric e all’albanese Ismail Kadaré, ha cercato di costruire un ponte fra Oriente e Occidente, fra Anatolia ed Europa, avvicinando mondi e culture con la potenza di una scrittura spregiudicata e moderna. Basterà dire che Pamuk ha dedicato un capolavoro alla madreporica città natale, Istanbul, rievocata nelle foschie dei sobborghi poveri, dei bazar secondari, dei cani randagi e lampioni spettrali fra tuguri etnici e religiosi. Oggi è doveroso ricordare il Pamuk laico. Il Pamuk al quale nessuno aveva «insegnato la religione». Il Pamuk che descriveva atterrito l’epidemia di suicidi femminili nei villaggi sperduti e che contro gli sciovinismi di potere e di setta accusava: «Qui sono stati uccisi 30mila curdi e un milione di armeni: poiché nessuno ne parla, provo a farlo io». Quel severo giudizio sul passato olocaustico della sua terra gli è costato l’accusa ufficiale di vilipendio all’identità turca e, se non fosse stato per le pressioni occidentali e il Nobel già nell’aria, lo avrebbe portato in carcere per tre anni.
Ed è proprio qui il punto più ambiguo, più oscuro, più insolito di una negativa eccezionalità nazionale che vede rincorrersi, nello stesso momento, il nazionalismo cipi-glioso dei governanti e quello non mascherato ma scatenato dei «Lupi» che ormai infestano la Turchia. In questa equi-voca vicinanza ideologica, un nazionalismo legale di potere e il terrorismo illegale delle sette sembrano strizzare l’occhio l’uno all’altro nel famigerato articolo 301 del codice penale, che sanziona coloro che recano offesa all’identità turca e di cui la Ue chiede da tempo, ma invano, l’abrogazione o una netta modifica. Almeno la metà del fantasma di Kemal Atatürk, il geniale modernizzatore della Turchia postottomana, si rivolterebbe nella tomba se vedesse la progressiva e complice deturpazione oscurantista del suo miraggio europeo.
Oltre 50 giornalisti sono stati uccisi dal 1970 al 1999, anno in cui la Turchia avviò le trattative per l’adesione alla Ue. Altri scrittori, giornalisti, intellettuali temerari sono stati quasi simultaneamente perseguitati per via giudiziaria o censurati per via morale dai cattivi discepoli del maestro Atatürk. Prima di partire per l’America, forse per sempre, Pamuk aveva risposto così a coloro che sottolineavano il carattere occidentalizzante delle sue opere: «Ho scritto i miei libri in gran parte per affermare che Est e Ovest non esistono. Per me il mondo è tutt’uno e noi a Oriente, come voi a Occidente, siamo i rappresentanti di due facce della stessa cultura». Speriamo che queste parole di congedo del Nobel autoesiliatosi giungano alla mente, se non al cuore, del «moderato» Recep Erdogan che oggi governa a tentoni la Turchia e vorrebbe diventarne il padrone indiscusso nelle presidenziali di maggio.

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