La società isoli chi nega la Shoah come rispondere al crescere dell'antisemitismo e del disinteresse per la memoria storica
Testata: La Repubblica Data: 31 gennaio 2007 Pagina: 49 Autore: Anna Bravo Titolo: «Se si dice c'è troppa Shoah»
Dalla REPUBBLICA del 31 gennaio 2007:
Secondo un sondaggio dell´Antidefamation League (cfr. Repubblica del 24-1-07) il 49% degli italiani pensa che gli ebrei parlino troppo della Shoah (in Polonia il 52%, in Inghilterra il 28%); sulla domanda se siano più fedeli a Israele che al paese in cui vivono, siamo al primo posto in Europa con il 55% di sì (in Polonia il 52%, in Germania il 50). Dal 2004 il pregiudizio è cresciuto, e sembra cresciuta anche la tendenza a considerare la memoria del genocidio come una questione esclusiva degli ebrei. Non credo sia soltanto l´effetto di una visione compartimentata della storia, in cui degli ebrei dovrebbero occuparsi gli ebrei, delle donne le donne, dei cattolici i cattolici e così via. Questa concezione esiste, e sotto la copertura della correttezza politica fa danni ovunque. Ma qui si tratta di altro, del ritrarsi dalla comunanza nel ricordo costruita faticosamente nei decenni, della rottura del patto morale che riconosce alla Shoah un posto unico nella coscienza dell´Occidente, al di là delle ideologie e delle fedi politiche o religiose. Ora sempre meno. Quel 49% comprende probabilmente un buon numero di persone convinte di sapere già tutto quel che deve sapere un «non ebreo». Siamo di fronte a un nuovo doppio standard, per cui il livello accettabile di informazione varia a seconda dell´appartenenza? Una certa quota per gli ebrei, un´altra per i non ebrei - e quale per i figli di matrimoni misti? A me pare che un non ebreo debba sapere né più né meno di quel che deve sapere un ebreo di pari sensibilità, e che soltanto da questa base possa nascere la condivisione. Con una avvertenza: un non ebreo deve mettere in conto che l´empatia e la buona fede non bastano a rendere il suo discorso «innocente»; che per nominare questo spartiacque della storia non esistono un modo giusto e uno sbagliato, ce ne sono molti e quasi tutti manchevoli. Forse alle radici del senso di colpa che Hannah Arendt aveva riscontrato fra giovani tedeschi non ancora nati ai tempi del nazismo, premeva la consapevolezza di questo ingorgo comunicativo capace di scavalcare le generazioni. Mi chiedo quanti si rendano conto di cosa significhi ricordare in solitudine. Nel suo bellissimo (e colpevolmente non tradotto) Déportation et génocide, Annette Wieviorka nota che per gli ebrei francesi la consapevolezza del genocidio ha avuto bisogno di tempo per formarsi, e fra i motivi indica il bisogno di vivere, dopo lo stigma della diversità, la comunanza con tutte le vittime, l´uguaglianza con tutti i cittadini. Mi chiedo quanti capiscano la violenza implicita nel caricare il diritto/dovere del ricordo su qualcuno, e nel deprecare allo stesso tempo che faccia troppo uso di questa facoltà. Oggi si parla molto di negazionismo e dell´orizzonte politico in cui si iscrive. Giusto, necessario. Ma altrettanto necessario guardare alle forme più o meno mascherate di antiebraismo, di cui le risposte di quel 49% sono un segno. Qui non servono leggi. Servono cultura, informazione, nozioni. Molti politici hanno detto: «bisogna saper spiegare alle nuove generazioni cosa è accaduto e perché è necessario che non accada mai più». Il punto è: e poi? Che di fronte al male (agito, accolto), la conoscenza non abbia di per sé un effetto salvifico è ovvio; se mai c´è da stupirsi delle tante dichiarazioni fiduciose espresse nei dintorni del Giorno della memoria. Ci sono persone che sanno, e approvano; ci sono stati regimi che hanno preso a modello i Lager; chi esibisce la svastica negli stadi non è necessariamente uno sprovveduto inconsapevole del suo significato. Non è risolutiva nemmeno la forma di conoscenza impegnativa e raffinata che dobbiamo innanzitutto ai racconti delle e degli ex deportati, e che passa attraverso l´identificazione - mettere una parte di noi dentro la vita di un altro, far entrare la vita di un altro dentro di noi. Certo, è una via maestra. Secondo una quantità di ricerche americane e europee, a mettere radici sono le storie individuali, le tranches biografiche, che si prestano al registro della narrazione e che possono, a racconto finito, continuare nella mente di chi ha ascoltato, letto, visto. Eppure c´è chi chiude occhi e orecchie, perché identificandosi con le vittime si soffre; o perché un perfetto curriculum di lettore e spettatore non impedisce di trovare più seducente il carnefice. Tutto questo non cancella affatto il dovere di sapere, di comunicare, e di farlo sempre meglio, sperimentando ogni strumento possibile; spinge però a chiedersi come e dove far circolare la conoscenza, a beneficio di chi. In un altro bellissimo libro (Fabio Levi, I ventenni e lo sterminio degli ebrei, ed. Zamorani) sono raccolte le risposte date