Per Chirac l'atomica iraniana non è un pericolo cronache e commenti sul nuovo Chamberlain
Testata:Il Foglio - Corriere della Sera Autore: la redazione - Piero Ostellino - Davide Frattini Titolo: «Per Chirac l’Iran con una o due bombe atomiche non è poi così pericoloso - L'Europa indifferente - Tocca all'Europa fermarli prima che siano gli Usa o Israele a doverlo fare»
Dal FOGLIO del 2 febbraio 2007:
Parigi. Il presidente francese, Jacques Chirac, non teme una bomba nucleare nelle mani di un regime integralista islamico il cui presidente inneggia alla distruzione di Israele. “Quel che è pericoloso” con l’Iran – ha detto Chirac in un’intervista al New York Times e al Nouvel Observateur registrata lunedì – “non è il fatto che abbia una bomba nucleare: averne una, forse una seconda un po’ più tardi, non è molto pericoloso. Il pericolo non è la bomba che (l’Iran, ndr) avrà e che non gli servirà a niente. Dove la lancerà questa bomba? Su Israele? Non avrà percorso 200 metri nell’atmosfera che Teheran sarà rasa al suolo”. Martedì, il presidente ha cercato di correggersi, riconvocando i giornalisti per riallineare le posizioni francesi con la comunità internazionale: “coesione” contro il programma nucleare iraniano; a essere “distrutta” non sarebbe Teheran ma la bomba; di Israele “non ricordo di aver parlato”. Ma “il lasciarsi andare” di Chirac è finito comunque in prima pagina. La svolta ha contrariato i partner europei, tanto più che ora devono fronteggiare l’ipotesi di un’Opec del gas tra Iran e Russia (“idea interessante”, ha detto Vladimir Putin). Nel momento in cui il Consiglio di sicurezza dell’Onu deve nuovamente discutere del nucleare, un asse Mosca-Parigi renderebbe impossibile ulteriori sanzioni. Nelle ultime settimane, Chirac si è posto come novello Chamberlain della crisi con l’Iran. Già a metà gennaio – come raccontato dal Foglio – il presidente avrebbe voluto inviare a Teheran il suo ministro degli Esteri, Philippe Douste-Blazy – che ieri ha cercato di riallinearsi con la comunità internazionale – per negoziare un “gran bargain”: l’abbandono delle sanzioni in cambio della non aggressione in Libano. L’iniziativa unilaterale è saltata soltanto dopo i “no” dell’Egitto e dell’Arabia Saudita. In Europa, Parigi guida il fronte di paesi che s’oppone alla richiesta americana di accentuare l’isolamento iraniano, lasciando a Washington e Riad il fardello del contenimento dell’Iran. “Ossessionato” dalla questione libanese e dalla fine del suo mandato, Chirac sta riuscendo a ottenere ciò che, nell’intervista di rettifica, lui stesso dice “l’Iran auspica: la divisione della comunità internazionale”. L’Eliseo s’infuria e grida al complotto americano, ma persino il Monde s’interroga sulla “credibilità” della Francia. In attesa di Sarkozy.
Dal CORRIERE della SERA, l'editoriale di Piero Ostellino
In un'intervista al New York Times, l 'Herald Tribune eil Nouvel Observateur, il presidente francese dice che se l'Iran si dotasse dell'arma nucleare non sarebbe un gran pericolo. Quindi, prevede che, se l'Iran lanciasse su Israele una bomba, il solo risultato sarebbe una reazione israeliana che ne distruggerebbe la capitale, Teheran. Poi, però, Jacques Chirac si accorge di averla detta grossa, riconvoca i giornalisti e confessa di aver creduto di parlare off the record, «non ufficialmente», e di aver capito troppo tardi che, invece, stava parlando on the record, «ufficialmente», finendo col contraddire quanto egli stesso aveva ripetutamente affermato in passato. Peggio il rappezzo del buco. I tre giornali pubblicano sia la prima sia la seconda versione e ne fanno, giustamente, un caso internazionale. Poiché si dice che il solo momento in cui un uomo politico è sincero sia quando commette una gaffe, quella del presidente francese, ancorché formalmente grave sotto il profilo del galateo diplomatico, ha, se non altro, il pregio sostanziale della sincerità. Che piaccia o no, quello è davvero ciò che non solo la Francia, ma l'Europa danno l'impressione di pensare della corsa iraniana all'arma nucleare e, quel che è peggio, delle intenzioni che la sottendono: pervenire alla distruzione di Israele. Concorrono a spiegare l'indifferenza di Chirac, per ciò che significherebbe lo scenario da lui stesso illustrato, gli storici interessi geopolitici e geostrategici della Francia nell'area mediorientale, l'aiuto tecnologico che essa si dice fornisca all'Iran, probabilmente con la Germania e la Russia, nella costruzione della bomba, la prospettiva che il fattore energetico — la crescente esigenza di contare sugli approvvigionamenti di petrolio iraniano — stia diventando il problema più acuto di questo secolo col quale si è aperto il nuovo millennio. Trovano, così, conferma le preoccupazioni degli Stati Uniti e si giustificano le loro pressioni affinché l'Unione europea, finora recalcitrante, imponga all'Iran le sanzioni previste dall'Onu e riduca considerevolmente i suoi rapporti economici e commerciali con Teheran. Poiché, inoltre, l'Italia, secondo gli americani, sarebbe, fra quelli dell'Ue, il Paese più attivo in affari con le compagnie iraniane «coinvolte nel terrorismo e nel riarmo», la gaffe di Chirac solleva una serie di interrogativi che giriamo formalmente al nostro ministro degli Esteri, onorevole Massimo D'Alema. Che cosa egli pensi di un Paese membro delle Nazioni Unite (l'Iran) che minaccia di distruzione un altro Paese membro (Israele); se e come l'Italia, tanto attenta alla diplomazia multilaterale, voglia far sentire nelle sedi multilaterali per eccellenza (le Nazioni Unite e l'Unione europea) la propria voce, che non sia il solito generico appello al «dialogo» fra le parti, di fronte alle ripetute minacce del presidente iraniano Ahmadinejad; come il nostro Paese possa e voglia concorrere, in concreto e in sintonia con i suoi alleati europei e gli Stati Uniti, a scongiurare la prospettiva di una guerra nucleare fra Iran e Israele; che cosa, infine, il governo cui egli appartiene intenda fare, sul piano interno e bilaterale, per evitare che i crediti alle nostre legittime esportazioni verso l'Iran si trasformino, di fatto e per quanto indirettamente, in un'occasione di «affari illeciti» — come denuncia Washington — che comporterebbe una grave responsabilità politica e morale da parte nostra. Una risposta chiara e definitiva sarebbe utile e gradita. postellino@corriere.it
L'intervista di Davide Frattini a Yossi Klein Halevi
GERUSALEMME — «L'Europa non pensi che aver avuto ragione sull'Iraq significa essere nel giusto anche sull'Iran. Ammettiamo che Bush abbia scelto la guerra sbagliata: non è un buon motivo per impedirgli di combattere quella giusta». Quando dice «guerra», Yossi Klein Halevi non pensa (per ora) a uno scontro armato. La forze che lui e la maggior parte degli israeliani vogliono in questo momento veder dispiegate sono diplomatiche: dure sanzioni economiche contro Teheran. «L'Europa dovrebbe guidare questo fronte, non gli americani. Perché ha un doppio dovere morale: impedire un nuovo Olocausto e fermare Teheran senza che Washington o Israele debbano colpire militarmente. Se si arriverà all'intervento come ultima risorsa, la responsabilità sarà solo degli europei». Intellettuale dello Shalem Center di Gerusalemme, Klein Halevi ha appena pubblicato una lunga requisitoria sulla rivista The New Republic, scritta con l'amico e storico militare Michael Oren. Intitolata Contra Iran, racconta il «peggior incubo israeliano» e nel finale cita il filosofo francese André Glucksmann: «Minacciando di distruggere lo Stato ebraico e cercando di ottenere i mezzi per farlo, Mahmoud Ahmadinejad viola i due tabù su cui è stato costruito l'ordine mondiale dopo la Seconda Guerra: mai più Auschwitz, mai più Hiroshima». «La comunità internazionale — scrivono Klein Halevi e Oren — ha l'opportunità di mantenere quell'ordine. Se fallisce, Israele non avrà altra scelta che mantenere il suo ruolo di rifugio per il popolo ebraico». La gaffe atomica del presidente Jacques Chirac lo ha sorpreso «perché in questi mesi ho parlato con fonti diplomatiche e dell'intelligence francese, Parigi ha ben chiara la minaccia rappresentata dall'Iran, molto più che in altre capitali». Eppure — ed è questo che lo preoccupa — Chirac sembra aver espresso quello che pensano molti europei: «Il pubblico non sta prendendo il pericolo in modo serio. Il dibattito è dominato dalla domanda "che cosa succederà al mondo, se Teheran verrà attaccata?". Per noi la questione è opposta: che cosa succederà, se non ci saranno vere sanzioni o un attacco». Klein Halevi considera assurda l'idea di considerare Teheran un fattore stabilizzante in Medio Oriente, un partner con cui dialogare. «Questo è il classico approccio dell'appeasement: l'Occidente è pronto a pagare un prezzo perché il regime controlli se stesso. L'Iran è una fonte di instabilità in Iraq e in Libano, per smetterla gli ayatollah chiedono di essere lasciati in pace sullo sviluppo del programma nucleare. Più vogliono ottenere, più favoriranno il caos nella regione». I regimi arabi sunniti temono che i religiosi sciiti estendano troppo la loro influenza. «C'è già una corsa al nucleare, almeno negli annunci, dall'Egitto all'Arabia Saudita. Perché quando tutti sono convinti che Israele abbia la Bomba, nessun Paese in Medio Oriente ha mai sentito il bisogno di dotarsi di armi atomiche? Perché perfino agli arabi lo Stato ebraico è sempre sembrato razionale ed equilibrato». Il laburista Ephraim Sneh era stato incaricato negli anni Novanta da Yitzhak Rabin di seguire il dossier iraniano. Il primo rapporto dell'intelligence militare sul programma nucleare di Teheran viene presentato a Rabin nell'estate del 1992, poco dopo essere diventato premier. Ex generale dei paracadutisti, oggi viceministro della Difesa, Sneh è convinto che all'Iran basti ottenere la tecnologia per «cancellare» Israele. «Saranno in grado di distruggere il sogno sionista senza dover schiacciare il bottone». Klein Halevi è d'accordo e lo spaventano le parole di Chirac («una o due bombe non sono molto pericolose»): «Il quotidiano Maariv ha pubblicato un sondaggio: il 27% degli israeliani è pronto a lasciare il Paese, se Teheran annuncerà di avere armi nucleari. Se ne andranno quelli che hanno i soldi per farlo, il doppio passaporto, una laurea che permetta di trovare un lavoro. Le élites. A quel punto la promessa sionista di creare un rifugio per gli ebrei sarà fallita. Senza bisogno di schiacciare il bottone».