da studenti torinesi del I anno di Lettere a un questionario aperto sulla persecuzione. Si chiedeva, fra l´altro, come ci si sarebbe comportati con un ipotetico coetaneo negazionista, razzista, odiatore degli ebrei. Una risposta diceva: «Gli racconterei, gli spiegherei, gli direi di leggere Primo Levi. E se continuasse come prima, io lo chiuderei in un sgabuzzino buio». Metafora fulminante della necessità di isolare socialmente quei discorsi. E preziosa indicazione sui luoghi e modi in cui ha senso agire. Non è strano che a parlare sia una persona giovane, i giovani sanno quanto conti per il loro benessere mentale e spirituale l´accettazione del gruppo dei pari, della cerchia di amici; quanto sia devastante esserne espulsi. Lo sgabuzzino buio avverte che esistono limiti all´indulgenza, qualunque sia l´età; che parole e atteggiamenti chiamano in causa la responsabilità personale, e per questo hanno un costo. Probabilmente il ragazzo pensava anche che l´esperienza diretta dell´esclusione fosse un buon modo per sollecitare la comprensione di quella altrui. Può sembrare poco caritatevole, ma se si pensa a certe ottusità marmoree è piuttosto saggio. Il gruppo amicale è una struttura particolarmente forte, ma il discorso vale per ogni ganglio della coesione sociale, dalle scuole alle reti di parentela alle Chiese, dagli ordini professionali alle associazioni di ogni tipo. E´ vero che la cosiddetta società civile non va mitizzata, ma è vero anche che mantiene al suo interno una innervatura di relazioni cruciale per la costruzione del sentire comune. Lo sapevano bene i nazisti, che già entro la fine del 1933 avevano soppresso o riassorbito nelle loro organizzazioni tutti i club, le cooperative, le associazioni indipendenti - sportive, religiose, amatoriali, filantropiche, ricreative. «Non c´era più vita sociale; non si poteva neanche avere una bocciofila», racconta un protagonista del libro di Allen Come si diventa nazisti. Persino le riunioni familiari e le sere in birreria potevano finire sotto controllo poliziesco, tanto era il terrore dei liberi rapporti fra persone. E´ nei gruppi intermedi fra singolo e Stato che dovrebbe esistere uno «sgabuzzino buio»; e che potrebbe trovare concretezza la lotta contro negazionisti, riduzionisti, e sciocchi all´apparenza innocui. Se ricordare non può essere un obbligo, non lo è neppure stringere loro la mano, sedere alla stessa tavola (e allo stesso tavolo), ascoltarli, sopportarne l´ignoranza narcisistica - «io non l´ho mai letto, non l´ho mai sentito». Nella sfera sociale esistono possibilità di intervento che la sfera politica non conosce. Esistevano persino, e non comportavano rischi terribili, nella Germania anni Trenta: se le cerchie socialmente importanti - degli aristocratici, dei militari, degli industriali - avessero allontanato i nazisti; se chi trovava divertente spaccare le vetrine di un negozio di ebrei fosse stato messo ai margini dal suo gruppo di riferimento; se le persone «rispettabili» avessero manifestamente preso le distanze dal regime. Si dice che la storia non si fa con i se; ma è con i se che si capisce che le cose potevano andare diversamente, che il nazismo non era scritto nel destino della Germania e non era soltanto il frutto di grandi processi impersonali. In fondo, a proposito di isolamento sociale, non c´è neppure bisogno dell´appoggio di un gruppo. Chiunque è padrone di respingere chi vuole, di ritirargli il diritto di cittadinanza nella sua casa, il diritto di accesso ai suoi pensieri, ai suoi amici, ai suoi libri, al suo indirizzo di posta elettronica, al suo telefono. Sarebbe bello poter dire: «se qualcuno non vuol sapere, non vuole condividere, se nega, se mente, peggio per lui». Solo che il peggio non consiste in un processo, dove potrebbe addirittura giocare la parte del martire del libero pensiero. Il peggio deve venire da vicino, dalla quotidianità. Dallo sgabuzzino buio. Da singole persone che sappiano far circolare conoscenze e cultura, ma facendo leva sul dovere di tradurle nei comportamenti. E in comportamenti visibili: di fronte a un´offesa, tacere in pubblico e solidarizzare in privato è un escamotage in voga dai tempi delle leggi antiebraiche del ‘38. Molti ex deportati puntano da anni a allargare l´area di risonanza della loro memoria, a moltiplicare le voci. Come se, accanto ai testimoni oculari, si cercasse di far nascere figure nuove, una sorta di «testimoni mentali» che, pur non avendo vissuto l´esperienza, siano in grado di farne propri i significati e di trasformarsi da ascoltatori in narratori. Ora penso che potrebbero in qualche caso avere anche il ruolo del teste di accusa. Contro una menzogna, un insulto, una indifferenza esibita, una scritta sui muri, una battuta pronunciata chissà dove. Non per la dubbia pretesa di farsi paladini degli ebrei, semplicemente per una questione di decenza, per amore di sé, perché pensano che se non lo fanno loro, forse non lo farà nessuno.